Esistono molte filosofie del tutto ed ogni uomo cosciente ha una sua filosofia di vita. In fondo ogni ideologia, ogni filosofia, ogni psicologia è un modo di concepire e conoscere il mondo genericamente. Anche chi conosce in modo specifico e dettagliato una dottrina filosofica conosce tramite essa il mondo in modo molto grossolano e sporadico. Per quanto ricerchiamo la profondità siamo esseri destinati a vivere per la maggioranza del tempo in superficie, distrattamente, nell’assenza, ripetendo per buona parte del tempo abitudini ed automatismi, andando avanti per inerzia, vivendo sopraffatti da noia ed alienazione. Non mentite a voi stessi né negate l’evidenza dei fatti, delle cose della vita. Cerchiamo di non pensare alla morte perché ci fa paura. È così, è accertato. Chi vuole chiarificare la sua esistenza, come scriveva Jaspers, deve cercare di raccogliersi, di concentrarsi, di trovare un momento di riflessione. Qualsiasi momento può essere quello che ti dà il senso dell’esistenza. Può giungere senza cercarlo e può non arrivare mai dopo decenni di attesa. Molti si aspettano una ideuzza, una mezza trovata, un piccolo concetto creativo che sia in grado di far loro cambiare vita. Molto spesso non arriva nessuna idea, nessuna svolta, nessuna rivoluzione copernicana. C’è chi vuole conoscere sé stesso e si ritira dal mondo infruttuosamente perché gli altri e il mondo comunque lo ossessionano e non riesce a liberarsi di loro. C’è chi si trova al bivio tra avere ed essere: non sa cosa scegliere, cerca di tenere il piede in due scarpe e intanto il tempo passa. C’è chi privilegia la materia e poi si trova in preda ai sensi di colpa e chi privilegia lo spirito e poi si riscopre più carnale di prima. C’è chi vuole fare del bene e chi cerca la giustizia, ma forse il bene e la giustizia non sono cose di questa terra, non sono cose umane. C’è chi vive in base al senso del dovere, ma poi forse tutto è insensato. C’ė chi pensa di fare, dire, essere ciò che sente. Ci sono psicologi che dicono di vivere autenticamente e di eliminare falsi sé, ma probabilmente sarebbero loro stessi a dover dare primi tra tutti l’esempio. C’è chi come scriveva Nietzsche vuole diventare ciò che è. Ma fare ciò che si sente e divenire ciò che si è può creare molti guai e poi bisogna vedere se questo fa stare bene con sé stessi. C’è chi vuole trovare l’amore, amare ed essere amato, ma l’amore non dura tutta la vita e molto spesso le aspettative vengono deluse. C’è chi vorrebbe essere preso per ciò che è, ma nessuno sa veramente ciò che è. C’è chi cerca la verità negli altri e nel mondo, vive in modo completamente estrovertito, ma il rischio è quello di non trovare persone giuste da cui imparare qualcosa. C’è chi cerca la verità nei libri, ma il rischio è di essere troppo teorici e non acquisire senso pratico. C’è chi cerca la pace interiore, l’equilibrio psicologico, ma la conoscenza di sé stessi è discontinua e poi anche le persone più stabili hanno i loro sfasamenti. C’è chi cerca di imparare dai suoi errori, compiere un percorso di autoperfezionamento, ma nuovi errori lo attendono di nuovo, sono sempre dietro l’angolo e inoltre nella vita è difficile non ripetere errori già fatti. C’è chi rimanda continuamente ogni scelta perché poi pensa che non sia possibile scegliere ed è fatalista. C’è chi cerca di evitare il dolore e ricercare il piacere, ma talvolta dentro il dolore si trova il piacere e viceversa; c’è un intreccio indissolubile, un continuo rimando tra piacere e dolore, non ci può essere l’uno senza l’altro. C’è chi cerca Dio e chi lo evita, chi lo prega, lo ama e chi lo odia e lo nega, chi rimane nel dubbio e sospende il giudizio. A qualcuno manca sempre qualcosa o qualcuno: l’esistenza perfetta non esiste, una vita tutta di gioie è impossibile perché ad ognuno ad un certo punto si presenta sulla sua strada il dolore, la perdita, il fallimento, il vuoto. Se anche fosse possibile una vita tutta di gioie non sarebbe pienamente compresa, valorizzata, goduta perché non ci sarebbe altro termine di paragone. C’è chi ricerca la felicità. Per gli antichi si poteva vivere una vita felice, compiendo un percorso etico. Per noi moderni la felicità è un “momento puntuale” come dice Ilaria Gaspari, insomma uno stato d’animo passeggero e niente più. Bisogna decidere cosa si intende per felicità. C’è chi ti dice di essere te stesso e chi ti dice di rimanere ciò che sei. Ad onor del vero non mi piacciono e non credo ai tipi filosofici della filosofia pratica perché a mio avviso ricalcano e scimmiottano i tipi psicologici di Jung. A mio avviso è una generalizzazione perché ogni uomo ha un suo modo di approcciare l’esistenza. Leggevo un articolo sugli eremiti e c’era uno che dichiarava che tutti dovremmo ritornare all’essenziale e alle cose veramente essenziali. Ma è facile a dirsi e difficile a farsi. Secondo Thoreau le cose veramente importanti nella vita di ognuno stanno sulle dita delle mani. Dovremmo perciò semplificare perché la vita è più semplice di quello che immaginiamo. Spesso ci complichiamo la vita con atteggiamenti innaturali e elucubrazioni artificiose. Di una cosa sono sicuro: dovremmo rivendicare il diritto di poter cambiare. Nessuno è obbligato alla coerenza esistenziale. Ci si può sempre correggere in corsa. Ogni uomo ha un suo modo di intendere la vita, anche se non è detto che tutti lo formulino, lo esplicitino. Alcuni credono alla conoscenza tacita, ad imparare dai maestri, osservandoli in silenzio. A volte si può imparare anche in silenzio e dal silenzio. A volte può essere solo una illusione perché alcuni lati dell’esperienza non sono trasmissibili. Certe cose della vita si possono solo imparare quando ci accadono nella nostra vita. Spesso le cose della vita non si possono conoscere per sentito dire né per interposta persona. Ad ogni modo buona vita.
Concordo con la tua opinione. E certo è difficile – come al solito – trattare temi generali o specifici in maniera esaustiva senza lasciare fuori nulla perché, vuoi o non vuoi, inevitabilmente qualcosa va oltre e va bene così, fa parte del gioco – anche se spesso ci focalizziamo troppo sul preciso significato delle parole, perdendo di vista il legame che queste (anche le più diverse e opposte) stringono con il soggetto umano risultando tutte quante, in realtà, semplici sinonimi -; perciò voglio fare una domanda abbastanza ovvia, immagino:
questo discorso funziona molto bene, ammesso di accordare la presenza della “coscienza”… ma quale “coscienza” intendi?
Certamente non c’è una coscienza superiore né inferiore (in senso oggettivo), se non all’interno di una precisa società con certe forme storiche ecc. ecc. e quindi una arbitraria in cui una marea di persone si affannano a metter paletti per distinguere tutti e al contempo includere tutti in maniera politicamente corretta istituendo di fatto una freccia, un peso e una misura, commettendo insomma una brutalità perché non esiste nulla di più fuorviante della negazione del relativismo culturale. Allo stesso tempo, però, anche solo per fare pochi passi o vivere senza il timore per il proprio vicino abbiamo bisogno di un retroterra comune. Perciò, nonostante il paradosso, chiamiamo folle qualcosa che non possiamo comprendere appieno e sano ciò che è comune, mentre geniale qualcosa di raro e finalizzato al beneficio dei più.
Detto tutto questo (scusami): a quale coscienza ti riferisci? Una di un mondo “naturale” o “artificiale”? Perché per rivendicare il diritto di cambiare serve una coscienza “forte” cioè una che lo sia effettivamente, altrimenti una “naturale” non ha bisogno di rivendicare alcunché, è già perfetta così e già soggetta a tutti i cambiamenti possibili e immaginabili; mentre quella “artificiale”, in quanto specifica, necessita di uno sforzo che, non so se la pensi come me, ma, non è da tutti – e non lo dico per arroganza, ma per lo sconforto dei miei riscontri. Io concordo con questo articolo perché le coscienze che si chiamano tali, per me, hanno già compiuto quel passo in più per cui è possibile rivendicare il cambiamento o trovare la propria felicità e equilibrio per cui non importa in quale abbrutimento possano incorrere, il difficile stava dietro, e sebbene il futuro possa riservare altro non-sense possono cambiare o cambiarlo (fare o disfare) proprio grazie alla coscienza maturata.
Scusa per il lungo commento, mi è davvero piaciuto il tuo articolo. La maggior parte non fa che parlare per autori (travisandoli o meno) senza parlare direttamente e dire effettivamente qualcosa convinti di essere filosofi quando questi non esistono più da molto tempo ormai. Grazie.
Concordo con la tua opinione. E certo è difficile – come al solito – trattare temi generali o specifici in maniera esaustiva senza lasciare fuori nulla perché, vuoi o non vuoi, inevitabilmente qualcosa va oltre e va bene così, fa parte del gioco – anche se spesso ci focalizziamo troppo sul preciso significato delle parole, perdendo di vista il legame che queste (anche le più diverse e opposte) stringono con il soggetto umano risultando tutte quante, in realtà, semplici sinonimi -; perciò voglio fare una domanda abbastanza ovvia, immagino:
questo discorso funziona molto bene, ammesso di accordare la presenza della “coscienza”… ma quale “coscienza” intendi?
Certamente non c’è una coscienza superiore né inferiore (in senso oggettivo), se non all’interno di una precisa società con certe forme storiche ecc. ecc. e quindi una arbitraria in cui una marea di persone si affannano a metter paletti per distinguere tutti e al contempo includere tutti in maniera politicamente corretta, istituendo di fatto una freccia, un peso e una misura, commettendo insomma una brutalità perché non esiste nulla di più fuorviante della negazione del relativismo culturale. Allo stesso tempo, però, anche solo per fare pochi passi o vivere senza il timore per il proprio vicino abbiamo bisogno di un retroterra comune. Perciò, nonostante il paradosso, chiamiamo folle qualcosa che non possiamo comprendere appieno e sano ciò che è comune, mentre geniale qualcosa di raro e finalizzato al beneficio dei più.
Detto tutto questo (scusami): a quale coscienza ti riferisci? Una di un mondo “naturale” o “artificiale”? Perché per rivendicare il diritto di cambiare serve una coscienza “forte” cioè una che lo sia effettivamente, altrimenti una “naturale” non ha bisogno di rivendicare alcunché, è già perfetta così e già soggetta a tutti i cambiamenti possibili e immaginabili; mentre quella “artificiale”, in quanto specifica, necessita di uno sforzo che, non so se la pensi come me, ma, non è da tutti – e non lo dico tanto per arroganza, quanto per lo sconforto dei miei riscontri. Io concordo con questo articolo perché le coscienze che si chiamano tali – per me – hanno già compiuto quel passo in più per cui è possibile rivendicare il cambiamento o trovare la propria felicità e equilibrio per cui non importa in quale abbrutimento possano incorrere, il difficile stava dietro, e sebbene il futuro possa riservare altro nonsense possono cambiare o cambiarlo proprio grazie alla coscienza maturata.
Scusa per il lungo commento, mi è davvero piaciuto il tuo articolo. La maggior parte non fa che parlare per autori (travisandoli o meno) senza parlare direttamente e dire effettivamente qualcosa, convinti di essere filosofi quando questi non esistono più da molto tempo ormai. Grazie.
La coscienza è oggetto di studio per la psicologia, l’etica, la teologia, la medicina, la filosofia, la politica, la letteratura. Ad esempio a livello morale si usa dire “la voce della coscienza”, che in fondo è la nostra parte più intima e con cui tutti dobbiamo fare i conti. Si usa anche dire “rimorso di coscienza” quando si ha un senso di colpa perché abbiamo compiuto una cattiva azione. La coscienza riguarda anche la
teologia perché esiste in noi anche il numinoso, ovvero il sentimento del sacro. In letteratura esiste il flusso di coscienza. Basta leggere la Woolf, H. James, W. Faulkner, Joyce. Gli scrittori inseguivano i loro pensieri senza punteggiatura. La loro scrittura registrava i dati psicologici, la loro interiorità; descriveva la loro mente che vagava da una idea all’altra. Allora la mente non era ancora considerata esclusivamente un insieme di processi fisico-chimici. Naturalmente da allora è innegabile che siano stati fatti dei passi in avanti perché non si parla più di spirito e sappiamo che privati del sistema limbico non sapremmo più provare emozioni. Secondo la psicologia la coscienza è innanzitutto autoconsapevolezza. È allo stesso tempo consapevolezza del vissuto e responsabilità delle proprie azioni. Per Jaspers è “la vita psichica di un dato momento”. È autoriconoscimento, memoria di sé,
percezione di sé, conoscenza di sé, senso di sé; recentemente i neuroscienziati hanno parlato di sè autobiografico, ovvero conoscenza del proprio passato e presente. Coscienza significa accorgersi anche degli stimoli esterni. Coscienza è attenzione. È consapevolezza della propria identità. È organizzazione psichica di attenzione, memoria, linguaggio, desideri, intenzioni, emozioni, valori, stati mentali. Secondo il cognitivismo è anche metacognizione, ovvero conoscenza delle proprie operazioni mentali. Tutto ciò risulta in parte labile ed ineffabile. A tal riguardo dobbiamo ricordarci che il Sé è sempre sfuggente ed elusivo. Ma non è solo questo il problema. Secondo gli scienziati un’ulteriore complicazione deriva dal fatto che la
coscienza è difficile da analizzare perché è un processo e non un oggetto come gli altri. Molte cose che sappiamo della coscienza le sappiamo grazie all’introspezione. La coscienza è un mistero. È dal 1879 che la psicologia studia ufficialmente la mente. Infatti in quell’anno Wundt aprì nell’università di Lipsia un laboratorio per studiare
sensazioni, percezioni, associazioni mentali. Nonostante ciò gli psicologi non riescono ancora a mettersi d’accordo a proposito. La questione è tra le più complesse. Sono innumerevoli gli aspetti problematici della coscienza. Per la medicina essa è l’attività delle facoltà mentali superiori. Ma cosa riesce a dare unità e coerenza ad essa? È possibile una teoria della coscienza valida senza avvalersi della
soggettività? Attualmente molti neuroscienziati sono riduzionisti e alcuni ritengono che sia possibile creare una mente artificiale dotata di coscienza. Per loro la coscienza è l’analisi dei correlati neurofisiologici. È lo studio del funzionamento del cervello tramite le tecniche di imaging, le ricerche sugli animali, lo studio delle lesioni cerebrali. Alcuni riduzionisti e alcuni studiosi dell’intelligenza artificiale
ritengono che il cervello umano possa essere equiparato ad un computer. Però Searle a riguardo ha proposto l’esperimento mentale della stanza cinese, in cui un uomo chiuso a chiave in una stanza non sa il cinese ma ha un calcolatore che riesce a fornire risposte in quella lingua. Si suppone quindi che un computer riesca in futuro a dare risposte in cinese senza però capire la lingua. In questo caso gli input e gli output sarebbero costituiti da ideogrammi, ma l’uomo ignorerebbe il senso di tutto ciò. La mente umana quindi a differenza del computer non è solo sintassi. Fuor di
metafora, solo gli uomini possono comprendere. I computer invece non possono. Un conto è la sintassi e un altro è la semantica. Non solo ma delle macchine per quanto
complesse non potranno mai avere la plasticità neurale degli esseri umani. Altro aspetto rilevante è che non esistono solo sinapsi elettriche nell’uomo ma anche sinapsi chimiche, che determinano gli umori grazie ai neurotrasmettitori. I
computer molto probabilmente non potranno mai sapere cosa è un umore, uno stato d’animo. Inoltre per Vittorino Andreoli la psiche umana è la risultante di tre fattori:
l’eredità, l’esperienza, l’ambiente. Questi tre fattori probabilmente non caratterizzeranno mai un computer. Ma passiamo oltre. Esistono inoltre diversi stati di coscienza come la veglia, il sonno, gli stati alterati dall’assunzione di droghe o alcool, l’ipnosi, la trance, la meditazione, l’estasi mistica. Nessuno sa con certezza che cosa accade in questi casi. Cosa accade poi esattamente in casi come le percezioni
extrasensoriali? Nessuno ancora lo sa con certezza. Un tempo Freud contrapponeva l’attività conscia all’inconscio. La coscienza allora era esclusivamente l’io. Ma ha senso forse oggi questa distinzione così limitativa? Per Husserl ciò che contraddistingueva la coscienza era l’intenzionalità. Ma cosa fa in modo che prestiamo attenzione a degli stimoli piuttosto che ad altri? Nessuno ancora una volta può dirlo con certezza. Sappiamo solo che la nostra mente processa, rielabora e codifica una miriade di stimoli interni ed esterni. Ma ciò che conta è solo quel che resta nella mente. Il resto non deve essere considerato importante. Il resto non conta.
Gli altri stimoli persi, che non sono stati presi in considerazione, vuol dire che non contavano nulla. Per Daniel Kahneman “what you see, is all there is”, che tradotto
significa “tutto quello che vedi, è tutto ciò che c’è”. Sappiamo che c’è una selezione. Sappiamo che c’è un filtro. Conta però solo il risultato finale: la gestalt globale. In definitiva ne sappiamo ancora ben poco allo stato attuale delle conoscenze. Gli studiosi devono essere sintetici edavvalersi dell’indagine empirica. Scusa il gioco di parole ma è il caso di dire che non si è ancora preso totalmente coscienza della coscienza. Forse la mente umana resterà un enigma insolubile.