Chissà se almeno il profumo si sarebbe salvato; se avrebbe continuato ad aleggiare un poco di quella calda, curiosa polvere, morbida dello sdrucciolare di pagine, ora che i saloni venivano svuotati e le volte risuonavano solitarie. In un primo momento, la bibliotecaria aveva accolto con sollievo la notizia dell’imminente sgombero. Il contrassegno sul tetto del palazzo -“in ottemperanza alle vigenti norme internazionali”- le sembrava una misura puramente simbolica, non una vera protezione. Non reputava davvero ragionevole aspettarsi che, nel mezzo di un bombardamento, un grosso segno visibile dagli aerei diventasse salvezza futura per cose belle, cose che avrebbe voluto veder uscire intatte dalle distruzioni, cose delle quali un conflitto negava, nella sostanza prima ancora che nel pericolo, il valore.
Ora i libri, i più antichi, ma anche le edizioni francesi, e i volumi d’arte, ed i testi teatrali, con tutto lo strascico, rilegato ed in brossura, della munificenza della Duchessa, avrebbero dormito in un oratorio settecentesco, su, nel paese ovattato dai boschi, in attesa di tempi migliori.
Ignorava quanto avrebbero impiegato a giungere a destinazione; se, come squillavano titoli roboanti, con caratteri di stampa che non le piacevano, sarebbero stati carichi di gloria, oppure se, come qualcuno sussurrava, fossero lontani, oltre un lungo, incerto cammino di tribolazioni .
Questi discorsi non facevano per lei, la vecchia bibliotecaria, vecchia in termini di servizio, forse anche di dedizione, da quando aveva assunto come una missione, un debito inestinguibile di gratitudine e continuità, la cura del pregevole lascito librario. Aveva visto l’apertura al pubblico, l’alternarsi di studenti, curiosi e professori ai tavoli scuri. Credeva suo preciso ed unico compito proteggere quelle parole dorate, quei dorsi, quelle storie e quelle dissertazioni perché potessero essere condivise, conosciute, amate, e poi lasciate intatte a proseguire i loro discorsi, immuni dagli anni. Ma erano piombati, ciechi, i bombardamenti. Ora guardava una distesa di casse numerate.
Una persona fidata, di provata onestà, munita di un’arma contro eventuali malintenzionati: il ritratto di una sentinella integerrima. Si può sostituire una bibliotecaria con un gendarme? Niente domande, solo efficienza. L’evacuazione dei beni conclusa in tre giorni. Camion ricolmi, su per la strada del passo. Via dalla città, dal palazzo solenne, dal pericolo incombente. Dietro, stanze vuote con tracce sporche, polvere, filamenti della paglia da imballaggio, segni sui pavimenti decorati, come dopo un trasloco frettoloso, e una tristezza attonita e nascosta.
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La meta, l’antico oratorio, dava mostra di eleganza in disuso. Un teschio, emblema poco incoraggiante, era affrescato sopra la porta sagomata da strombature, e con ogni evidenza le assi divelte che giacevano lì accanto, sulla ghiaia attaccata da ciuffi di erbe estive, dovevano aver sbarrato l’ingresso. Gli operai avevano fretta, dovevano rientrare, ed il luogo non li invogliava a trattenersi, nonostante la valle, lucente, si mostrasse in tutto l’incanto di un pomeriggio di giugno al culmine. Ad assumere la custodia del carico, un uomo già in là con gli anni, alto ed austero dietro ai baffi; non aveva però l’aspetto di un guardiano, non lo era: era un musicista, il desiderio del quale sarebbe stato riempire il vecchio edificio di culto con la musica, le note solenni di una messa cantata.
Una semplice occhiata a quella chiesina armoniosa, ricca e bianca del suo fascino offuscato, gli bastava per colmare la navata di note antiche e fresche, come zampilli barocchi di un monumentale giardino…già, la musica sull’acqua. Dei concerti, magari…ci sarebbe voluto Bach… osare Verdi, voci tenorili, arie d’opera…
Ma era anche persona di fiducia, ed lo avevano chiamato a dimostrare la sua fedeltà davanti a quella montagna di casse. Ben presto, mentre quella strana biblioteca scomposta veniva scaricata, tutti si accorsero che l’oratorio non sarebbe bastato per contenerla, almeno non così. Nessuno a cui chiedere istruzioni, e una decisione: vuotare casse e stipare libri.
Pile, torri, muraglie di libri; un labirinto improvvisato di cuoio, carta, cartoncino, tessuto, con titoli e nomi degli autori a fare da imperscrutabile monito. Vicoli di romanzi, corsi di saggi, slarghi, strettoie, anfratti e una sorta di piazza, là in fondo, in corrispondenza dell’altare e dell’abside. Un silenzio troppo grande, sordo ai grilli, con un qualcosa di fluido, mobile, come se potesse dilatarsi, espandersi. Passata la prima impressione, non era neppure più silenzio, era un mescolarsi di voci non distinguibili, di parole indefinitamente importanti che nessuno avrebbe compreso, una folata misteriosa di storie incomplete, nel respiro dei libri.
Perché, che i libri stavano respirando, magari affannati dal viaggio e dall’onta subita, più che un’idea, era una sensazione, la percezione fisica di un cambiamento, di un affollamento invisibile nell’aria dell’oratorio. Quando scese la sera, la biblioteca doveva aver serrato, ricomposto, pianificato alleanze impreviste, per cui ombre malandrine si ponevano come ponti e nascondigli, mentre una luce a tratti e spiragli, o un istinto improvviso, facevano in modo che giunti ad una pila di volumi sulla storia del teatro francese del XVII secolo si provasse, irrefrenabile, l’impulso di guardare verso un grosso tomo di teologia.
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Cosa accade, di notte, nelle biblioteche? Le pagine restano immote, nell’attesa della luce e dei lettori? Ma, allora, da dove venivano certi brividi sottili, come di chi si sente spiato, che aveva provato scendendo a leggere, scegliendo tra i suoi non moltissimi libri, in tarde serate estive? Ora li risentiva, ingigantiti dal gran numero di quelle pagine; con buona pace della bibliotecaria, delle previsioni delle autorità competenti, dello stesso “guardiano”, i libri della duchessa non dormivano affatto.
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L’uomo si figurava le lunghe ore di chiusura, così come dovevano essere state nel palazzo cittadino, incrinate dagli scricchiolii del legno pregiato, da un rispettoso assestarsi degli scaffali…topi no, di sicuro nessuno avrebbe mai permesso loro di andare a gustarsi qualche pregiato frontespizio.
E adesso? Ai disinvolti roditori di campagna l’oratorio non avrebbe tardato a presentarsi come una inaspettata dispensa, un delizioso granaio, una allettante cantina, stipata proprio per loro, quando le faccende degli uomini stavano per svuotare le cucine, abbandonando invece lì i libri…Delle trappole, erano proprio necessarie. Improvvisamente, si ricordò della pistola. Si erano accertati che sapesse come usarla, ma ignoravano che il suo passato militare non lo rendeva ansioso di premere un grilletto. Anzi, in quella prima notte tra le parti scomposte della biblioteca, sdraiato su un lettuccio, quello sì soldatesco, in sacrestia, sognò con sorpresa un ladro di libri, che lo fissava stringendo a sé tre delicati volumetti, con rilegature quasi istoriate, che spalancava due enormi occhi chiari…e non era una presenza malintenzionata , neppure sgradita, solo malinconica, con quell’atteggiamento impotente e dolce.
Quando fu mattina, la navata risultò meno carica d’inquietudine; non molto diversa da un magazzino, certo affine alle chiese minori, al convento del paese vicino, dove per le stesse ragioni di guerra erano state radunate pale d’altare, paramenti, statue, che, già raccontavano in piazza, occhieggiavano da dietro una montagna di sacchi di sabbia. Di giorno, presumibilmente, sarebbe bastata una sorveglianza leggera, con l’aiuto di qualche vecchietto affidabile: il territorio su cui vegliare era quello del buio.
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Passarono le settimane. L’oratorio con il suo inconsueto contenuto suscitava moderata curiosità in paese; c’era ancora qualcuno in grado di ricordare la duchessa, anziana e solenne, con una cuffia di merletto nero e le mani giunte. Il suo lascito veniva considerato con un misto fra la venerazione riservata ad eredità inaspettate e venute da parenti di rango molto superiore, e la distratta degnazione indirizzata alle stravaganze di una villeggiante.
Essere figlio di colui al quale era stata affidata la responsabilità di un misterioso, non molto comprensibile tesoro, era fonte di grande orgoglio per un bambino. Che il tesoro fosse fatto di libri, restava un punto alquanto strano; certo, dovevano essere per forza speciali, e la duchessa stessa sarebbe stata offesa, se fossero andati persi, rovinati o distrutti.
Quante parole potevano stare all’oratorio? Quante righe?
Il bambino aveva dato appena qualche occhiata all’interno, negli ormai molti mesi dell’onorato servizio di suo padre, e ora che percorreva la strada principale per andare a fargli compagnia nella sua notte di guardia, le domande si sovrapponevano. Le letture a scuola, su carte grosse qua e là solcate dalle frasi incorniciate in nero, grandi e firmate Mussolini, o le disavventure di Re Giorgetto d’Inghilterra e le malefatte della terribile Eleonora, sul giornalino per i balilla, erano una faccenda seria, ma lassù, nonostante il cornicione cadente e l’aria d’abbandono, doveva nascondersi ben altro segreto. Perché, altrimenti, tenerlo così da conto?
Aveva passato ore a guardare le copertine degli spartiti di suo padre, con donne sottili, raffinate, dai capelli così lunghi come non ne aveva mai visto, militari baldanzosi e baffuti, paggi agghindati, con grandi colletti e ciuffi spioventi. Qualche volta si era fermato a sfogliare il libro delle preghiere di sua madre, che lo lasciava appoggiato insieme al velo ed al rosario, appena tornava dalla messa delle cinque e cominciava la lunga giornata. Le pagine erano talmente sottili che riusciva divertente alzarle con un soffio; i santi erano colorati, ma spesso con un’aria severa e triste, come di rimprovero, e la loro consolazione stava forse in quei fiori bianchi e ricurvi, gigli in genere, gentili come se fossero profumati. Quando il portone venne aperto da suo padre, e quel labirinto scuro sotto la volta fu attraversato dalla luce crepuscolare, il bambino fuggì.
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La guerra ormai la percepivano, come un rombo lontano, però continuo, come una impaurita sfiducia che, un giorno dopo l’altro, aveva cambiato irreparabilmente la vita del paese.
Non si parlava quasi mai di chi era partito, si piangeva con discrezione chi non sarebbe tornato più, i bombardamenti sulle città venivano deplorati, senza mai descriverli troppo.
Nella muta alleanza, stretta tra i libri della duchessa ed il loro custode, passavano brividi e malinconie; forse loro, i libri, sapevano della devastazione, contenevano già tutto un destino?
Più semplicemente, mentre nella lotta alla polvere, ed ancor di più al degrado della chiesa, con i calcinacci che quasi ogni giorno violavano una copertina, e le infiltrazioni d’umido che minacciavano la stessa carta, involgarita qua e là di muffe, ogni sforzo risultava vano, quello sfacelo aveva perso provvisorietà, e raccontava, in quella biblioteca senza casa, un dolore senza più contorni.
Quando una primavera avrebbe dovuto annunciarsi, tanto desiderata dopo mesi di nevicate e ristrettezze, altri sussulti toccarono l’oratorio.
Non era scritto in nessun capitolo l’orrore della strage che si consumò a Pasqua. Andò a imprimere la parola eccidio. Cancellò, per portarle forse in qualche storia futura, ma soltanto trascritta, troppe vite appena all’incipit dei sogni e delle speranze.
Non dovette essere un caso, se, qualche giorno dopo, mentre gli spari di un plotone d’esecuzione facevano cadere un gruppo di ragazzi, lì a pochi passi, una pila di libri, rimasta in piedi per anni, crollò di schianto.
Eppure l’erba si ostinava a crescere, ed un ciuffo di chiassose infiorescenze gialle aveva deciso di spuntare quasi in mezzo alla facciata della chiesa.
Fu ancora inverno, con un gelo feroce, con un ghiaccio crudele che affamava la campagna. Il guardiano dei libri, ormai invaso dal freddo, cominciò a star male. Morì in gennaio, senza riconsegnare quanto aveva avuto in affidamento, chiedendosi per un attimo che ne sarebbe stato della sua famiglia…del pianoforte che pure aveva amato…e dei libri. Non sapeva che ad aprile le strade del paese avrebbero visto i festeggiamenti per una pace che tutti volevano nuova, fresca, pulita come una speranza appena nata; non sapeva neppure che davanti all’oratorio ancora pieno di libri sarebbero stati, un giorno, allineati, dopo un duro cammino, i feretri di quella Pasqua insanguinata, che ora, in un solo momento, pareva lontana e vicina fino a essere bruciante.
Nell’atmosfera cupa, soffocante, che pure diceva che dalla pietà, dal seppellire i morti, può rinascere ancora il futuro, suo figlio, il bambino che si era intimorito, avrebbe sentito allora, in un ultimo sguardo alla facciata della chiesa, e poi alla campagna, che, al di là del dolore, il domani lo aspettava fuori dall’infanzia.
Fiori bianchi si sgualcivano nel vento. Crescere è definitivo, ma mai uguale: come le parole scritte.