Leonardo Migliore

~ LE LACRIME VERSATE PER AMORE ~

di Leonardo Migliore

Nel crepuscolo serale

scorsi la donna più bella sulla quale avessi mai posato gli occhi

e, per un attimo,

tutta la gran folla che aveva intorno scomparve,

non rimase altro che il deserto.

Era una meravigliosa creatura dotata d’incomparabile fascino.

Ritratta dal pennello di Tiziano,

la sua voce possedeva le note del violino di Paganini.

Era un sole che accecava,

illuminandosi d’argento in un bel chiaro di luna.

Organizzato un falò in spiaggia,

la vidi ballare fra le infinite fiamme dei miei inutili pensieri.

Stese le braccia lungo il mio collo,

per scacciare un occasionale spasimante.

Il morire silenzioso di un giorno indolente

ringraziò con innata civetteria.

Con simpatia e intenzione,

i miei occhi inondò con l’onda del suo sguardo,

un lampo mi scosse dal torpore.

Rivolta verso il mare, s’allontanò,

lasciando trasparire una garbata espressione di letizia.

Un tuffo sotto la coltre stellata,

il perdersi nella notte e il suo riaffiorare.

Era Afrodite nata dalla spuma del mare,

l’amante del sorriso che, con la sua adorna fascia,

serrava un cuore pensoso precipitato sulla soffice sabbia.

Poi il cantare, il ballare e il mangiare in compagnia intorno al fuoco.

Avvolta in un lenzuolo,

la sua leggiadria

sciolse il ritmo forsennato di un torrente che premeva nelle mie vene,

la voga su placide acque si fece lene.

Rovistò la sua borsa in paglia intrecciata

con ampi manici e punteggiata da pompon bianchi e turchesi.

Ne estrasse, da una piccola sacca con chiusura a velcro,

un asciugamano per capelli color arcobaleno

che usò per strizzarli energicamente.

Divise la sua chioma ancora umida in ciocche

che arrotolò intorno a bigodini flessibili multicolori.

Poi, coccolata dal rumore della legna che ardeva,

lentamente, si rannicchiò in un angolo della mia mente.

Ora dormiva serena

e il suo capo era circonfuso di luce.

Rimasi sveglio tutta la notte

a fissare quel volto angelico che mi aveva stregato il cuore:

le sue labbra fresche di seta erano socchiuse in un dolcissimo sorriso,

i suoi capelli erano crestati con i fiori di un uccello del paradiso,

la sua pelle sprigionava profumo di nardo

e aveva il colore dei fiori sbocciati di una Choisya ternata,

il suo corpo raggomitolato

era la delicatezza, l’intimità, l’ariosità e la purezza di una sorgente

che, nell’aria infuocata, sprizzava danza di rivi,

rilasciando, nel vapore acqueo di una nube di coriandoli,

benefiche carezze di petali,

il sortilegio che vellica i sensi nascosti dal velo di maya.

Fra i dorati raggi dell’alba si svegliò,

il suo volto brillava d’azzurro,

nel manto del cielo luccicavano ancora le stelle più belle.

Dietro le sue spalle proiettò una tenue ombra

che lambì il mio viso come un’onda,

ravvivando, similmente alla rugiada, un fiore avvizzito.

Un tuffo al cuore,

la donna, che avevo custodito con lunghe ore di veglia,

mi ridestò l’entusiasmo

nel germogliare al tepore della mia anima.

S’alzò con la sua bella aureola di capelli biondi a piega mossa

e, senza togliere i cilindretti che ne ondulavano la capigliatura,

s’immerse sott’acqua, fino a toccare il fondo sabbioso.

Anch’io nuotai e, successivamente,

sprofondai nell’acqua fredda come la neve

per seguire le evoluzioni della mia sirena.

Tornò in superficie e, solerte,

uniti da una comune sorte,

mi parai di fronte per farle la corte.

I miei occhi ora resistevano al suo sguardo,

i suoi erano lampare che mollemente e ardenti di desiderio

m’attiravano nella malìa della sua rete.

Il sole era già alto sulla linea d’orizzonte,

galleggiavo su una lacrima biava

in un mare di carta azzurra,

fra fili celesti ammiravo il più bello dei dipinti.

La scena era tanto accesa quanto inaspettata.

Un fulmine balenò nella mia mente,

non credevo più di poter provare una sensazione che incendiasse il mio animo.

Ecco assalirmi d’improvviso il ricordo del mio primo amore,

quella passione, conservata in un drappo funereo,

che, in un tempo bigio,

nutriva, fra antiche onde scure,

il mio cuore col suo eterno e amaro sospiro.

Speculando sul paradosso della nave di Teseo,

affrontavo, inconsciamente, la problematica della persistenza dell’identità.

Chinai il capo e, incessantemente,

osservai, randagia in corsa per il cielo,

la mia nuvola specchiarsi in acqua.

L’esplosione di una supernova accaduta tre miliardi di anni fa,

il sole illuminò dove la mia ombra separava i nostri corpi frementi.

Quante contraddizioni!

Un esopianeta in orbita fra due soli.

Per schiarirmi le idee,

assunsi un sorriso pronunciato

e, correndo in direzione della battigia,

mi sottrassi al crescente imbarazzo.

Il fuoco covava sotto la cenere

e come un fiammifero amorfo,

strofinandomi sulla sabbia

in corrispondenza degli oggetti della donna

che nel cuore della notte

per ore offrì il suo volto ai miei occhi vacillanti,

il mio corpo s’accese di sentimento d’amore.

Grato ai sensi, mi fermai per sentire i pori della mia pelle riempirsi di granelli di sabbia

trasportati dallo stesso soffiar di brezza

che di bava ricopriva la superficie del mare.

Non ero sicuro di poter amare,

avevo disperso tutte le mie lacrime in mare,

quelle che il dolore toglie come foglie d’autunno

e quelle che l’amore dona e s’avvera in primavera.

Avevo ancora una volta sfidato il mare per amare.

Lacerato dal tormento della passione,

il passato mi trovai a rimestare.

Eppure costituisce l’ambiente che più adoro:

le alghe, i fondali rocciosi, i banchi di pesci,

gli schizzi, i mulinelli, i fischi acuti e il frullo d’ali dei cerili,

il mulinare impetuoso delle mie braccia,

un vomere instancabile che fende la liquida pianura.

Chiusi gli occhi e cedetti al sonno.

In sogno,

una bottiglia contenente un messaggio di speranza

in mare aperto lanciai.

La bottiglia di vetro verde per il vino

contro un lontano scoglio andò in frantumi.

L’acqua infradiciò completamente il foglio al suo interno

sì che le sue parole versasse,

note accorate in un oceano di domande,

morfemi di un’umile preghiera

che muovono a compassione le creature che d’amor vivono.

Lodando Gesù Cristo, avevo scritto:

“Se solo potessi piangere, potrei tornare ad amare.”

Ogni frammento era, rispettivamente, nel becco di un delfino.

Con la loro bocca curva in un sorriso permanente,

cavalcando le onde

similmente a una nave in branco m’affiancarono.

Erano giunti per soccorrermi,

per trasmettere libertà e spensieratezza

a un nuotatore che, sfinito, nei suoi conflitti interiori annegava.

Da una nave, stupefatto, salutai l’arrembare

con uno spettacolare tuffo

di una balena in propulsione verticale.

Naufrago alla deriva nel cerchio dell’orizzonte,

ero solo io e nessun altro a fantasticare,

a cercare pietà e comprensione

per salvare l’intera umanità.

Osservavo me stesso da angolazioni differenti,

poiché il mio pensiero pencolava fra opposte soluzioni.

Risucchiato nel gorgo delle mie riflessioni,

mi trovai di colpo nel ventre della balena.

Pensai alla parabola inclusa nel secondo capitolo del <<Libro di Giona>>.

Dal Vecchio Testamento spiccai un salto al Vangelo di Matteo (Mt 12, 40):

“Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce,

così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra.”

La balenottera azzurra mi rigettò esattamente dopo tre giorni,

catapultandomi con un vigoroso soffio in una cala.

I delfini fischiavano attirando la mia attenzione.

Ora mi era tutto chiaro:

ero una nave, i cerili, un misticeto e un gruppo di odontoceti;

comunicavo con segnali, canti, fischi, ultrasuoni e schemi di movimento.

A un mio richiamo, volai sospinto dagli alcioni.

Notai di essere su un isolotto sperduto.

Non distante dalla costa,

grazie agli ultrasuoni,

captai l’eco di una nave inabissata.

Ricorsi alla bontà di un delfino

e, utilizzandolo come una moto d’acqua per le immersioni,

appeso alla sua pinna caudale raggiunsi il relitto.

Alla successiva immersione,

dalla polena del vascello decifrai il suo nome: “Hispaniola.”

Era proprio la nave de <<L’Isola del Tesoro>>,

romanzo piratesco d’avventura,

pubblicato per la prima volta nel 1883,

dello scrittore scozzese Robert Louis Stevenson.

Diversamente dal quattordicenne Jim Hawkins,

non cercavo, tramite mappe,

forzieri nascosti pieni di monete d’oro e pietre preziose

e non avevo per compagni di viaggio alcuni amici e una ciurma di filibustieri.

Speravo soltanto,

analogamente alla conclusione della storia narrata da Stevenson,

che le forze del bene prevalessero su quelle del male.

Cercavo in un contenitore il patrimonio più importante del genere umano:

le lacrime versate per amore.

Perlustrando palmo a palmo la nave,

ovunque m’inoltrai

e, davanti a un banco di rematori,

il supremo bene intravidi.

Lo spettacolo era macabro:

uomini incatenati alla voga sullo stesso banco

erano mucchi d’ossa colonizzati dalla vita marina

e, dalla metà del Settecento,

un orcio smaltato contenente tutte le lacrime del mondo abbrancavano.

Con l’aiuto dei piccoli cetacei e dopo ripetuti tentativi,

ai fondali riuscii a strappare il grande vaso di terracotta.

Esausto, lo adagiai sulla battigia,

lo inclinai affinché, da un foro presente nella parte bassa,

potessi spillare il magico fluido facendolo fluttuare.

Così dalle pene d’amore liberai le genti!

Potevo, finalmente, tornare ad amare.

Schiusi il ventaglio degli occhi

ed ero già a riva oltre l’orizzonte.

Al mio fianco col suo cespuglio biondo l’amore sospirava,

vegliando con sguardo sensualmente languido.

Questa è la mia vita,

quella parte di me mediante la quale espongo perspicuamente il mio rapporto sentimentale con il mondo, le idee e gli uomini.

_ Dipinto di Michael and Inessa Garmash intitolato “Ogni tuo gesto”.

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