I poeti contemporanei  di solito non  credono in Dio. I poeti del Novecento sono atei o si professano tali. Oppure vivono la loro fede in una dimensione totalmente intima e privata. Potremmo giocare con i paradossi e affermare che i poeti sono politeisti o che addirittura la poesia stessa è politeista, citando a riguardo Pessoa e Auden. Nel corso del Novecento la poesia ha subito l’influsso del materialismo marxista, ma non solo: diversi poeti non professano la fede perché non ce l’hanno oppure anche  perché sanno che la poesia del loro tempo è contrassegnata da troppo intellettualismo. Insomma è un fatto di convenienza culturale: non sta bene dichiarare i propri convincimenti religiosi in un mondo in cui pochi li hanno. Dichiarare la propria fede è solo una dichiarazione di intenti. Poi bisogna vedere gli esiti nella realtà fattuale. Nella poesia contemporanea si va dal cristianesimo di Luzi, all’ateismo di Caproni, al cristianesimo-marxismo,  pieno di tormenti di Pasolini. Ogni  poeta più che religioso è spirituale. Alcuni poeti non hanno bisogno  del conforto dell’ortodossia, del conformismo del praticante. Possono attingere alla bellezza della natura, a una ricerca autentica, frutto di un lavoro su sé stessi e talvolta di uno studio attento delle forme. Un poeta non crede di solito in Dio, ma si interroga continuamente su Dio e lo cerca in sé, negli altri, nel mondo. La premessa irrinunciabile della fede è la ricerca incessante. Però in Clemente Rebora per esempio troviamo un grande sacerdote e un grande poeta. Pur essendo antologizzato e studiato è ormai dimenticato: è considerato un classico,  ma ormai sembra appartenere a un mondo altro, a una concezione della  vita e della poesia lontana anni luce da noi. Eppure  esemplare fu il suo magistero (nonostante si fosse fatto prete solo nella maturità), di cui ai giorni nostri ormai percepiamo solo deboli echi. Ecco una delle sue più celebri poesie:

“Dall’immagine tesa

vigilo l’istante

con imminenza di attesa –

e non aspetto nessuno:

nell’ombra accesa

spio il campanello

che impercettibile spande

un polline di suono –

e non aspetto nessuno:

fra quattro mura

stupefatte di spazio

più che un deserto

non aspetto nessuno:

ma deve venire;

verrà, se resisto,

a sbocciare non visto,

verrà d’improvviso,

quando meno l’avverto:

verrà quasi perdono

di quanto fa morire,

verrà a farmi certo

del suo e mio tesoro,

verrà come ristoro

delle mie e sue pene,

verrà, forse già viene

il suo bisbiglio.”

Anche  in Turoldo religiosità ecumenica e spiritualità poetica convivono, nonostante le brutture e l’inautenticità del mondo. In lui troviamo la forza di un cristiano, che non cede ai demoni del nichilismo e neppure alla credenza sempre più diffusa di un Dio assente. Rispetto a Rebora, Turoldo per quanto colto forse è meno letterario, senza ombra di dubbio è più comprensibile. Il suo è uno stile asciutto, essenziale, piano, senza cadere mai in leziosismi. Il poeta rifugge ogni estetismo con cui molti credono di fare poesia.  Certamente ci influisce il fatto che è morto nel 1992; è più vicino a noi, alla nostra epoca. Nato a Coderno nel Friuli nel 1916, David Maria Turoldo, diventa sacerdote e frate dei Servi di Maria. Si laurea in filosofia alla Università Cattolica di Milano con una tesi su “Per una ontologia dell’uomo”, discussa con il filosofo Gustavo Bontadini.  Incurante delle polemiche letterarie, delle schermaglie tira dritto per la sua strada e fa una poesia al contempo altissima e onesta. La sua è un’esistenza pienamente cristiana. Per citare il Vangelo il poeta fu nel mondo, ma non fu di questo mondo. Dopo anni e anni il suo lavoro di ascolto  diede i suoi frutti. Turoldo è la dimostrazione che si può cercare Dio con assoluta semplicità ed esprimerlo in versi  con chiarezza. Non è per niente facile il suo compito perché nel cuore di ogni uomo alberga inquietudine e ambiguità.  Non è facile tradurre in poesia questa ricerca perché se da un lato alcuni possono scrivere per dirla alla Baudelaire le loro “corrispondenze” (cioè corrispondenze tra i propri stati d’animo e il paesaggio), dall’altro è molto più difficile trovare delle interrelazioni tra gli accadimenti (Nanni Balestrini scriveva poesie con la tecnica del collage perché sosteneva che non ci fosse alcun rapporto tra le cose che ci succedono per esempio quando andiamo a fare una passeggiata) e ancora più difficile trovare delle affinità elettive con le altre persone. La questione è che il mondo non si basa su armonie prestabilite. Ungaretti  lo testimonia in modo magistrale nella lirica “I fiumi”: “Il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia”. Dopo tutti gli orrori del Novecento nessuno oggi può essere né sentirsi in armonia. Ci vorrebbe raccoglimento interiore per elevarsi a Dio o per raggiungere il Nirvana.  Quando ci guardiamo dentro invece abbiamo a che fare con un “io male sbozzolato”, così definito da Zanzotto. Ma sempre per usare un’espressione poetica di Caproni quando ci relazioniamo agli altri ci imbattiamo in “Alcuni io/ Quasi io”. A proposito dei rapporti tra gli esseri umani Woody Allen nel suo film “Io e Annie” dice: “E io pensai a quella vecchia barzelletta, sapete, quella dove un tizio va da uno psichiatra e dice: “Dottore, mio fratello è pazzo: crede di essere una gallina”. E il dottore gli chiede: “Perché non lo interna?”, e quello risponde: “E poi le uova chi me le fa?”. Credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna: e cioè che sono assolutamente irrazionali, e pazzi, e assurdi… ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova”. Non parliamo poi delle difficoltà di chi vuole esprimere Dio in poesia,  che  sono sempre dietro l’angolo. Turoldo non si limita a fare ciò,  ma è anche testimone partecipe della sua epoca; esprime dubbi,  perplessità.  Mette a nudo contraddizioni e lacerazioni. È un uomo tra gli uomini. Non si pone al di sopra di niente e nessuno. Neanche si rifugia dal mondo. Non segue la mistica, secondo cui sarebbe auspicabile la solitudine e l’assenza di sé, la nullificazione del proprio io per giungere a Dio. Anzi nella sua vita volle sempre vivere il cristianesimo in una dimensione culturale (frequentò i migliori intellettuali del suo tempo) ma anche comunitaria (fu uno degli artefici della fondazione di Nomadelfia). La sua fede fu caratterizzata dalla cosiddetta fraternità evangelica e dalla carità.  Turoldo parlava a tutti. Non è giusto perciò che la sua memoria e la lettura dei suoi versi sia relegata a un pubblico di nicchia o di soli credenti. Ci sarebbero tutte le premesse e le condizioni per farlo conoscere ai più. Turoldo era un poeta solo, era anche un sacerdote solo, ma  aveva pudore della sua solitudine, la trascendeva; forse la considerava hegelianamente un’antitesi e la superava spesso. Quando uno è solo o si sente solo non può che rispecchiarsi nelle sue poesie perché parlano a lui, parlano di lui. Turoldo come tutti gli uomini di chiesa si è sentito solo perché uonini e donne si baciavano in bocca ma anche perché si sentiva lasciato solo da Dio. Il poeta non aveva una donna che lo confortasse. Doveva sublimare il suo desiderio. Il suo sacerdozio lo obbligava al conforto e alla comprensione empatica nei confronti degli altri, ma lo lasciava solo con sé stesso. Scriveva in “Non ho mani”: “Io non ho mani/ che mi accarezzino il volto,/ (duro è l’ufficio di queste parole/ che non conoscono amori)/ non so le dolcezze/ dei vostri abbandoni:/ ho dovuto essere custode/ della vostra solitudine:/ sono salvatore di ore perdute”. Ma si ricordava e ricordava a tutti che i più soli erano i malati e gli ultimi: “C’è una povera in via Ciovasso/ che non può più camminare,/ e dorme entro i giornali/ nessuno di quelli che stanno/ di sopra/ ha tempo di scendere e salutare./ Per lei è di troppo/ un po’ di scatole per guanciale/ e stare/ nel cuore di Milano”. Allora perché la solitudine? Perché le ingiustizie? Perché il male? Il disegno di Dio è imperscrutabile e inintellegibile. Turoldo non si esercitava in nessuna teodicea, ma scriveva che Dio “penava nel cuore dell’uomo” e inoltre descriveva il rapporto tra l’uomo e Dio in questo modo così semplice e terribile: “Tu e lui,/ null’altro./ Lui/ il Tu senza risposte”. Ma come vivere la fede cristiana? Come aveva scritto nella sua tesi l’esercizio della ragione comportava fatica. Se lo scrittore Enrico Brizzi scriveva ironicamente nel suo primo romanzo che la rovina della Chiesa erano i perbenisti che stavano nella prima fila Turoldo nei suoi versi si esprimeva così:

“Per favore, non rubatemi

la mia serenità.

E la gioia che nessun tempio

ti contiene,

o nessuna chiesa

t’incatena:

Cristo sparpagliato

per tutta la terra,

Dio vestito di umanità:

Cristo sei nell’ultimo di tutti

come nel più vero tabernacolo:

Cristo dei pubblicani,

delle osterie dei postriboli,

il tuo nome è colui

che-fiorisce-sotto-il-sole.”

Il problema della fede è la relazione tra percipiente e percepito, tra conoscente e conosciuto, tra contenitore e contenuto. È Dio in primis che percepisce, conosce, contiene e giudica. Noi uomini possiamo ben poco.  In Luzi, cristiano autentico ma non uomo di chiesa, il rapporto con la fede è più tormentato, complesso, critico rispetto a Turoldo. Infatti il poeta fiorentino scriveva: 

“Oh il vostro cristianesimo” gli dico.

“O crepato trabocca in tutto l’altro, sia pure il deserto,

oppure è un fiumicello da nulla

che stagna fra gli orti sotto casa e li ammorba”.

Turoldo, pur mostrando dubbi, si abbandona a Dio. Scrivere poesia per lui era un modo che aveva  di essere  nel mondo senza essere di questo mondo. Era attore del suo tempo, ma mai suo discepolo.  Non importa sapere da dove traesse le sue energie intellettuali oppure quanta costrizione o sacrificio interiore ci fossero in lui. Conta tutto ciò che ci ha lasciato. Leggere un  libro di Turoldo significa recepire subito il suo messaggio cristiano, non perdersi in astrazioni inutili e verificare puntualmente che alla fine se ne esce arricchiti interiormente. Il poeta si rifà alla Bibbia. Ma i suoi componimenti sono universali e  considerarli soltanto cristiani sarebbe un giudizio troppo affrettato e limitante. La sua poesia non deve essere circoscritta, delimitata. Non si devono porre angusti confini e paletti mentali, culturali.  Turoldo deve essere di tutti perché immediato e sapiente. Si rivolgeva a tutti perché aveva a cuore tutti. Non si orientava solo verso un pubblico colto o ai fedeli. Sembrano pezzi facili di primo acchito le liriche di Turoldo, ma se analizzati nel dettaglio,  se giudichiamo obiettivamente non possiamo che constatare il grande talento cristallino, intriso di cultura e permeato da una umanità profonda. Non sfugge a un lettore forte o solamente attento di poesia contemporanea quanto sia difficile imbattersi in un poeta come Turoldo che si confida, denuncia i mali del mondo, si rivolge a Dio e lo fa dicendo tutto  pane al pane e vino al vino. In modo nitido ci fa intravedere la soglia del dicibile,  ci fa affacciare sull’inesprimibile, ci contagia con la sua voglia di assoluto. Il mondo dovrebbe ricominciare dai versi di Turoldo. Hegel aveva ben inteso il declino dell’uomo contemporaneo quando aveva avvertito che la sua preghiera del mattino era la lettura del giornale. Per una parvenza quanto meno illusoria di palingenesi ci vorrebbe come preghiera quotidiana la lettura di una poesia di Turoldo. Eppure parte della critica militante ha sempre snobbato se non addirittura ostracizzato Turoldo. Ci sono a riprova di ciò antologie di poesia della seconda metà del Novecento senza di lui, ritenuto a torto poeta troppo facile oppure scartato per un pregiudizio ideologico. Il poeta ha anche  dimostrato concretamente la sua fede quando non si è assolutamente prostrato per il cancro al pancreas  che lo ha portato alla morte; anzi ha accettato la sua sorte con dignità, pazienza e sopportazione. La poesia di Turoldo al di là della memorabilità letteraria o meno ha un indiscutibile valore intrinseco e umano perché parla all’animo di ognuno di noi e, leggendolo, non  possiamo che constatare che lui ci conosceva tutti nel profondo.