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Racconti: C’è un uomo che mi viene a trovare una volta al mese all’incirca, di Matteo Bussola 

C’è un uomo che mi viene a trovare una volta al mese all’incirca.

Arriva a piedi su dalla salita, zaino in spalla, lo fa con qualunque tempo, quando arriva suona il campanello e aspetta. È un uomo mite e gentile, avrà più o meno la mia età, vende accendini e spugne e fazzoletti e mollette da bucato, lo fa porta a porta. Parla un italiano a tratti stentato, credo sia senegalese o ghanese. Mi sorride sempre: quando saluta, quando tenta di spiegarsi, quando ringrazia. L’ho visto sorridere sotto la pioggia, in giornate freddissime, in agosto col caldo torrido dopo aver camminato per non so quanto, in situazioni in cui uno come me smadonnerebbe per la fatica e basta. Quando suona io mi affaccio sulle scale, gli faccio un cenno e gli dico: “Aspetta un attimo”, poi salgo a prendere il portafoglio per comprargli qualcosa. Una volta mi ha confessato che nella nostra zona non gli comprano mai nulla, un tizio un giorno gli ha pure risposto male solo perché aveva suonato il campanello. 

Dalla primavera di quest’anno, ho deciso di smettere di comprare anch’io. Un po’ perché non mi serve quasi mai niente, un po’ perché mi sento in colpa a comprare solamente un pacco di fazzoletti a un uomo che si è fatto decine di chilometri in salita a piedi, solo per arrivare a casa mia. Allora abbiamo fatto un patto. Gli ho detto: “Senti, quando arrivi qui da me non aprire nemmeno lo zaino, io non ho bisogno di niente, ma se passi suonami pure che io ti darò sempre qualcosa.”. Lui è rimasto interdetto, subito sembrava non capire, poi ha sorriso e mi ha detto: “Ok.”

Perciò una volta al mese all’incirca l’uomo passa, suona il campanello, io so che è venuto solo per il sottoscritto, allora scendo e gli do una banconota. Non lo faccio perché sono buono, lo faccio perché sono egoista. Perché farlo mi fa sentire bene e lenisce il mio senso di colpa. Il fatto è che la vita con me è stata generosa, con lui un po’ meno. E non posso certo rimediare a questa differenza con dieci o venti euro ogni tanto, ma so che a lui fanno comodo e tanto mi basta.

Qualche giorno fa, mentre stavo incartando gli ultimi regali per le bambine, hanno suonato. Mi sono affacciato ed era lui. Aveva in testa un berretto da Babbo Natale che gli andava un po’ stretto, mi ha salutato dalla strada agitando in aria una mano, io dalle scale gli ho detto: “Arrivo!”

Quando sono sceso e mi sono avvicinato sono scoppiato a ridere, perché indossavo un berretto da Babbo Natale anch’io. Ha riso anche lui.

“Auguri!”, mi ha detto. “Siamo fratelli!”, ha aggiunto quasi subito, indicandomi la testa, e per un attimo ho pensato a quanta verità nascondessero quelle parole. Gli ho chiesto come andava, lui continuando a sorridere mi ha detto: “Male”. Mi ha spiegato le ragioni, ed era male davvero. Allora, per la prima volta dopo tanto, gli ho chiesto di aprire lo zaino. 

“Mi servirebbero dei fazzoletti di carta, per piacere.”

Ha posato lo zaino a terra, ci ha rovistato dentro, ha tirato fuori un pacco. Quando me l’ha passato, ho aperto il portafoglio e gli ho dato tutto quel che avevo. L’uomo mi ha guardato incredulo, ha esitato per qualche secondo, infine ha preso i soldi.

“Auguri!”, gli ho detto, e ha capito che i miei non erano solo auguri di Natale. 

“Grazie mille, auguri auguri!”, ha detto.

“Senti, posso chiederti una cosa?”

Mi ha fissato per un attimo, poi ha fatto di sì con la testa.

“Lo sai che non mi hai mai detto il tuo nome? Tu conosci il mio perché lo hai letto sul campanello, ma io non so il tuo.”

Allora, per la prima volta, me l’ha detto.

“È un nome bellissimo”, ho detto io.

Si è rimesso lo zaino in spalla, ci siamo fatti gli auguri ancora, ci siamo salutati, lui è scomparso alla fine della strada e io sono rientrato in casa. In soggiorno c’era Virginia.

“Papà, chi era?”, ha detto lei.

“Era un mio amico.”

“Un tuo amico chi? Come si chiama?”, ha insistito.

Mentre stavo per risponderle, mi sono messo a pensare a tutte le volte in cui il sorriso di quell’uomo mi ha fatto stare bene, mi è servito per rimettere le cose in prospettiva, mi ha illuminato la giornata, e ho capito che forse non ero io ad aiutare lui, ma era lui ad aiutare me. Mi è tornata in mente quella vecchia storia del nomen omen.

“Papà, perché stai sorridendo?”, ha chiesto Virginia.

“Si chiama Clarity”, ho detto.