Molti anni fa dopo che le inviai via email un mio saggio breve sulla poesia contemporanea, riletto oggi molto acerbo e pretenzioso, Mariella Bettarini, che ne individuò i punti di forza, omettendo probabilmente quelli deboli per bonaria indulgenza, mi inviò per posta ordinaria la raccolta di tutte le sue poesie, insomma la sua opera omnia lirica, intitolata  “A parole – in immagini” (antologia poetica 1963-2007) per la casa editrice “Gazebo”. Per inciso scrivo che la poetessa è sempre stata un’instancabile animatrice e operatrice culturale, ha fondato la rivista letteraria “Salvo imprevisti” (oggi dirige  “L’area di Broca”), ha fondato la casa editrice “Gazebo”, ha ottenuto vasto consenso dalla critica, ha colloquiato con molti protagonisti letterari del secondo Novecento, ha tenuto a battesimo molti  giovani in poeti. Ha anche curato il libro capolavoro di Alice Sturiale. Un’altra curiosità: è stata anche inserita nell’enciclopedia tematica dell’Espresso Grandi Opere anni fa. Un’altra cosa: non partecipa a premi letterari perché sa come scriveva Ferlinghetti che la poesia non è una gara. Mi invitò comunque  anche a una riunione letteraria a casa sua, ma declinai l’invito. A quel tempo ero un piccolo commerciante. Firenze distava poco più di 60 km col treno. C’era il rischio di perdere l’ultimo treno della sera e ritrovarsi sotto stazione tutta la notte. Avevo anche paura del confronto serrato perché non sono un abile oratore. Avevo e ho molte lacune. Avevo paura di un terzo grado o anche di una persona che mi facesse le pulci. Ma forse il vero motivo è che avevo paura di deludere le aspettative. Non ero più abituato alle discussioni intellettuali.  Non ero più allenato mentalmente. Soffrivo di timor panico, ovvero di ansia a parlare in pubblico. E poi perché andare? Non ero un letterato. Il mio futuro lavorativo era molto incerto. Avevo altre grane. Le ricordai via email che erano tempi grami per la poesia e che i poeti, aspiranti, sedicenti o effettivi dovevano parlare d’altro e utilizzare la diglossia, parlare nel modo più semplice possibile con la gente. Ciò nonostante mi misi a leggere tutto il suo volume. Sapevo che era un dono prezioso. Ma vivevo in quel periodo una mia crisi interiore e faticavo a esprimere un mio parere articolato.  Poi dove pubblicare una mia recensione? Non avevo più un sito né un blog.  Inoltre mi arrampicavo sugli specchi perché oltre alle mie contrarietà prettamente interiori, personali mi imbattevo in una voce che faceva dell’unicità la sua caratteristica precipua. La sua poesia sembrava paradossalmente essere a sé stante, autonoma, eppure le sue strutture portanti erano fatte dalla tradizione letteraria novecentesca.  Insomma la sua opera si riassumeva nella celebre formula letteraria “tradizione+innovazione”. Ero in un periodo in cui la mia passione per la poesia contemporanea si stava affievolendo. Mi chiedevo a che pro leggere e scrivere? Ma quel libro mi ridava un poco di passione, riaccendeva il desiderio di capire. La Bettarini però scompigliava le mie certezze poetiche. La sua bravura mi dava addirittura fastidio perché aveva un modo di concepire e fare poesia completamente diverso da come intendevo farlo io.  C’era una profondità mista a un’originalità che mi spiazzava. Il suo talento poetico creava in me dei dubbi e delle perplessità. La sua era una poesia sfaccettata in cui confluivano varie anime e molti echi. Era difficile dire la propria e chiudere i miei  pensieri così su due piedi come ero abituato a fare. Non era una poesia facile. Ci sarebbe voluto tempo e una certa disposizione d’animo e io rimandai, rimandai e poi abbandonai l’idea di farmene un’idea mia. Ma non c’era niente che non andasse in lei o nella sua poesia; ero solo io che non ero nel momento migliore per accoglierla, farla mia, interiorizzarla. La sua voce arrivava dritta dritta dagli anni ’60, attraversava tutti gli anni ’70  e ’80.  Quelle realtà e quel modo di percepirle mi sembravano distanti da me. Eppure con quel passato e con quella poetessa dovevo fare i conti. Non ero un filologo acuto per valutare il suo mutamento linguistico, se era o meno cambiata poeticamente. Quella sua poesia così densa e sostanziosa mi arrivava tra capo e collo all’improvviso e non mi lasciava affatto indifferente. Mi piaceva. Le sue poesie avevano ritmo, musicalità, proprietà di linguaggio, vera intellettualità. Ma da un certo punto di vista mi disturbavano un poco perché non le avevo scritte io e erano totalmente altro da me o almeno sembravano tali di primo acchito. Ma ne ero veramente certo? E se fossimo stati molto più simili di quel che pensavo? A ogni modo non ero certo di niente. Avevo visitato il suo sito. Avevo visto che era stata una maestra. Mi ricordai che anche il miglior poeta pontederese, ovvero Dino Carlesi, era stato maestro elementare. La cosa mi piaceva perché avevo un’ottima opinione dei maestri elementari e mi ricordavo che secondo ricerche internazionali l’unico insegnamento ritenuto valido ed efficiente in Italia era proprio quello elementare. Ma passiamo oltre. Alcuni critici avevano parlato del suo neorealismo fiorentino. Ma la sua poesia era allo stesso tempo complessa concettualmente e denotata da una grande ricchezza lessicale. Immagini, espressioni verbali, metafore, descrizioni, simboli venivano declinati nei modi più disparati: molte erano le tematiche e ancora di più le loro variazioni. La Bettarini col suo modo schietto, confessionale e al contempo discreto metteva in scena tutte le sue sfumature dell’animo. Ma un dato di fatto assodato era che la poetessa scriveva sempre col cuore in mano, pur facendolo con pudore e senza quell’effusione presente in molti, che Sanguineti detestava. Un’altra cosa era che la Bettarini con il suo impegno civile, poetico, letterario, sociale, politico era lì a testimoniarmi e a indicarmi che bisognava di nuovo imparare a vivere sia dal punto di vista privato che pubblico,  riprendendo un celebre verso della Achmatova. E imparare di nuovo a vivere significava anche imparare di nuovo a sentire, a pensare, a relazionarsi col prossimo.  Sapevo che quel libro e quella sua dedica erano importanti, erano uno stimolo per me, erano il segno che dovevo continuare a scrivere saggi brevi. Ma quel volume stava anche  a certificare un pezzo di poesia fiorentina e poi universalmente italiana. Le lessi una dopo l’altra, ma senza cercare di scorgere metamorfosi interiori né differenze stilistiche. Avvertivo  innanzitutto una forte personalità, anche se la presenza dell’io non era assolutamente ingombrante, e il fatto di essere di fronte alla storia di una vita. Ogni poesia si intrecciava con la sua esistenza. L’una richiamava l’altra. Nel volume molto corposo c’erano anche alcuni capitoli delle tesi di laurea che trattavano della sua poesia. Un altro motivo che mi faceva desistere dallo scrivere un commento o una nota critica era che ormai mi trovavo di fronte a una poetessa già riconosciuta, mi trovavo di fronte al fatto compiuto. Che altro avrei avuto da dire? Che altro avrei avuto da aggiungere? Sarebbe stato presuntuoso tentare un nuovo approccio critico. Dovevo farmi da parte e così feci. Mi occupai d’altro. Avevo altri problemi che mi passavano per la testa. Lasciai il libro in un angolo della mia biblioteca. Ogni tanto lo leggiucchiavo di nuovo. Mi sentivo un ingrato a non avergli dedicato del tempo, a non aver scritto niente, a non essermi soffermato. Ero irriconoscente. Ma allo stesso tempo ero ormai convinto che non avrei mai più firmato nessuna recensione per nessuna rivista letteraria. Una cosa che scrissi alla Bettarini, dopo averla letta, è che la sua lingua era impreziosita da tanti toscanismi senza mai forzare troppo la mano e senza mai rivendicare con orgoglio,   come fanno moltissimi nostri corregionali,  la  toscanità. Ora mi viene in mente che in tempi di milanesizzazione nello scritto e nella dizione della lingua italiana la poetessa con la sua opera si opponeva a questa imposizione, quasi questo obbligo morale per chi scrive o opera nei mass media. Già prima dell’avvento di Berlusconi in poesia era egemone la linea lombarda. Una volta addirittura molti anni fa lessi in un muro di una stazione ferroviaria del Nord una scritta leghista, secondo cui non si doveva più parlare toscano. Ma forse, più realisticamente parlando, la poetessa dall’Isolotto provava a concepire una nuova idea della poesia, della letteratura,  della cultura, della società,  dell’Italia stessa. Queste righe naturalmente non sono  un’esegesi. Non voglio fare un’analisi testuale o critica. Era solo un chiarimento doveroso mischiato con alcuni ricordi e con  alcune impressioni provate all’epoca. Quel volume è sopravvissuto al trasloco, in cui ho buttato diversi libri e altri li ho regalati alla biblioteca. Lo conservo ancora. Ne sono intimamente orgoglioso di averlo con me.  A distanza di anni talvolta rileggo qualche poesia. Non l’ho sottolineato come faccio di solito perché so che è prezioso. Queste righe erano un atto dovuto. Niente di più. Ecco alcune poesie della Bettarini:

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L’arrivo

da dove? Da lontano-lontan

                             in viaggio

e migranti

               apolidi – lontane

da noi – da qui – le rondini –

i balestrucci – questi solo di sé

benedetti Irundinidi

*

come? volando – sempre

volando – per chilometri – per mari

e terre usando piume e penne

                                     voi

bentornate creature con stelle in testa

                                   le direzioni

in testa e nell’istinto atlanti –

carte celesti – mappe

e piante dettagliatissime

delle città

*

  ora

trillate – c’è un garrito dolce

e stridulo per un attimo (troppo veloce)

                                        quasi

non crediamo alle nostre orecchie – poi

(sapendo) fingiamo di non sapere –

resistiamo ancora un po’ prima di precipitare

nella certezza lieta e tremenda

del vostro arrivo

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 Il volo

forse perché non hanno lussi – agi – padronali

dimore – spazi superflui

                   perché assoluti essenziali

gli uccelli volano

                  volano altissimi

i balestrucci – loro casa

l’aria – loro dimora

tutto il cielo – aeree libertà – lievi vertigini

con sé recando

*

così lievemente

volano

              storditamente volano

vanno volando senza peso

                              volano

non volendo

              meno vogliono più volano

                                                 non volenti

sono solo leggerissimi

beatissimi corpi in volo

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L’Obbedienza

è (l’obbedienza) una disobbedienza al suo

contrario – il tuo becco di gru – il lungo

sottile collo obbediscono solo ai connotati delle gru –

non a quelli delle cutrettole: obbedisci a te solo

sei congruo a te – come l’ornitorinco fa propria

la propria indole (il lupo la sua peculiare)

ma se l’indole è un demone – meglio vale

la disobbedienza – la divergenza – la disparità: dunque

obbedisci (talvolta) al tuo contrario: disobbedendo obbedirai

e mentre compirai l’obbedienza ti scoprirai alfine

contraddittorio – disobbediente

*

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(Voce-treno)

avvenga che canti

venite avanti voi

voci mischiate ad alba neve

impastate di zuccheri

ma da terrori – da azzanni

avete fame – sete?

                               la Voce

che voi presiede e voi mesce

parla basso

                     non parla: gridate a perdifiato voi

sino a una vòlta di silenzi

giù (capifitti): tra stupori e ragli

ne esce un treno che vedemmo (a Vemazza?)

che ci squassò – che corse

che eventi ventilò (conigli – volpi

di pelle bianca):

la vicenda – la nera sibillina – sibilava

vociarne zibellina

(perigliose innocenze)

treno soffoca Voce (o viceversa)

mare dinanzi – un suo moltiplicarsi – mare

de-cedenza (treno – soffoco – voce)

quieta deduco: tra un prima e un poi

non adesso e non più

tra un pre-vocale e un post-vocale

viva vuole la Voce revocarmi

benché larvale il prima

benché mortale il poi

squassi

            (fulmineo immoto)

d’un non mio tempo-treno

il bip-bip

                il clop-clop

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  (viola)

  m’accorsi una mattina delle viole

                                                     Viola a me

 venne incontro con ditate d’anelli e

 dei dolori dentro la testa

 che tanto si legavano ai miei dolori

 che n’ebbi sino in fondo penuria

 o fretta

              frettolosa d’andarmene

 cercando la sua testa di piume gialle

 di per certo sparita

 con quella voce che tremolava

                                                 Viola vidi poi

 venirmi accanto entro giorni d’una giacitura

 speciale

               giorni di stoppa e neve e pietrisco

 allegante

                alberese scheggiato e molto cigolante

basilisco

              giotteschi giorni aguzzi

pei denti rossi dello scoiattolo il quale

ti coglieva a motivo delle foglie rotonde

ed io per l’erba che ne veniva con odore

allevando nelle gengive il sapore che sai

che ne mangi una sera mentre scrivi

e balzellante vivi

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 (anemone)

avevi manducato un pipistrello

forse

           e avendone noi paura

venimmo cogliendoti nel sonno

io e il monaco che porto a mio danno

o misura

                 il monaco allevante ortaglie

e anemoni che però di spontanea gamba

crescono

                di spontanea fonte

zampillano

                  di spontanea benignità

dilettissimi frutti della mia prevostura

o tu gran petalo di quella madre che ti teneva

nel trepido pomeriggio che ti sfogliai

e ti vidi cadere mandando in polvere

senza volere io la tua natura

di astemio fiore che non sa più che fare

che giocarne che volerne di trottole

o di fronde perché gli vengano ridati

gli azzurri baci i bianchissimi abbracci

le lacrime la pelle

                               i capelli le braci

e tutte intere le illusioni belle

*

come ridandoti la caccia (o cacciata?)

come ridendo

                       come la poesia che sa

 quello che il soggetto non sa

 come spolverando Fiatone dalle grotte

 come mangiando anguria e poi

 melone

              come rime ad incastro

 come neve ch’è bianca lieve

come astrali accidenti

come chi sa che non dormiva

e chi sa che non dorme

come gli stambecchi nei boschi

e le genziane

                     come l’anello che allega i denti

come la foto di chi scarta o avanza

come la doppietta che invecchia

come un come

                        ecco

                       alzo lancio stringo

costruisco distruggo il mio aquilone