Non avevo ancora preso il coraggio a due mani per trovare la forza di guardarmi dentro e chiedermi come avessi metabolizzato la perdita di mia madre.

Oggi, a distanza di pochi mesi dalla sua morte, nell’ansa della memoria, i ricordi tracimano e mi invadono. E chiedono di uscire dal tunnel del dolore  e chiedono di essere animati ed affrontati per dimostrare che l’esistenza non si è persa nel vuoto della dimenticanza.

Affrontare il percorso  degli ultimi istanti mi procura un’ afflizione troppo forte e non so se scrivere ciò che provo possa darmi sollievo o infliggermi un’ulteriore sofferenza. Nebbiosa è la circostanza che io tento di focalizzare; sfuggente l’immagine della donna che mi ha messo al mondo e che ho amato, e amo, visceralmente senza pudori.

In una sfocata sera d’inverno, un’impressione desolante mi agghiaccia il pensiero.

Tubi di flebo e cateteri: un corpo martoriato da aghi e da smarrimento confuso.

“Nella sua inconsapevole amnesia forse non soffre, mia madre, o vive il suo dolore mediato da uno schermo di riflessi ritardati.”- analizzo le mie sensazioni e un soffuso scoramento mi assale subdolamente.

Le accarezzo le mani tormentate da ecchimosi bluastre e sento tra le dita riverberi primigeni che scaturiscono dal contatto con la sua pelle morbida. Quante volte ho stretto quelle mani per cercare sicurezza, per ricorrere all’affetto materno, per assicurarmi il mio essere al mondo, per ringraziarla e anche rincuorarla nei momenti di fragilità per la malattia incombente!

La mamma è sempre stata una donna forte, una roccia, per usare una metafora appropriata. Orfana già nella sua prima giovinezza, ha iniziato a rimboccarsi le maniche e a gestire la sua vita in maniera indipendente e precorritrice sui tempi. L’incontro con mio padre è stata una giusta ricompensa per gli innumerevoli affanni patiti e il loro amore è stato un esempio per molti scettici sul matrimonio. Il coraggio che ha dimostrato nei vari accadimenti verificatisi nel corso della sua vita, l’hanno fatta assurgere al ruolo di donna saggia ed assennata, dispensatrice di consigli e suggerimenti forniti al momento giusto. Un susseguirsi di fasi entro cui si è dipanata la sua esistenza, tra gioie e dispiaceri, in un’altalena di traversie che l’hanno immancabilmente divorata, facendola precipitare in una depressione insinuante, devastante e vittoriosa alfine.

Dopo la morte di mio padre non ha cercato più la vita, che prima rubava negli spiragli tra una crisi e l’altra. Non ha rincorso più i giorni, ma li ha subiti nel lento sgranare di ore solitarie. E allora la sua mente si è infittita di ombre e, come una corolla al tramonto, si è ripiegata in se stessa, chiudendosi, alla ricerca di fantasmi inebriati dalla fallace luce del ricordo.

E’ strano raccontare in poche righe la storia della persona che ho tanto amato e che ho visto morire.  Quando ha cessato di respirare, tra le mie braccia, istintivamente ho pensato di infonderle il mio respiro per vederla ancora viva. Guardavo il suo viso mentre una lacrima, l’ultima lacrima, le rigava silenziosamente, teneramente, furtivamente, il volto pallido mentre gli occhi si perdevano rivolti verso un mondo inesplorato e inesplorabile. Un volto impresso dentro di me; uno sguardo che mi brucia nell’anima, che mi tormenta nelle notti insonni, che mi rende disperata e furiosa e che mi fa disprezzare il mio essere al mondo.

Non si può chiudere in questo modo un’esistenza che poi resta solo nel ricordo. Non posso accettare un inganno così astutamente architettato da un oscuro determinismo non identificato. Chi decide quando nascere e chi decreta quando morire? Chi sovrintende al percorso esistenziale e stabilisce quando l’ultimo respiro si confonde col respiro dell’aria? Per quale astrusa macchinazione, un attimo imprecisato deve essere causa di annientamento definitivo? Non so rassegnarmi …

E’ ancora troppo vivo il rammarico di non aver strappato al crudele “Tristo mietitore”, bramoso di brandire la sua falce, la mia mamma,  preziosa e insostituibile. Ho vissuto il suo trapasso come inebetita, incapace di vedermi dentro e cercare una via di fuga. Avrei voluto correre e gridare al vento la mia disperazione e poi cercare nel vento la sua voce che mi chiamava.

La sua voce! Non avrei più sentito la sua voce, non avrei più accarezzato le sue mani o baciato le sue guance dall’inconfondibile buono odore di mamma …

Bambina, ricordo che l’abbracciavo e chiudevo gli occhi, nell’impegno di imprimere il suo aroma tra i profumi cari e poi le sussurravo: “ Profumi di mamma!”. In quegli istanti affioravano le sensazioni della prima infanzia, quando mi rifugiavo tra sue braccia per salvarmi dai “mostri” della notte. Credo che non si fosse mai reciso il cordone ombelicale, perché a distanza di tempo, la sua rassicurante presenza bastava a tranquillizzare le mie innumerevoli ansietà.

Eppure, oggi, nonostante il mio bisogno di “lei”, mia madre non c’è più ed io non so dove cercarla. Non so dove trovarla …

Tra le stanze vuote di una casa dove la sveglia non batte le sue ore e l’eco della sua voce si riflette sulle pareti disadorne di realtà e di vita.

Tra le rose sfiorite di un giardino senza tempo e senza pianto, orfano delle sue cure, dove  mi pare di vederla arrivare, con lo sguardo fiducioso.

E mi sembra di abbracciarla e di risentire il profumo della sua pelle nel cantuccio del suo cuore palpitante, mentre l’effluvio intorno mi inebria di ricordi mai scordati tra le pieghe della memoria …

In un naufragio di sogni, tra le sue braccia che mi avvolgono con immutato amore, schermata da onde selvagge e impetuose, respiro la brezza di una novella alba.

Maria Rosaria Teni

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