L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

GIACOMO LEOPARDI, Canti XII, 1819

Lirica di 15 endecasillabi sciolti. Per lungo tempo i critici credettero che l’Infinito fosse una lirica di sentimento. Con la lettura dello “Zibaldone” si scoprì invece che, come sempre in Leopardi, prima viene il concetto e poi il sentimento. La poesia, infatti, ha una matrice sensistica (Binni): i sensi interessati sono due: la vista e l’udito; Il correlativo oggettivo che muta la prospettiva è la siepe, la quale prima impedisce la visione dell’infinito e poi, tramite il rumore del vento, coinvolge l’udito. Nello” Zibaldone” (12/23 luglio 1820) Leopardi teorizza la ‘veduta ristretta’: “Alle volte l’anima desidera una veduta ristretta e confinata, così immagina ciò che non vede. La cagione è il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima si immagina quello che non vede e va errando in uno spazio immaginario”. Questa poesia è divisa esattamente i due parti, staccata dall’emistichio del v.8, spaccato a metà, preceduto dai 7 endecasillabi della vista, e seguito dai 7 endecasillabi dell’udito.
All’effetto visivo-spaziale, si aggiunge l’effetto acustico-temporale dell’eternità evocata dal silenzio, percepibile dal rumore del vento (Contini). Leopardi usa i deittici (in questo caso i dimostrativi), passando bruscamente dal vicino al lontano, avvicinando e allontanando i dati esterni del mondo circostante (il colle), la prospettiva muta: questo e quello. Si salta dal vicino (il colle, la siepe) al lontano nello spazio (interminati) e nel tempo (silenzi eterno immensità).
Tranne il “fu” dell’incipit, domina il presente indicativo, la passeggiata del poeta è un’abitudine. I periodi sono 4: 2+2. Non si tratta stavolta di un ricordo (rimembranza,) bensì di un’associazione mentale, all’inizio concettuale, quindi sfociante nel sentimento: un “viaggio” dalla mente al cuore (Blasucci), dal basso verso l’alto, una forma di ascesi. Abbiamo una serie di opposizioni binarie che indicano la difficoltà del viaggio-percorso: questo/quello; silenzio/suono; morte/vita; annega naufragar/dolce (ossimoro bimembre).
Il viaggio (‘itinerarium mentis in infinitum’, Binni) o percorso, è concettuale (‘io nel pensier mi fingo’: mi immagino, mi costruisco con l’immaginazione: Contini). “L’infinito” si muove nella direzione della “scienza dell’animo umano” su cui poggia tanta parte della speculazione leopardiana (Blasucci): concentrazione di pensiero e sentimento, di concetto e di emozione affettiva.
L’infinito provoca attrazione e smarrimento, ma si tratta di una cara consuetudine (apre con “caro” e chiude con “dolce”: Fubini). Leopardi applica qui la sua “poetica del vago e dell’indeterminato”, per cui le parole vaghe e indeterminate “sono poeticissime”: ermo orizzonte interminati sovrumani profondissima infinito eterno immensità mare.
Per non correre il pericolo di cadere nell’astrattezza, indeterminata appunto, la lirica è ancorata alla realtà dai due deittici dimostrativi e dai termini (quale più quale meno) concreti: colle siepe parte guardo sedendo mirando vento odo stormir voce suon s’annega naufragar.
Leopardi cerca una lingua poetica che mantenga il suo scarto rispetto alla lingua comune, contro l’impoeticità del mondo moderno (Bandini), dedito al culto dell’utile e in quanto tale eminentemente impoetico (Blasucci): “il poeta moderno chiede perdòno se segue le cose antiche, se adopra il linguaggio e lo stile e la maniera retorica, se imprime alla sua poesia il carattere di un altro secolo” (Zib. 1823): è il modernissimo senso di colpa della poesia (Bandini).
Già pubblicata da alessandria today di Pier Carlo Lava.