Mi sono appena alzato. Sono in pigiama. Ho fatto un incubo, ma al risveglio non mi ricordo più niente. So solo che mi sono svegliato di soprassalto. Vado in bagno per le solite abluzioni. Mi lavo il viso perché c’è ancora un poco di pomata per la dermatite. Prendo la lametta e la schiuma da barba. Mi faccio la barba. Ho la pelle troppo sensibile. Troppi arrossamenti. Qualche piccola ferita. Uso la matita emostatica. Lascio passare cinque minuti. Guardo una crepa nel muro e una macchia di umidità a cui devo porre un rimedio. Mi sciacquo la faccia. Quindi mi metto un poco di dopobarba. Mi lavo le mani con il sapone e me le asciugo. Vado in cucina. Sbircio dalla finestra. Dei bambini con le cartelle in spalla si rincorrono in cortile. Un cane li insegue e scodinzola. Sono le solite piccole cose che mi danno il buonumore. Faccio colazione. Prendo due fette di pane e me le ungo con il pomodoro. Ci metto un poco di olio extravergine di oliva ed un poco sale. Prendo un bicchiere di acqua. Prendo la confezione degli antidepressivi su una mensola. È l’ultima pasticca. Butto nella ppp il blister. Ingoio la pasticca. Mando giù l’acqua. Vado a vestirmi in camera. Mi metto i soliti jeans chiari, una maglia a collo alto e sopra mi metto un pullover. Mi stringo la cintola dei pantaloni. Mi infilo le scarpe e mi lego i lacci. Quindi indosso il giubbotto marrone. Devo rompere in qualche modo la mia solitudine. A onor del vero è quasi impossibile rompere la mia solitudine. Allora devo trovare la parvenza, l’illusione momentanea di romperla. Quale luogo migliore di un non luogo per avere questa illusione? Oggi scelgo di andare in un supermercato. Eppure un tempo ero pieno di amicizie quando ero all’università, ma poi passa il tempo: il lavoro, il matrimonio, i figli, la famiglia prendono tutto lo spazio nella vita. Un tempo ci frequentavamo. Poi gradualmente ci siamo visti sempre di meno. Ora non vedo più nessun amico di un tempo e forse è bene così. Esco di casa. Mi soffermo un istante per controllare se nella tasca interna ho le chiavi e il telefonino. Chiudo la porta energicamente. Scendo le scale di corsa. Sono fuori. Affretto il passo. È inverno, ma non è più una temperatura rigida come un mese fa. Dei merli volano bassi. Mi chiudo il giubbotto. Mi passo una mano sui pochi capelli che mi sono rimasti. Mi stropiccio gli occhi. Per qualche istante nell’aria c’è solo lo scalpicciare dei miei passi. Poi il rombo di una moto. Percorro duecento metri e sono in centro: più esattamente nel corso. C’è poca gente e tutti vanno di fretta. Alzo per qualche istante gli occhi al cielo, che è nero e promette pioggia. La maggioranza delle persone che si trovano sul corso hanno tutte dietro l’ombrello. Tutti ormai guardano alla televisione o su Internet le previsioni del tempo. Io no. Io vado sempre a giro senza ombrello. Io sono un’eccezione: non me ne importa niente se mi ammalo. Sono disoccupato. Non lavoro da tre anni. Nessuno ha un lavoro per me. Vivo grazie ad una piccola rendita, ma vivo in ristrettezze economiche. Non sono assolutamente un benestante. Un tempo vivevo con i miei genitori, che avevano la pensione. Adesso sono morti. Ora vivo con mia sorella, che è disoccupata anche lei. Un tempo abitavamo in una viareggina con poco giardino. Oggi viviamo in un vecchio appartamento nel quartiere più malfamato della cittadina. È all’ultimo piano, ma è talmente scalcinato che non lo ho mai detto a nessuno di vivere in un attico. L’unica cosa positiva è che ha una piccola terrazza da cui si può godere una buona vista, anche se è coperta da una tettoia di plexiglass sorretta da dei tubi di metallo inadeguati: so bene che crollerebbe tutto se venissero giù quindici centimetri di neve. Un tempo ero un commesso, ma il negozio in cui lavoravo ha chiuso. Tutti i commercianti vogliono commesse per il proprio negozio. Sono tagliato fuori dal mercato del lavoro. Il lavoro in Italia si ottiene grazie al curriculum e alle conoscenze. Io non ho un curriculum adeguato, non ho grandi esperienze lavorative e nemmeno sono bravo nelle pubbliche relazioni. Mi piacerebbe lavorare come operaio, ma nessuno mi vuole. Infatti sono quarantacinquenne e chiaramente non sono più in età di apprendistato. Non solo ma tutti i datori di lavoro cercano manodopera qualificata e con esperienza e io non ho nessuno di questi requisiti. Guardo le vetrine dei negozi. Dentro i negozi non c’è nessuno. Non è tempo di saldi. Le persone vanno soprattutto in farmacia, alle poste, dai medici. C’è una grave crisi economica in Italia. Come se non bastasse poi questa provincia è sempre stata a declino industriale e i rappresentanti delle varie associazioni di categoria intervistati dai cronisti mostrano sempre un cauto ottimismo e affermano sempre che in futuro ci sarà una piccola ripresa, ma la verità è che non cambia mai niente. Abbandono il corso. Imbocco una sua traversa. Dopo cento metri giro l’angolo. Percorro alcune viuzze del centro. Rasento i muri per scansare le passanti. Ad un certo punto mi trovo nella piazza davanti al duomo, ormai adibita a parcheggio a pagamento. Osservo i voli dei piccioni e la fontana al centro dello slargo. Anche qui ci sono dei parcheggiatori abusivi nordafricani che controllano tutte le macchine in sosta e chiedono soldi a tutti, anche a me che sono a piedi. Io dico di non avere monete e proseguo. Davanti alla pasticceria della piazza c’è anche un venditore ambulante, che vende accendini e cd. Continuo a camminare. Nessuno mi disturba e io non disturbo nessuno. Passo davanti alla Misericordia. Dei volontari sono seduti fuori e parlano di calcio. Attraverso la strada sulle strisce. Passo davanti ad una libreria che naturalmente è deserta perché in Italia leggono in pochi e quei pochi che leggono ormai acquistano libri solo tramite Internet. Ormai quella libreria lavora soprattutto vendendo libri di scuola. Questa naturalmente è una cittadina. Non è mica una città universitaria! Passo davanti a tre fondi sfitti perché naturalmente c’è la crisi economica che ha messo in ginocchio sia il commercio che il mercato immobiliare. I vigili stanno facendo alcune multe a chi ha parcheggiato in doppia fila e in divieto di sosta. Entro nell’edicola e compro un biglietto dell’autobus. Cammino ancora cento metri. Sono alla fermata dell’autobus. Aspetto dieci minuti. Alle mie spalle c’è una villa con le mimose già in fiore e gli ulivi già tagliati perché gli ulivi si devono tagliare quando il legno non soffre troppo il freddo e neanche quando è primavera: vanno tagliati quando il legno è fermo. Una donna dell’Est, forse una badante rumena, aspetta l’autobus insieme a me. Arriva ed io faccio salire prima lei. Quindi salgo sul predellino e entro anche io nell’autobus. Oblitero il biglietto. Resto in piedi, vicino all’autista. L’autobus è affollato. Osservo un quindicenne che fa la mano morta a una sua coetanea. I polpastrelli aderiscono alla chiappa. La sua mano palpa un gluteo della ragazza. Tutti e due hanno lo zaino in spalla. Non si parlano e neanche si guardano. Forse sono compagni di classe e si conoscono bene. Forse, nonostante siano entrambi studenti di scuola superiore, non si conoscono affatto. La gente fa finta di niente. Allora io osservo le strade. Osservo gli edifici. Non sono un architetto, ma so che in questa cittadina c’è una grande eterogeneità degli stili architettonici. Conosco a memoria il tragitto dell’autobus. Penso per qualche istante a simboli, miti e storie del mio paese. Guardo l’orizzonte: ammiro tutte le colline che circondano questo posto. Siamo arrivati al supermercato e io scendo. Ora si è alzato un vento gelido. Forse è Tramontana, ma non sono un esperto. Nel parcheggio c’è un grande viavai. I posti sono quasi tutti occupati. C’è chi prende il carrello e chi lo porta vicino alla macchina per scaricare tutta la spesa. Anche qui è pieno di giovani ragazzi nordafricani che chiedono un euro, nonostante ci siano le guardie. D’altra parte quello è il loro lavoro. So che guadagnano pochissimo e racimolano al massimo dieci euro al giorno. Entro dentro il supermercato, ma non ho con me carrello, sporta, sacco o zaino. Non ho intenzione di comprare niente, ma sono curioso. Guardo ogni prodotto, ogni prezzo, ogni tipologia, ogni formato, ogni prezzo, ogni etichetta. Mi metto a guardare ogni reparto per molto tempo. Osservo minuziosamente ogni scaffale. Vendono dolci, pizze, schiacciate, vini, liquori, birre. Guardo le cassiere e mi chiedo come fanno a reggere quel ritmo e quel lavoro così frenetico. Ci sono un sacco di offerte che risvegliano in me l’istinto di acquisizione. Però devo risparmiare. Non posso comprare niente. All’interno del supermercato c’è anche una gelateria piena di bambini. Ma io davvero non posso. Ho pochi soldi e sono a dieta. A onor del vero i miei genitori erano entrambi diabetici e io da un anno all’altro potrei soffrirne anche io di diabete. Ma questo non è il mio unico problema: infatti ho anche colesterolo e trigliceridi alti. Mi metto di tanto in tanto a guardare anche le donne. La maggioranza sono in compagnia del loro uomo. Sono solo un’esigua minoranza quelle sole. Comunque io non piaccio alle donne. Non sono mai piaciuto, nemmeno quando avevo un poco più di soldi: figuriamoci oggi! Ho i soldi appena per campare, ma non per andare a cena con una donna. Sono ormai diventato un esperto di economia domestica. Ho imparato a risparmiare su tutto. Ho smesso di fumare, di bere, di comprare il quotidiano, di bere caffè. Ci ho guadagnato in salute e denaro. Non ho la TV satellitare. Non ho la connessione a Internet. Spendo il minimo indispensabile in vestiti. Non ho il condizionatore e utilizzo poco il riscaldamento. Ho regalato il mio cane ad una famigliola benestante perché costava troppo per cibo, veterinario, tosature. Ma non mi venga in mente che stia male. Stavo peggio quando ero giovane l’anno che feci il servizio civile in un collegio di preti del Nord. Ero lontano da casa. Lontano dalla mia famiglia. Mi toccava badare i ragazzi di un centro di formazione professionale sulla corriera che li riportava a casa. Non facevano altro che insultarmi. Mi chiamavano terrone oppure terrone di merda. I preti li lasciavano fare. Io non mi trovavo bene neanche con i prelati. Ero stato precettato in quell’ente religioso dal ministero della difesa, che allora si occupava degli obiettori di coscienza. Io avevo fatto richiesta in altri enti. Il resto del tempo lo passavo a fare il portinaio di quel collegio oppure a verniciare gli scuri di quella antica villa. Ora sto meglio tutto sommato. Esco fuori dal supermercato e mi metto a sedere su una panchina. Mi metto a pensare. Mi metto a pensare alla vita. Penso a “La cantatrice calva” che dice molto sull’esistenza. Ambiente borghese. Due coppie che fanno conversazioni banali intessute di luoghi comuni. Le due donne scoprono di essersi già intraviste, di avere fatto un viaggio in treno, di avere passato del tempo nella stessa carrozza. Come a dire che facciamo tutti lo stesso viaggio e che siamo nello stesso scompartimento. Abbiamo fatto lo stesso viaggio, l’altra persona era davanti a noi e non ci siamo detti niente. Poi casualmente la incontriamo di nuovo. Casualmente questa volta siamo costretti a parlarle. Qualche altra banalità. Scopriamo anche che la vita è fatta di coincidenze. Qualche altra frase. Poi cala il sipario. Questa opera esprime in modo mirabile l’insensatezza, l’assurdità, l’impenetrabilità dell’esistenza. L’arte e la filosofia cercano sempre di afferrare l’esistenza, cercano di definirla. A me sembra che la filosofia non dica niente della vita. Forse sono due mondi paralleli. Inconciliabili. Possiamo conoscere la fenomenicità, ma non la cosa in sé. Secondo lo schematismo kantiano non possiamo cogliere il noumeno. Non possiamo abbracciare l’esistenza in sé. Quando vivo non penso. Quando penso la vita è già sfuggita ed è ormai inafferrabile. Con la pretesa di voler comprendere tutto la filosofia finisce per diventare nichilista. Il solipsismo per me è il nichilismo dell’altro. Lo scetticismo è il nichilismo del vero. Lo stoicismo è il nichilismo della passione. L’irrazionalismo è il nichilismo della ragione. L’idealismo è il nichilismo della realtà. Il marxismo è il nichilismo della religione. Quale ismo filosofico è ancora valido oggi? Forse un poco di eclettismo condito con un poco di scientismo? Cartesio pone in relazione l’autocoscienza con l’essere. In estrema sintesi: se dubito allora penso e se penso allora sono. Quindi cogito ergo sum. Ma nel Novecento tutto è mutato radicalmente. Il cogito cartesiano è finito. Per il filosofo francese Ricouer il pensiero moderno è stato caratterizzato soprattutto dai tre “maestri del sospetto” Marx, Nietzsche, Freud, che hanno svelato le menzogne antecedenti. Marx ha intuito che la sovrastruttura è determinata dalla struttura. Nietzsche ha rivelato che Dio è morto e ha demistificato la metafisica consolatoria cristiana. Freud ha mostrato i limiti della razionalità umana sopraffatta dall’inconscio. I tre maestri del sospetto hanno distrutto definitivamente il razionalismo di vecchio stampo. Ma nella modernità ci sono state altre cose. Darwin con l’ereditarietà biologica, Lévi Strauss con le strutture elementari della parentela hanno tolto l’antica libertà di azione dell’uomo. Per gli strutturalisti anche l’uomo è morto. Inoltre chi ci dice che l’esistenza sia quella parte dell’esperienza che non possa essere incasellata nelle nostre categorie di pensiero e nelle nostre sovrastrutture? Forse non possiamo comprendere l’esistenza perché se cerchiamo di farlo finiamo per costruire una metafisica. Forse non possiamo comprendere l’esistenza perché anche l’uomo più semplice possiede una sua metafisica: una sua filosofia di vita che però è sempre lontana dalla vera esistenza. Un tale può dire: “Credo solo a ciò che c’è. Non credo nella religione, nella metafisica, in  Dio”. Ma anche questo ha una sua metafisica. Probabilmente quella di Spinoza. Quella del “deus, sive natura”. Poi ci sono anche i nichilisti. Si pensi a Nietzsche secondo cui Dio è morto oppure quando afferma che non esistono fatti in sé ma solo svariate interpretazioni dello stesso fatto. Si pensi a Dostoevskij, secondo cui se Dio non c’è allora tutto è permesso. Si pensi a Turgenev nel romanzo “Padri e figli” in cui Bazarov non crede in nessuna istituzione e crede solo negli esperimenti scientifici: nelle rane che seziona ogni giorno. Si pensi ad Hemingway che nei “Quarantanove racconti” tramuta “il padre nostro” nel “nulla nostro”. Cosa fare allora? Distruggere forse la metafisica? I neopositivisti cercarono di distruggere la metafisica. Sostennero che avessero senso solo quelle proposizioni che possono essere verificate. Ma forse anche il principio di verificazione è esso stesso metafisica. Di più: il principio di verificazione non può essere verificato. Se è una proposizione scientifica deve essere per forza verificabile. Se non è una proposizione scientifica è una pseudo-proposizione: è metafisica anche questa. Il principio di verificazione cerca di descrivere l’ambito di senso della ricerca scientifica, ma non appartiene al dominio della scienza. Oppure è una semplice tautologia e allora non si può porre come principio cardine della ricerca scientifica una tautologia. Il neopositivismo ha quindi cercato di distruggere la metafisica con la metafisica. Inoltre anche la scienza da sempre è costituita assiomi e postulati per cui non è valido il principio di verificazione. Per Popper esiste da sempre una relazione tra idee infalsificabili e idee controllabili. Pensiamo all’atomismo di Democrito e a quello di Lucrezio. Le questioni metafisiche di oggi potrebbero diventare i problemi scientifici del futuro. In fondo cosa sarebbe uno scienziato senza metafisica? Sarebbe una mente senza ipotesi. Nessun nichilista riuscirà mai a distruggere la metafisica. In fondo neanche Nietzsche nega la metafisica. Nega soltanto la metafisica platonico-cristiana. Ricapitolando l’essere e l’esistenza ci trascendono. Non potremmo mai definirli, farli veramente nostri. Sfuggono sempre via irreprensibili. Smetto di pensare. Mi alzo e ritorno a piedi a casa. Anche oggi ho passato un’intera mattinata a non fare niente. Anche io sono un nichilista. Non credo a niente ormai. Mentre torno a casa mi metto a pensare al fatto che non piaccio alle donne. Tutta questione di soldi e di estetica. Prima ho accennato alla mia situazione economica. Ora penso all’estetica. Penso che l’importanza attribuita all’immagine corporea cambia in base alla cultura e all’epoca. La società odierna attribuisce grande valore al corpo. I modelli e i canoni imposti dai mass media sono così pervasivi che condizionano la vita di moltissime persone. Un tempo questa ansia di perfezione era prerogativa del sesso femminile che ricercava soprattutto la meta della magrezza. Oggi anche gli uomini hanno iniziato ad andare dall’estetista e dal chirurgo estetico. Oggi anche gli uomini iniziano ad avere complessi e sentimenti di inadeguatezza nei confronti del proprio corpo, prendendo come termini di paragone i personaggi del mondo dello spettacolo. Il corpo in altre epoche era considerato soltanto uno strumento per svolgere il lavoro fisico. Oggi invece è un mezzo per soddisfare il proprio narcisismo. Il corteggiamento e la seduzione un tempo erano un alternarsi di corporeità e di assenza, come ad esempio il classico vedo/non vedo. Ma oggi tutto ciò è definitivamente scomparso. Il corpo oggi più precisamente ha una triplice funzione: strumento di facilitazione di relazioni sociali e professionali, modo per soddisfare il proprio narcisismo, mezzo per adescare le prede dell’altro sesso. Che dire di altre epoche in cui il corpo era considerato uno strumento del demonio e bisognava mortificarlo, reprimerlo, punirlo con il cilicio? Da un estremo siamo passati all’altro. Un tempo il corpo allontanava da Dio. Oggi il corpo è la nuova divinità della società occidentale. In questa società chi è bello è facilitato sia perché è considerato più attraente sia perché esiste inconsciamente una correlazione illusoria per cui chi è bello è anche buono e sano. Qualcosa sulla bellezza la sappiamo. Ad esempio la bellezza di un volto è data dall’armonia dei lineamenti. Sappiamo che se i nasi variano dai quattro agli otto centimetri la persona considerata bella avrà un naso di sei centimetri. Bellezza è quindi sinonimo di armonia e l’armonia è sinonimo di medietà. Sembra paradossale ma una bellezza al di di sopra della media scaturisce da delle forme nella media. La bellezza non tollera difetti e nemmeno eccessi. Comunque il problema di questa civiltà della immagine come la nostra è che i mass media stanno attuando una standardizzazione estetica del genere umano. Impongono modelli che poi i chirurgi estetici ricalcano in grandi quantità. Le persone sono così tutte omologate anche esteticamente. Nel mondo dello spettacolo, in cui l’estetica assume un’importanza smisurata, molte attrici si assomigliano in modo impressionante perché sono state rifatte tutte allo stesso modo. La bellezza viene di conseguenza svalutata, banalizzata. Non ha più il carattere di esemplarità e di eccezionalità di un tempo. Certe persone che ambiscono a rifarsi per divenire copie di individui ritenuti belli dovrebbero ricordarsi che la storia del genere umano è dipesa anche dal naso di Cleopatra. Poi penso totalmente ad altro. Penso alla mia generazione. Ho conosciuto persone che volevano cambiare il mondo, intervenire nel mondo per costruire una realtà marginale migliore o semplicemente diversa da quella imposta dai soliti schemi. Alcune ora con la maturità si sono uniformate alla mentalità comune. Si sono integrate, imborghesite, sposate felicemente. Quando le ho riviste a distanza di tempo mi sono accorto di quanto gli eventi e le circostanze hanno cambiato radicalmente le persone. Altre come me non sono riuscite ad integrarsi, non hanno certezze economiche, non hanno una donna. Adesso con il passare degli anni questi disadattati come me sono depressi o si autodistruggono in modo più o meno repentino. Questo accade perché si sentono sconfitti e perché hanno preso consapevolezza che questa Italia non si può cambiare in nessun modo possibile. In questo senso probabilmente aveva ragione Pavese quando scriveva che l’importante è avere una donna che ti aspetta a casa e tutto il resto sono balle. Lo so benissimo che molti pensano che la cosa migliore da fare è cercare di cambiare sé stessi piuttosto che cercare di cambiare il mondo. Però io su questo sono d’accordo fino a un certo punto. È vero che bisogna sempre fare un esame di realtà, ma non si può nemmeno cambiare ad immagine e somiglianza di questa società e snaturarsi completamente. Forse aveva ragione Douglas Coupland con il suo libro “Generation X” a cui sono appartenuto da giovane. La nostra generazione non ha avuto nulla da dire perché era già stato detto tutto dalle generazioni precedenti. La nostra generazione non ha avuto la capacità di mettere minimamente in discussione i disvalori dominanti. Probabilmente la televisione da bambini ci ha deformati e la recessione economica al momento dell’ingresso nel lavoro ci ha fiaccato. Non siamo mai stati hippies e neanche arrivati. Probabilmente non siamo mai stati niente. Abbiamo infinite identità intese come subpersonalità fittizie o addirittura nessuna personalità. Alcuni della mia generazione da giovani si sono autodistrutti con la droga e con i rave party. Ci andavano per sballarsi con gli allucinogeni e per ballare tutta la notte senza sosta. Nel rave non c’era dialogo come in discoteca. Restava il fatto però che il rave rispetto alla discoteca possedeva il fascino della trasgressione e una maggiore libertà di espressione autodistruttiva. Il problema è quello che chiamano il pensiero unico ed io chiamo non pensiero unico, caratterizzato da superficialità, adesione totale alle mode, disprezzo per la cultura umanistica, conformismo e qualunquismo. Ma forse rischio di essere qualunquista anche io. Forse come è scritto nel Talmud in ogni generazione c’è del buon vino e io non faccio parte del buon vino. Poi come dice un antico proverbio cinese fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. Sono pochi oggi che si sentono di rischiare, esercitando il proprio senso critico e la propria autonomia di pensiero. Il rischio è quello dell’emarginazione oppure della nevrosi. È innegabile che il condizionamento esercitato dai mass media è enorme. Per molti ribellarsi a certi modelli precostituiti e preconfezionati può sembrare una pazzia. Il conformismo è così comodo e rassicurante. Così molti cedono ai messaggi suadenti della pubblicità. Si fanno plasmare dagli stili di vita imposti da film e telefilm. Si fanno orientare dalle opinioni dei talk show, dall’esterofilia imperante nella musica, nel cinema e nel cibo. Il postmoderno critica le visioni omnicomprensive e totalizzanti delle vecchie ideologie e per alcuni finisce per essere esso stesso ideologia o sistema di pensiero al servizio di un’ideologia. Il libero pensatore di fronte alle mille domande inquietanti della nostra società occidentale si arena. Come me in questo momento. Ho percorso tutto il percorso a piedi. Ora sono arrivato a casa.

Apro il portone. Salgo le scale. Apro la porta. C’è già mia sorella. Era andata a fare delle commissioni in centro. Meno male che è arrivata! Ho sempre paura che qualcuno le faccia del male. È una cittadina tranquilla. Non c’è la criminalità, però ci sono sempre i malintenzionati. Mia sorella ha cinque anni meno. Si chiama Elena. Fisicamente è totalmente diversa da me. Io sono castano. Lei è bionda ed ha un incarnato che sembra una tedesca. Io ho il naso pronunciato mentre lei lo ha più piccolo. Io sono calmo, mentre lei è sempre inquieta e imbronciata. Io ho gli occhi marroni. Lei ha gli occhi celesti. Io ho ormai pochi capelli. Lei ha i capelli che le arrivano fin quasi al fondoschiena. Io ho i denti sempre gialli perché non vado spesso a farmi la pulizia dei denti. Lei ha i denti bianchi. Non ha carie e per ora ha ancora tutti i denti: non le hanno tolto nemmeno quelli del giudizio. Come se non bastasse io vesto abiti molto economici, mentre lei indossa vestiti un poco più costosi, anche se di qualche anno fa quando erano vivi i nostri genitori e vivevamo in un modesto benessere. Inoltre io leggo i libri mentre lei non legge e guarda per ore la televisione. Al contrario io guardo la televisione per alcuni minuti al giorno. Faccio un poco di zapping la sera prima di addormentarmi. Io sono una allodola: mi addormento alle nove e mi sveglio alle cinque del mattino. Mia sorella invece è quasi un gufo, si addormenta alle una e si sveglia alle nove e mezzo di mattina. Quindi quando mi alzo cerco sempre di non fare troppo rumore per non svegliarla. Siamo diversi anche perché io sono stato un viaggiatore di paesi e città, mentre lei ha sempre girato poco e non è mai stata all’estero. Queste sono le nostre abitudini e i nostri stili di vita. Comunque scusate per la breve digressione e ritorniamo a quello che sto facendo. Non intendo più perdermi in altri dettagli riguardanti le caratteristiche fisiche e la biografia di mia sorella. Ritorniamo al presente. Metto il giubbotto all’attaccapanni. Mi tolgo le scarpe e mi metto le ciabatte. Apparecchio la tavola. Metto una tovaglia di cotone. Scarico la lavastoviglie. Metto due scodelle in tavola perché oggi si mangia il semolino. Metto in tavola le posate, i tovaglioli, i bicchieri, il portapane. Mia sorella prepara il semolino. Ci alterniamo sempre. A pranzo io apparecchio la tavola e lei cucina. A cena invece l’esatto contrario. Ho finito. Dalla finestra del soggiorno guardo le facciate dei vecchi palazzi di fronte e una moltitudine di antenne televisive sui tetti. Nella piazza c’è un monumento equestre. Osservo i rami spogli, il loro intersecarsi. Alcune donne stendono i panni. Una ragazza annaffia le piante sul terrazzo. Alcuni pettirossi disegnano traiettorie arzigogolate, dei veri e propri ghirigori. Ammiro le nuvole e la loro varietà di forme. Si è aperto uno squarcio nel cielo e io contemplo tutte le sue sfumature, le sue gradazioni. Tutto attorno è cemento e asfalto. Guardo il campanile della chiesa e più in lontananza le pale eoliche che girano e il capannone della più grande azienda che si staglia imponente nella zona industriale. È un’azienda siderurgica che dà lavoro a centinaia di persone. Osservo il suo altoforno che lavora continuamente e non si ferma mai. Però nonostante sia la più importante azienda della cittadina ha avuto anch’essa periodi di crisi e caotiche vicende societarie. Mi metto a sedere sul divano del soggiorno. Su un mobiletto sono stati posati souvenirs e cartoline. Più in là c’è anche un mappamondo e due candelabri per terra. C’è un poco di polvere e allora penso a tutti i microrganismi che vivono con noi nella nostra casa. Guardo alle pareti alcune stampe ed alcuni arazzi in cui sono rappresentate alcune scene di vita campestre. Sono pregevoli ma non abbiamo trovato da venderli e così li abbiamo tenuti con noi al momento di traslocare. Aspetto un quarto d’ora. Mi metto a parlare con Elena. Le chiedo se ha visto qualche parente o qualche conoscente sul corso. Lei mi risponde di no. Poi accende la televisione e il dialogo finisce subito. Si mette a vedere un programma di cucina e non vuole essere disturbata. In soggiorno c’è una piccola libreria. Altri libri li ho messi in garage, visto e considerato che non ho una macchina. Prendo da una mensola un libro. Accarezzo il dorso e la copertina. Mi metto a sfogliare le pagine. È un saggio di filosofia. Leggo qua e là alcuni brani. Quindi lo rimetto a posto. È l’ora di mangiare. Il semolino è pronto. Lo mangiamo una volta al giorno per risparmiare. Alcune volte a dire il vero andiamo a mangiare anche alla Caritas. Finisco in cinque minuti. Ho mangiato anche una fetta di pane inzuppata nell’olio. Ora vado a riposarmi. Mi distendo un’ora sul letto. Mi metto a pensare. Penso al mondo. Aveva sbagliato in pieno la previsione chi parlava di fine della storia. Allora sembrava che con la scomparsa dell’Unione Sovietica dovesse dominare incontrastata l’America con quel groviglio inestricabile di patriottismo becero, ricerca del successo ad ogni costo, fiducia illimitata nel progresso e culto dell’individualismo privo di ogni residuo di individualità. Fine della storia perciò. Ma dissoltasi la dicotomia tra Est ed Ovest si è presentata quella tra Nord e Sud del mondo. Niente di nuovo sotto il sole. Secoli addietro l’Occidente aveva dominato l’Africa con le atrocità del colonialismo. Attualmente la modalità è molto più soft. L’Occidente teoricamente non fa altro che parlare di tolleranza, diritti civili, dignità umana, libertà, democrazia, laicismo. In pratica sfrutta le risorse e le popolazioni del terzo mondo con il suo capitalismo selvaggio. Dovrebbe essere la democrazia rappresentativa a mettere lacci e lacciuoli al capitalismo sfrenato. Invece sono i comitati delle multinazionali a esercitare pressioni indebite su tutti i politici perché questi ultimi sono alla ricerca costante di fonti di finanziamento per le proprie campagne elettorali. In molti si chiedono se le ultime guerre sono state fatte per smantellare le reti terroristiche oppure per mettere le mani sugli oleodotti. Come se non bastasse le disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo producono un terreno fertile al fanatismo religioso. Ecco allora che chi vuole laicizzare l’Islam si trova minacciato da chi vuole lo scontro di civiltà e vuole islamizzare l’Occidente. Ora mi metto a riflettere sulla nostra società, che è anch’essa complessa. Ad esempio la percezione dell’altro è sempre offuscata da un velo. Noi enfatizziamo sempre la dimensione sociale di chi abbiamo di fronte a scapito di quella individuale. Giudichiamo l’altro in base a delle induzioni sulla sua categoria di appartenenza. Non lo vediamo per la sua individualità ma per il tipo generale che noi gli attribuiamo in base a supposizioni, correlazioni illusorie, vestiario, simboli. Questo accade persino con persone che conosciamo bene. Non valutiamo l’altro perciò come soggetto nella sua unicità ed irripetibilità, ma come collega, compagno di partito, etc etc. Il sociologo Simmel ci insegna che tutto ciò è molto complesso perché esistono “le intersecazioni delle cerchie sociali” dato che sono molte le appartenenze sociali di una persona. Sono molti i ruoli ricoperti a seconda di questo o quel gruppo di appartenenza. Sono molte le gerarchie e le reti senza centro che ognuno deve tenere presente per coesistere con gli altri. Ognuno deve essere capace di cogliere le sfaccettature di ogni microcosmo. Ognuno ha dei lati della personalità da nascondere a seconda del gruppo in cui è presente. Ogni realtà sociale poi ha delle regole vigenti diverse. Ognuno deve possedere tutte queste cognizioni sociali e non confondersi mai per non commettere gaffe e per non rovinarsi la reputazione. Ma la realtà sociale non è complessa solo per questo. Simmel parla anche di “filosofia del denaro”. Il denaro che dovrebbe essere uno strumento diviene il simbolo per eccellenza della società. Per Simmel il denaro, che originariamente era una semplice unità di misura del valore delle merci, diviene una modalità con cui viene quantificato ogni aspetto dell’esistenza. Anche alcune caratteristiche di personalità si rivelano soltanto in base al loro rapporto con il denaro: gli avari, i risparmiatori, i ladri, gli scialacquatori sono minori nelle società in cui esiste solo il baratto delle merci perché chi ha tali caratteristiche non le esprime pienamente. Le relazioni umane vengono ridotte alla quantificazione. Non a caso Simmel analizza la prostituzione. Simmel vede giustamente in questa il simbolo della quantificazione. Bisogna però rilevare che non considera gli impulsi erotici e il fatto che il materialismo e la mercificazione nel rapporto uomo/donna sono sempre stati presenti fin dall’origine della specie. Per Simmel comunque la prostituzione è la metafora della centralità del denaro nella modernità perché, ponendo l’accento su questa, vuole far intendere che qualsiasi rapporto umano è una contrattazione, uno scambio. Qualsiasi desiderio in fondo possiede una certa contrattualità nella modernità. In base alla quantità di denaro posseduta una persona ottiene maggiore prestigio e riconoscimento sociale perché ha maggiore potere di contrattazione. La questione è complessa. Nessuno sa cosa succederà in futuro. Forse ha ragione chi sostiene che con le innovazioni tecnologiche saremo tutti più asociali e più soli. Pensiamo solo alle conversazioni. Quanti al mondo di oggi conversano per esprimere realmente sé stessi? La maggioranza parla del proprio lavoro, di sesso, del tempo, di calcio, di politica, dei propri divertimenti. Sono sempre più rari gli accenni ai propri malesseri e alla propria condizione psicologica. Quello che forse manca è l’ascolto. Un ascolto che dovrebbe essere empatico. Un ascolto che produrrebbe un circolo virtuoso perché tramite un meccanismo di retroazione positiva l’empatia può generare altra empatia. Foucault è stato profetico. Nel corso della sua vita ha studiato istituzioni come eserciti, scuole, ospedali e fabbriche. Foucault sosteneva che il potere moderno non controlla più i territori e gli uomini, ma soprattutto le coscienze e i legami tra gli uomini. Il potere non è più imposizione, è punizione ma anche controllo psichico e mentale. Per Foucault poi sarebbe più esatto parlare di poteri e non di potere. Per quanto riguarda le conversazioni Cocteau aveva già intuito tutto. Oggi molti passano ore ed ore al telefonino. Sono veramente dipendenti. “Un atto, una camera, un personaggio, l’amore, e il comune accessorio dei drammi moderni, il telefono”: l’autore ha bisogno solo di questi elementi per questo suo lavoro. In questo lavoro per evitare quello che Cocteau definiva il teatro del teatro miscela sapientemente il dramma alla commedia. All’inizio la donna è distesa davanti al letto come assassinata. Poi si alza, prende il cappotto, ma all’improvviso squilla il telefono. La scenografia è ridotta all’essenziale: una camera bianca, un letto disfatto, dei libri, una lampada. Il dialogo è infarcito di sentimentalismi. Poi quando meno te lo aspetti l’autore tra un luogo comune e una sdolcinatezza fa pronunciare alla donna frasi profonde e poetiche, che lasciano il segno. Questo testo comunque è la dimostrazione che prendere una donna e farla parlare al telefono non significa assolutamente decontestualizzarla, isolarla dalla propria storia, dal proprio retroterra culturale e sociale. Anche al telefono esistono maschere da indossare, delle regole culturali e di conseguenze delle griglie interpretative. Al telefono esiste uno scenario condiviso. Ma il telefono da questo punto di vista è anche uno strumento diabolico perché permette di interrompere in ogni momento la conversazione riagganciando. Se le incomprensioni hanno la meglio uno dei due può sancire la fine. Chiudere la conversazione è un atto distruttivo che nega l’altro. Significa rifiutare il dialogo e imporre il silenzio. Cocteau aveva dichiarato: “quando si mette giù il telefono è come se distruggessimo l’ultima nostra possibile avventura, noncuranti dei gemiti dell’altro da noi”. Eppure tutti usano con superficialità questo strumento! Mi metto a riflettere su una cosa: pensare è sempre più difficile al mondo d’oggi. Mi alzo dal letto. Accendo la luce. Sul comodino ho “Lezioni americane” di Italo Calvino. Mi metto a rileggere alcuni brani. Nel capitolo intitolato “esattezza” scrive: “cristallo e fiamma, due forme di bellezza perfetta da cui lo sguardo non sa staccarsi, due modi di crescita nel tempo, di spesa della materia circostante, due simboli morali, due assoluti, due categorie per classificare fatti e idee e stili e sentimenti. Ho accennato poco fa a un partito del cristallo nella letteratura del nostro secolo; un elenco consimile credo si potrebbe fare per il partito della fiamma…”. Calvino è illuminante. Marx ad esempio è organico e sistematico. Quindi andrebbe annoverato nel partito del cristallo. Sempre nell’ambito della filosofia anche Popper farebbe parte del partito del cristallo. Così anche Hegel. Nietzsche e Cioran invece apparterrebbero al partito della fiamma. Paul Valery sarebbe un esponente del partito del cristallo, mentre Dylan Thomas sarebbe un esponente del partito della fiamma. Il partito del cristallo avrebbe come tratti distintivi la sistematicità, la ricerca incessante dell’ordine, l’organicità del pensiero. Il partito della fiamma sarebbe caratterizzato da pensatori che procedono per intuizioni, epifanie, insight. Anche Montale aveva già fatto questa distinzione. In una sua lirica nel “Quaderno di quattro anni” aveva scritto: “dopo i filosofi dell’omogeneo/ vennero quello dell’eterogeneo./ Comprendere la vita/ lo potevano solo i pazzi/ ma a lampi e sprazzi”. Chi appartiene al partito del cristallo a mio avviso cerca di costruire un edificio sistematico della ragione. Spesso così facendo si dimentica che la mappa non è il territorio secondo un adagio della programmazione neurolinguistica. Ma forse è tutto molto più complesso. Forse se analizziamo dettagliatamente ogni filosofo ci accorgiamo che ordine e disordine si compenetrano vicendevolmente in ogni opera. Anche all’interno di ogni ideologia ci sono degli elementi appartenenti alla fiamma e al cristallo. Marx ad esempio è organico per quanto riguarda l’economia e la filosofia ma appartiene al partito della fiamma quando fa le sue profezie. All’interno di ogni ideologia ci sono degli elementi velleitari e utopici che appartengono al partito della fiamma. Per quanto riguarda l’utilitarismo il concetto di mano invisibile è utopico dato che gli utilitaristi ritengono di lasciar fare il libero mercato perché poi l’interesse egoistico creerà benefici alla comunità. Per quanto riguarda la roccaforte ideologica di Rawls, apparentemente razionale ed intellettualistica, la posizione originaria ed il velo di ignoranza sono totalmente campate in aria e non realizzabili. In fondo ci sono da sempre pensatori più versati nell’analisi e altri più bravi nella sintesi. Pensare è difficile ed è ancora più difficile guadagnare qualcosa con i propri pensieri. In fondo c’è chi vende il corpo, chi vende la sua dignità, chi vende le proprie idee, chi vende le proprie competenze. Gran parte del mondo si vende. Gran parte degli intellettuali si vendono. Cosa fare allora? Non vendersi. Piuttosto cercare di essere testimoni della propria epoca. Analizzare l’assurdo cercando di cogliere il rovescio della realtà. Vedere tutto da un’angolatura insolita ed essere alla ricerca di un frammento di verità. Ricordarsi che i sentieri meno battuti possono rivelarsi ricchi di sorprese. Ma adesso spengo la luce, mi distendo sul letto, smetto di pensare e cerco di addormentarmi.