Carlo_Betocchi

“Diarietto invecchiando” 1961, Carlo Betocchi, recensione di Elena Di Gesualdo e Elvio Bombonato

Il tempo ci rapisce, e il cielo è solo
anche di queste rondini che il volo
intrecciano, pericolosamente,
come chi va cercando nella mente

qualche nome perduto… e il ritrovarlo
nemmeno conta, poiché ormai è già sera.
Eh sì! S’invecchia, e ritorna più vera
la vita che già fu, rosa da un tarlo…

un tarlo che la monda. E vien la sera.
E i pensieri s’intrecciano, e le rondini.
E non siamo più noi; siamo i profondi
cieli dell’esistenza, ahi come intera

e profondissima, cupa, nel suo indaco.

CARLO BETOCCHI,  “Diarietto invecchiando” 1961

Betocchi (1899-1986) è un altro poeta,  sommo, dimenticato.  Questa poesia è una meditazione sulla vecchiaia, la sera della vita.  Tre quartine di endecasillabi piani, più l’ultimo verso irrelato.  Rime baciate nella 1° quartina, incrociate nelle altre due.  “Rondini/profondi”:  rima resa imperfetta dall’ipermetria.

Nella prima strofa domina il tema del tempo che scorre inesorabile, e che ci annuncia il termine dell’esistenza, breve, prossima alla sua imminente conclusione; un’esistenza intrecciata dai tanti ricordi, dalla pluralità di incontri, di cui la memoria ricerca il volto, il “nome”.  Questa rievocazione è quasi rischiosa per il poeta, come sono “pericolosissimi” i voli delle rondini che intrecciano in cielo il loro percorso;  un cielo che Betocchi definisce “cupo” e “solo”, perché sono queste le tinte attribuite alla vecchiezza, la malattia (“Il passero solitario”) che Leopardi detestava, pur accettandola.                                                                                                                               La rassegnazione a questo stadio della vita emerge nella seconda strofa.  Sembra invece che, guardando a ritroso le nostre esperienze, esse siano “più vere”.  Forse Betocchi rimpiange, come Leopardi – il suo poeta prediletto – il tempo passato, la giovinezza (“A Silvia”) di cui non seppe godere appieno.  “Il tarlo che la rode” è l’immagine del tempo che non è più, perso per sempre, ma che ci fa assaporare con quanta intensità abbiamo vissuto: “il tarlo che monda. E vien la sera”.  Questo è il verso che apre l’ultima strofa, calando autore e lettore nella profondità dell’ultimo momento della vita, quando ci dileguiamo e sprofondiamo nell’intensità di una dimensione oscura, anche se dallo sfondo sereno, “indaco”, a evocare la pace (Foscolo “Alla sera”), lo spegnersi di ogni anelito, persino di quello cui Betocchi accenna ai vv. 5/6 “ritrovarlo nemmeno conta”.  E’ vano scavare tra i ricordi, inutile riportare alla luce identità perdute, perché “Noi non siamo più noi”. 

La sintassi di Betocchi è complessa, quasi contorta nella prima strofa: che pronome relativo soggetto riferito a “rondini”, accentuata dal paragone (similitudine breve).  L’anafora della terza strofa, la catena di E (iterata 5 volte) fa da traliccio al climax dei vv. 9/13.  Il volo delle rondini è “inquieto come il pensiero e la memoria del vecchio poeta”, cui fa da accumulazione il “tarlo che rode e monda la vita” (ossimoro). Vita paragonata alla sera, topos della vecchiaia. 

elena di gesualdo – elvio bombonato

Foto wikipedia