Il “Mio” Cammino di Santiago. Di Laura Boero

Da “Si riparano ricordi” 

Camminare mi è sempre piaciuto, quando sono andata in pensione ho venduto la macchina e ho deciso che avrei cambiato vita, sarei andata a piedi, o nei momenti di gran fretta in autobus e neanche per tutto il tragitto.

Scelta mai rimpianta che mi ha giovato, al fisico e all’umore. 

Qualcuno, sentendo delle mie maratone urbane, mi aveva scherzosamente esortato ad intraprendere il Cammino di Santiago, quando non sapevo nemmeno di che cosa si trattasse. 

Poi, però, a forza di sentirmelo proporre (seguivo un corso di Spagnolo e l’ argomento si presentava spesso) mi ero incuriosita ed ero andata a documentarmi.

Avevo così scoperto che il Cammino di Santiago di Compostela era il lungo percorso che i pellegrini fin dal Medioevo intraprendono, attraverso la Francia e la Spagna, per giungere al santuario del Santo, in Galizia, presso cui si trova la tomba dell’Apostolo. 

Inoltre avevo letto che il Cammino non era uno solo, ma si poteva dividere in  tratti diversi che si affiancavano a quello tradizionale che partiva da Pamplona, che se ne poteva scegliere uno in base ai propri limiti, che lo si poteva percorrere a piedi o in bicicletta ed era sufficiente averne percorso anche solo 100 km per ottenere la Compostela, cioè l’attestato di pellegrino. 

Avevo guardato foto su foto e non potevo negare che questo percorso di centinaia di km, da affrontare a tappe, spartanamente, come pellegrini medievali, dormendo negli ostelli, mangiando frugalmente, cercando di arrivare alla meta prima che il caldo rendesse impossibile o la pioggia impraticabile il Cammino, mi aveva affascinato.

Non avevo colto subito il significato altamente spirituale di una tale impresa, ma a poco a poco mi ero resa conto che l’importante non era arrivare alla meta ( La Cattedrale di S. Giacomo ) o ottenere la “compostela ” ma il lavorio, fisico e mentale che il pellegrino compiva su se stesso durante il Cammino, appunto. 

Non era un’impresa sportiva, ma spirituale.

Il contatto diretto con la natura e con la stanchezza, le difficoltà, la solidarietà con gli altri pellegrini, operavano una trasformazione, una maturazione tale, che la persona che arrivava alla meta non era più quella che era partita, così almeno dicevano quelli che il Cammino lo avevano fatto.

Un amico del corso di spagnolo, Adriano, me ne aveva parlato a lungo, aveva percorso da solo quasi 800 km dai Pirenei alla Galizia in quella

“avventura ” e ne era tornato rigenerato. 

Aveva anche lui passato momenti difficili analoghi a quelli che stavo passando io. “Devi andarci, mi diceva, è il momento giusto”

In effetti anch’io avrei voluto cimentarmi in questa prova e contavo anche di allenarmi e prepararmi seriamente al percorso che avrei dovuto affrontare in quei 20 giorni necessari, perché tale era l’impegno di tempo previsto mediamente per compierlo.

Il punto era che io i venti giorni non li avevo.

La malattia di mio padre prima e quella di mia madre dopo mi avevano impedito e mi impedivano di allontanarmi da Torino e tutti i miei programmi erano più che altro una simulazione virtuale nella quale mi immergevo pur di distaccarmi dalla triste realtà in cui ero immersa, insomma, in parole povere, una pia illusione.

Mia madre, persona di gran Fede, sosteneva il mio progetto e mi diceva che, se era destino, io ci sarei andata a Santiago di Compostela, ma io che sono meno religiosa e un po’meno fatalista, vedevo il viaggio altamente improbabile.

Da quando avevo iniziato a pensarci al momento in cui si sono poi verificati gli avvenimenti di cui vi parlo, tre volte avevo programmato e tre volte avevo annullato il viaggio e anche per me gli anni erano passati.

Cimentarmi in una simile impresa mi sembrava sempre meno realistico.

Però, nel 2015, “sentii “che il momento era arrivato, presi il toro per le corna e convinsi Mario a partire. 

Se non riuscivo a farlo a piedi, volevo per lo meno vederlo da vicino questo benedetto Cammino di Santiago, non sarei stata una pellegrina certificata, ma per lo meno avrei incontrato quelli che il Cammino lo avevano fatto davvero e chissà, magari per osmosi, ne avrei tratto giovamento.

Ne sentivo un gran bisogno.

Partimmo così in macchina, Mario ed io, per la Spagna, a metà giugno, non sapendo nemmeno se ce l’avremmo fatta ad arrivare a destinazione. 

L’esito delle telefonate giornaliere con mia madre condizionava la durata ed il proseguimento del viaggio, ogni tappa percorsa ci avvicinava alla meta ma temevamo ogni volta che le sue condizioni di salute ci avrebbero costretti ad un precipitoso ritorno. 

Miracolosamente in quel periodo lei era stata bene e un po’ alla volta ci eravamo lasciati alle spalle, SantAnder, Oviedo, La Coruňa, città magnifiche, piene di carattere.

Cantabria, Asturie e Galizia si erano offerte via via, generose, alla nostra vista durante il lungo viaggio e finalmente il mattino di una splendida giornata di sole ci ritrovammo in direzione Santiago di Compostela. 

Ero un po’emozionata, non lo nascondo, come lo sono tutte le volte che vado a “riconoscere ” un posto piuttosto che a visitarlo e poi avevo una Grazia speciale da domandare al Santo e ci tenevo ad arrivare a destinazione. 

Santiago mi era apparsa subito come una città moderna, ben lontana dal Borgo Medioevale che mi ero immaginata, si proponeva soprattutto come un centro universitario d’eccellenza e ne ero rimasta un po’delusa. 

Ma i pellegrini, mi domandavo, dove sono ?

E da dove arrivano e dov’è la Cattedrale ?

Mille domande mi si affollavano in testa senza che riuscissi a trovare una risposta. 

Finalmente seguendo le indicazioni stradali eravamo arrivati al luogo di ritrovo, Plaza do Obradoiro, davanti alla Cattedrale di Santiago e subito fummo avvolti da un’atmosfera incredibile, senza tempo, di letizia, pace, concordia.

Non so quanta gente stesse passando di lì, chi arrivava, chi partiva, chi sostava, eppure in tutta quella moltitudine non si avvertiva stress, calca, tensione, pericolo. Erano i pellegrini, gli artefici di quella specie di bolla senza tempo nella quale eravamo immersi. 

Giravamo per le stradine in mezzo a gente carica di zaini che si salutava e sorrideva, estranei all’esperienza che “loro” avevano fatto eppure allo 

stesso tempo partecipi; non ci sentivamo esclusi, anzi l’impressione era di una grande accoglienza e integrazione.

Comperai un rosario per mia madre sul sagrato, il mio spagnolo mi fece scambiare per brasiliana , ed entrammo in Chiesa giusto in tempo per assistere alla Messa di mezzogiorno, detta la Messa del Pellegrino. 

La Chiesa all’interno era ancora più maestosa e imponente che all’esterno, uno spettacolo, decine di confessionali con sacerdoti che confessavano in tutte le lingue, non so quanti preti sull’altare a celebrare la Messa. Ognuno recitava a turno l’omelia nella sua lingua ed erano tutte diverse destinate alla sensibilità diversa dei fedeli della propria nazione.

I butafumeiros, enormi, roteavano nell’aria rilasciando incenso, i fedeli passavano senza sosta alle spalle dell’altare, a venerare le reliquie del Santo, conservate in una teca d’oro, e io, compenetrata da quell’atmosfera ed impressionata da quella coreografia, quasi mi stavo dimenticando della Grazia che ero venuta a chiedere. 

La chiesa era gremita, molti erano seduti a terra come in un campeggio, ma nessuno si lamentava, sorridevano, pregavano e cantavano.

Al termine della Messa, uscimmo, paghi e sazi di tutto quello a cui avevamo assistito. 

Nel pomeriggio poi ci spingemmo fino a Finisterre (Fine delle terre emerse e del mondo, per i latini ) e anche lì, nonostante fossimo a un centinaio di Km da Santiago, l’atmosfera irreale aveva continuato ad accompagnarci.

Capo Finisterre infatti è la destinazione finale per molti pellegrini che percorrono il Cammino di Santiago. 

Avevo letto che i pellegrini che si recano lì, secondo una più recente tradizione, bruciano i loro abiti al termine del percorso e poi si tuffano nell’oceano, io li vidi appendere i loro indumenti e le bandiere del loro paese ad un traliccio di metallo posto davanti al mare. 

E’un luogo di gran suggestione, noi lo visitammo in una giornata di sole, ma immagino che con la foschia ed il suono delle cornamuse in sottofondo faccia un effetto travolgente. Un salto nel tempo insomma.

La conchiglia incisa ai bordi della strada ci diceva che anche noi eravamo pellegrini, le bandiere lasciate in ricordo del passaggio, appese alla torre di metallo davanti all’oceano, raccontavano la storia di altri, non la nostra, ma anche noi stavamo percorrendo il Cammino del Nord, anche a noi era costata ansia e fatica arrivare fin lì.

Davanti, oltre il mare, c’era solo l’America.

Posso aggiungere che quel dicembre 2015, la grazia che avevo chiesta, fu “quasi” sul punto di essermi concessa e per un mese godetti di una pace che da anni non conoscevo. 

Poi, però, forse perché il Cammino non lo avevo fatto davvero, tutto si guastò e la situazione tornò al punto di partenza. 

Mia madre intanto si era aggravata e da quel momento in poi, per due anni, non pensai a nient’altro che alla sua salute.