IN FACOLTÀ:

 Oggi sono andato in facoltà. Sono andato in biblioteca per studiare. In realtà ero molto distratto. Non ero assolutamente concentrato. Non ho combinato niente. Sono uscito fuori dall’aula. Mi sono messo a fumare in un corridoio. Poi avevo degli spiccioli e ho preso un cioccolato al distributore automatico di bibite. Mi si è avvicinato un tipo strano, che conoscevo di vista. Aveva gli occhi infossati. Aveva i capelli a  caschetto pieni di forfora. Aveva delle basette e una barba incolta. Emanava un odore nauseante. Aveva indosso un piumino rammendato, dei jeans sporchi, delle scarpe di camoscio macchiate dal fango.  Due ragazze lo hanno guardato. Una ha sussurrato nell’orecchio dell’altra qualcosa e si sono messe a ridere. Era un tipo strano, ma nella mia facoltà non c’è da stupirsi di niente. Con la sua voce gutturale questo tizio si è messo a parlare dell’aumento delle tasse universitarie. Poi mi ha detto che io avrei dovuto fare il teatro: è un’esperienza formativa e può anche essere un’autoterapia. Quindi mi ha detto che lui non ha potuto fare l’occupazione e mi ha chiesto come è andata. Io gli ho risposto che l’occupazione era durata quindici giorni ed era difficile riassumere ciò che era successo in poche frasi. La verità è che non avevo molta voglia di parlare questo pomeriggio.  Il tipo strano se ne è andato. Io mi sono messo a pensare all’occupazione. Quelle notti avevamo parlato, ballato e scherzato. Erano state notti di sacchi a pelo, litri di vino, odore di fogli ciclostilati, fax, volantini, bacheche di annunci, canzoni stonate al suono di una chitarra scordata e suonata senza peltro, commistione di dialetti, accenti e cadenze di noi studenti fuori sede, provenienti da tutte le regioni di Italia. L’occupazione era tante cose insieme. Avevamo parlato e discusso di Woodstock, Bob Dylan, Leonard Cohen, Frank Zappa, beat generation, controcultura, politica internazionale, il sessantotto, il settantasette, il maggio francese, il terzomondismo, la questione israeliana, lo zen, il postfemminismo, la parcellizzazione del lavoro, l’alienazione, Tondelli, Gramsci e l’intellettuale organico, seminari autogestiti, democrazia dal basso.

Quindi mi sono messo a pensare che quella occupazione me la sarei ricordata per tutta la vita.  Forse tra molti anni avrei avuto nostalgia di quei momenti, di quei giorni. Forse li avrei raccontati. Forse avrei scritto qualcosa. Poi sono ritornato in aula studio. Ho smesso di pensare e mi sono rimesso a leggere.

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IL PIRATA:

Parcheggiai la macchina. Guardai il cielo. Dopo cinquanta metri mi fermai all’ombra dei cipressi per accendermi una sigaretta. Quindi varcai la soglia del cimitero. Dovevo fare quella visita. Ci andavo una volta ogni tre mesi. Sapevo dove era la tomba, perché il cimitero di quel paesino era piccolissimo: trecento tombe o poco più. Avevo notato quella tomba al primo colpo d’occhio. Era proprio subito dopo il cancello. Se la salma fosse stata in un loculo allora avrei sarebbe stato più difficile per me. Mi fermai davanti alla tomba. Ero lì raccolto nei miei pensieri quando si avvicinò una signora. Era sua madre. Era una donna dall’aspetto ancora giovanile. Aveva gli occhi spiritati e dei capelli molto lunghi raccolti con una coda di cavallo. Indossava un abito da sera dai colori smaglianti e calzava delle ballerine. Non era una donna bella perché aveva un naso adunco. Nell’aria c’era lo stridio dei gabbiani e il guaito di un cane in lontananza. Fu lei ad attaccare discorso.

“Conosceva mio figlio ?”

“Si. Eravamo compagni di università. Era un bravissimo ragazzo. Il destino è stato molto crudele. Era prossimo alla laurea. Gli restava da discutere soltanto la tesi.”

“E’ la prima volta che la vedo.”

“Io abito a venti chilometri da qui. Poi al funerale non c’ero. L’ho saputo qualche giorno dopo. Ero in vacanza quando è successa la disgrazia. Suo figlio era un ragazzo brillante. Avrebbe avuto successo nella vita!!! Ne sono sicuro. Era capace sia di parlare di cose serie che di raccontare barzellette e di fare di ridere tutti quanti. Ogni volta che apriva bocca riusciva a incantare con la sua cultura.”

“Mi piacerebbe avere giustizia. Mi piacerebbe vedere negli occhi chi mi ha strappato mio figlio. Mi piacerebbe che la pagasse. Invece sono passati due anni e gli inquirenti non sono ancora riusciti a farci sapere nulla.”

“Quel pirata avrebbe dovuto costituirsi. Come si fa a vivere con quel senso di colpa per tutta la vita ?”

“Caro ragazzo, questo è un mondo assurdo. Talvolta sfugge a qualsiasi logica. A volte mi metto a pensare che quel disgraziato non l’ha soccorso ed è scappato via perché era ubriaco o drogato. Forse è scappato via perché aveva l’assicurazione scaduta. Probabilmente non saprò mai i motivi per cui non l’ha soccorso ed è fuggito. Io penso che innanzitutto sia questione di civiltà. Anche i tedeschi e gli inglesi si ubriacano ogni weekend, però non si mettono alla guida di una macchina. Alcuni giovani italiani invece si sballano e poi si mettono a correre con le proprie macchine. E poi la giustizia che fa?  Se riesce a trovarli li punisce con un semplice omicidio colposo. Ma per me questo è stato un omicidio volontario.”

“Ci sono fatti di cronaca che fanno pensare. C’è stato un tale disoccupato cronico che ha nascosto il cadavere della madre anziana per ritirare ancora la pensione. Un altro tale invece   ha rinchiuso e recluso per anni il figlio gravemente disturbato in una stanza. Infine un altro tizio ha ucciso la moglie demente e invalida da anni. Non c’è limite alla malvagità ed all’abiezione umana. Basta leggere la cronaca nera. Basta guardare i telegiornali.”

“Adesso devo andare. Mi fa piacere che qualche amico di mio figlio venga ancora a fargli visita. E’ passato del tempo. La gente dimentica in fretta, anche le disgrazie.”

Ci salutammo. Lei si incamminò verso l’uscita. La madre non si era accorta di niente. Io in realtà suo figlio non l’avevo mai conosciuto. Avevo soltanto letto gli articoli di giornale quei giorni. Era da lì che ero riuscito a sapere diverse informazioni sul conto di quello sfortunato ragazzo. Avevo comprato tutti i giornali in quei giorni.

Ero solo nel cimitero. Anzi a dire il vero eravamo solo io ed il custode.  Solo io sapevo che cosa era successo quella sera. Nessun altro. La polizia non era riuscita a risalire al colpevole. Ero io l’unico a sapere. Ero io quel pirata della strada. Ero solo. Le lacrime cominciarono a rigarmi il volto. Guardai per un attimo i filari di vigne, che circondavano il cimitero. Guardai il cielo. Le stelle erano appena percepibili. Tra poche ore da semplici comparse sarebbero diventate delle protagoniste nel cielo. Nel frattempo il sole tramontava. Incendiava le nuvole. Pensai per un attimo a quando ero bambino e mi facevo ingannare dal moto apparente del sole. Poi ritornai nel mio incubo e mi chiesi per quanto tempo ancora sarei riuscito a convivere con quel peso, con quel segreto.

UNA GRANDE CITTÀ:

Io vivo in una grande città. Una città così grande che ti annichilisce. Alcuni in una grande città rischiano di non acquisire mai una vera identità. Ci sono anche coloro che per non essere qualcuno o qualcosa di indefinito diventano branco. Questa mia città non ha un solo cuore, ma molte arterie e infinite anime. Innumerevoli sono i rivoli e i rigagnoli, in cui disperde le sue essenze. Molteplici sono i suoi segni di vita, le sue tracce, le sue impronte, i suoi messaggi. Fagocita, digerisce e metabolizza slogan, ideologie, culture, usi e costumi, miti. So solo che al suo cospetto qualsiasi metafisica sembra un fuoco fatuo. Ma questa è anche una grande risorsa, una grande opportunità. Una grande città come la mia ti apre la mente più di centomila libri. La conoscenza che ti deriva dall’esperienza a mio avviso è sempre superiore della conoscenza teorica appresa dai libri. Ci sono infinite ottiche e prospettive per guardare e contemplare una città. Io alle volte la interrogo. Cerco una risposta nelle sue insegne luminose, nei suoi palazzi, nei suoi portoni, nei suoi cancelli ossidati, nelle sue impalcature, nei suoi ponti, negli zampilli delle sue fontane, nel suo traffico, nel suo andirivieni di persone, nei suoi sciami di insetti, nei suoi semafori, nei suoi manifesti, nelle sue saracinesche, nei suoi viali, nei suoi cortili, nelle sue persiane, nelle sue scale, nelle sue vetrate, nei suoi parchi, nei suoi cartelloni pubblicitari, nelle sue fabbriche, nei suoi uffici, nei suo call center, nelle sue agenzie di viaggi, nei suoi chioschi, nei suoi mercati, nelle sue finestre a inferriata, nei suoi marciapiedi, nelle sue aiuole, nei suoi fili della luce, nelle sue gallerie d’arte, nei suoi ristoranti, nelle sue discoteche, nei suoi cinema, nelle sue siepi di lauro e di alloro, nei suoi monumenti, nelle sue chiese, nelle sue piazze, nei suoi bar, nei suoi negozi, nei suoi muri, nelle sue rondini, nei suoi davanzali, nelle sue condutture, nei suoi scalini, nei suoi capitelli, nei suoi loggiati, nelle sue arcate, nelle sue facciate, nei suoi bassorilievi, nei suoi rifiuti, nei suoi cavalcavia, nei dossi e nelle cunette delle sue strade, nelle sue automobili, nei suoi tetti, nelle sue antenne, nei suoi prati, nei suoi alberi, nei suoi giardini, nei suoi ciclisti, nei suoi pedoni, negli avventori dei pub, nei suoi distributori di benzina, nelle sue linee, nelle sue superfici e nei suoi volumi, in tutte le sue geometrie, nei suoi barbagli, nelle sue penombre, nei suoi riflessi, nelle sue ombre e nelle sue luci. Ma non mi dà risposte. Mi sono ancora sconosciuti i suoi meccanismi, i suoi ingranaggi, i suoi congegni, i suoi circuiti, i suoi rocchetti. Io cerco schemi. Cerco di catalogare e categorizzare. Cerco di ridurre all’essenziale tutto ciò che ho immagazzinato. Ma la logica viene meno e allora subentra l’immaginazione, che trasforma tutto ciò in altre metafore ed altre immagini. E’ un relais strabiliante la mia città. Crea sempre nuove connessioni. Nuovi contatti. Nuove combinazioni. Nuovi flussi di sensazioni. Nuovi stimoli. Nuove successioni di fotogrammi. Nuovi inganni. Nuove macchinazioni. Nuove mie domande senza risposta. Nuove armonie e disarmonie. Nuove emanazioni. Nuovi simboli di questa mia sorgente. Nuove parvenze. Nuove inesistenze. Nuovi richiami. Nuove forme. Nuova sostanza. Nuove connotazioni. Nuove trame. Nuove incognite. Nuovi miei montaggi. Ha una pellicola infinita la mia città. Io sono onnivoro. Voglio divorare tutto. Anche la mia città è onnivora e mi divora giorno dopo giorno. C’è chi dice che uno che vive in un piccolo paese è un animale, che si nasconde e sta in letargo tutto il tempo. C’è chi dice che chi vive in una grande città vive in un alveare o formicaio. Io sono un caso strano. Un esperimento bizzarro di madre natura, che non fa altro che stupirci con le sue eccezioni sotto forma di mutazioni genetiche. Io sono una talpa, che vive in un formicaio. Oppure sono un’ape o una formica, che vive in letargo. Per il momento mi accontento di respirare la mia città nella mia ora d’aria oppure di accarezzare con la mano il tepore dei suoi raggi di sole, che filtrano dalle sbarre. Vivo al momento in galera. Ancora altri cinque anni e potrò vivere di nuovo la mia grande città. 


LE COSE CHE PARLANO:

Un bel giorno per uno strano sortilegio iniziarono a parlare le cose. Ero nella mia stanza e il letto mi disse che non lo trattavo con molto rispetto. Mi disse che spesso mi buttavo su di lui senza alcun riguardo e il materasso, nonostante la sua flessibilità, iniziava a soffrire di vari acciacchi tra cui un persistente mal di schiena. Poi presero la parola i libri e mi dissero che io li trascuravo spesso, che avevano un’allergia alla polvere e starnutivano sempre. Mi dissero anche che purtroppo c’era un ordine prestabilito, ma che se io avessi continuato in quel modo un giorno o l’altro avrebbero fatto tutti la rivoluzione, si sarebbero tuffati tutti dalle mensole della mia libreria e avrei udito un tonfo inaudito. Quindi le cose più piccole tacquero, perché furono sovrastate dalle cose più grandi. La casa zittì le stanze, i pavimenti, i mobili, i lampadari, le poltrone, le sedie, i soffitti. Prese la parola, sostenendo che dovevano essere rispettate le gerarchie. Mi disse che aveva assistito ai miei primi passi, alla mia fanciullezza, al giorno della mia prima comunione, al giorno della mia cresima, alla mia adolescenza, alla mia giovinezza. Mi disse che sapeva tutto quel che facevo in casa. Lei non prendeva mai sonno. Mi disse che mi guardava ormai con bonaria indulgenza. Per lei ormai ero l’uomo più prevedibile di questa terra. Sapeva i miei orari, le mie abitudini. Conosceva a memoria i miei passi, i miei respiri, perfino i miei battiti. Mi disse che anche lei si sentiva trascurata. Secondo lei io ormai non la guardavo più con lo stesso stupore di quando ero bambino. Mi disse che lei si sentiva una cosa scontata e che per sentirsi meno scontata io avrei dovuto pensare più spesso a chi non aveva una casa e dormiva sotto i ponti. La mia casa mi disse che purtroppo il possesso delle cose era qualcosa che veniva deciso esclusivamente tra esseri umani, ma mi ricordò che sia le cose più piccole che quelle più grandi potevano fare la rivoluzione e scomparire definitivamente e totalmente in una dimensione parallela. Mi disse che le cose erano come sospese tra la realtà degli uomini e un’altra dimensione immateriale. Mi disse che gli uomini non potevano vedere i loro occhi e ascoltare le loro voci per questo motivo. Allora io le chiesi perché io ora sentivo parlare le cose. Lei per qualche secondo rimase in silenzio, ma poi confessò che c’era stato il loro ’68 e poi i loro sindacati avevano scritto lo statuto delle cose, così come i sindacati italiani avevano scritto lo statuto dei lavoratori. Mi disse anche che c’era una fazione meno riformista, pronta a fare definitivamente la rivoluzione. E allora io le chiesi che sarebbe successo se ci fosse stata la rivoluzione e lei mi rispose che in quel caso le cose sarebbero diventate padrone degli esseri umani, che si sarebbero potute muovere da sole e che solo le cose avrebbero avuto la voce e gli uomini sarebbero stati condannati per tutta l’eternità al silenzio. Io allora cercai per qualche attimo di fare mente locale e poi sostenni che già molti uomini erano schiavi delle cose, che in molti casi gli uomini erano più oggetto che soggetto, che spesso si recavano da un posto all’altro annoiati e stanchi, che gli uomini usavano spesso la loro voce per delle conversazioni banali e delle chiacchere insulse. Lei mi disse che le cose non invidiavano agli uomini la loro ridicola e sgraziata voce, ma i loro alfabeti, i loro vocabolari, le loro frasi, le loro parole, le loro idee. Le feci notare che lei in quel momento non aveva solo la voce, ma aveva anche le parole. Ma lei rispose che a causa di Dio le cose non potevano inventare alfabeti e parole. Loro avevano imparato il linguaggio umano, ma non potevano creare un nuovo linguaggio. Loro invece avrebbero voluto inventare un linguaggio oggettivo, un linguaggio delle cose. Ma chiunque ha il potere di inventare un nuovo linguaggio è un soggetto e non un oggetto. Mi riferì che gli uomini erano tirchi nell’attribuire delle parole alle cose. Gli uomini purtroppo attribuivano una parola ad una categoria ed invece ogni cosa avrebbe voluto essere nominata in modo specifico, avrebbe voluto un suo nome. La mia casa si chiese: “Perché tu vieni considerato un essere unico ed irripetibile e ti danno un nome e un cognome per distinguerti dagli altri, mentre io invece non posso avere un mio nome e debbo essere chiamata semplicemente “casa” come milioni di altre case nel mondo?”. Sostenne che il linguaggio umano è troppo avaro nei confronti delle cose e che ogni cosa avrebbe meritato addirittura un intero vocabolario. Mi disse che le cose più esperte non volevano arrivare alla rivoluzione perché una volta andate al potere tutte le cose avrebbero dovuto utilizzare le idee e le parole degli uomini. Secondo lei era meglio che gli uomini usassero meglio le loro idee e le loro parole. Forse questa poteva essere l’unica vera rivoluzione. Concluse dicendo che forse per le cose era meglio continuare a guardarci con bonaria indulgenza e a restare sospese tra due realtà, accontentandosi di parlare in una dimensione tutta loro il linguaggio di noi uomini. Poi ritornò il silenzio delle cose.

PAGINA DI DIARIO DI UN PAZZO:

Nel mezzo del tavolo un groviglio inestricabile di fogli, in cui annoto pensieri e riflessioni. Non sono altro che una rassegna di eventi marginali, di foglietti volanti, di appunti dettati mentalmente da un giorno come gli altri. Le mani e le unghie, perfino le mezzelune, ingiallite di nicotina.  Contemplo le volute di fumo. Non faccio altro che picchettare la cicca sull’orlo del posacenere. Tengo gli occhi bassi, lo sguardo perso nella geometria delle piastrelle della mia stanza. La mente si perde nelle diramazioni del torpore. Può succedere di avere in superficie un tutto-niente da scandire in un giorno che non ha più niente da dire. In definitiva la civiltà è questo continuo trattenere gli impulsi, ma a me non resta altro che farmi graffiare dall’autodistruzione, lenta ed inesorabile. E’ lei che mi affascina e mi ammalia, sirena dalle mille voci incantevoli; è lei che mi pervade e mi annichilisce, tarlo che rode l’animo, giovinezza che incancrenisce. Ho poca voglia di parlare. Quando parlo la gola getta suoni nell’aria. Parliamo sempre con la nostra voce interiore anche quando leggiamo, anche quando dormiamo. Parliamo sempre. E se la parola è il fiore della bocca la fitta rete di rimandi di una frase talvolta è una corona di rose, che si apre e si chiude sull’inesplicato. Sarà un momento come un altro, il pensiero cadrà in letargo e si aprirà un varco tra parola e parola, e lì al confine di una pausa del discorso o nel mezzo di un deittico troverò il senso segreto di una sera. Che esco a fare stasera? Pisa di notte è deserta. Ieri abbiamo trovato delle ragazze israeliane. Ci dicevano che coi fatti della loro terra aprono tutti i telegiornali del mondo. Pisa di notte è deserta. Le ragazze israeliane in vacanza studio parlavano sommesse nel loro inglese stentato di un amore mai nato. Sto ancora qui nel chiuso della mia stanza. Non mi resta che guardare le persiane abbassate o la crepa sul soffitto.  Ultimamente non sono stato molto bene. A forza di stare da soli si impazzisce!!! Qualche mese fa deliravo.  Nei deliri ero perseguitato e le telecamere sembravano spiare i miei gesti. Non mi fidavo più, nemmeno di me stesso. Scrivevo messaggi allucinanti. Il mondo là fuori era una minaccia costante. Almeno così sembrava. Che tu sia maledetta noia che rechi il desiderio in improbabili approdi!!! Il cervello alla fine del giorno era stanco di girare a vuoto e nel sonno ricaricava la memoria. Ogni tanto penso a Dio. “Deus sive natura” mi ripeto mentalmente e non potrebbe essere altrimenti. Ma la cifra trascendente in un dettaglio di natura non giunge a destinazione nel pianeta sconosciuto della mia peregrinazione. Sarà uno stormire di fronde o uno sguardo che abbraccia un panorama? Oppure la visione della campagna dall’abitacolo della macchina? Siamo organismi con cinque sensi. Ma quale è la finalità di tutto questo? Forse la finalità dei cinque sensi è integrare incessantemente stimoli disomogenei (accartocciarsi su se stessi per divorare tutti in nessi). La terapia è questo rinnovarsi nei miasmi degli orgasmi per poi sterminare sensi di colpa e rimuginare tutti interi gli alibi al confessore d’occasione. Tutto tace. Dirò ai nemici che ho scelto la non appartenenza, ma resta la genesi dei miei pensieri in fuga.  Sono qui, luce fioca che filtra dalla mia stanza, che scrivo inutilmente impoesia contro la poesia senza alcun senso; sono qui, sagoma che non riconosce il suo profilo né la consistenza delle cose, a chiedermi incessantemente: se – come sostiene Lacan – l’inconscio è strutturato come un linguaggio riuscirò ad imparare malamente e lentamente, l’alfabeto di simboli che mi trascino dentro? Guardo il quadrante dell’orologio. E’ passata mezz’ora. Ritorno con la mente a qualche giorno fa quando ci siamo visti l’ultima volta. Finito il rettilineo la strada si snodava tra le colline. Ormai era un sentiero accidentato, fatto di dossi e cunette.   La strada era colma di saliscendi e tornanti. Era fiancheggiata da dei pini, le cui radici creavano crepe e rigonfiamenti nell’asfalto del ciglio della strada. Salendo l’aria diveniva rovente e non si udiva più il canto degli uccelli. Solo un silenzio irreale, che faceva dimenticare l’amore e invocava la morte. “Trovare il buco alla conca” mi dicesti. Come se fosse facile, qui ed ora, non sapendo nemmeno dove iniziava e finiva questa benedetta conca. Poi le strade, gli alberi, l’orbita del cielo, e noi che sfioravamo sempre il centro ignoto delle nostre divagazioni. Hai sorriso per un istante solo e ti è sembrato di scalciare con un urlo la polvere della quotidianità. Mi chiedesti se scrivessi ancora poesie. Io ti dissi che scrivere poesie è inutile. La poesia non ti paga il dentista. Non ti paga né le rate né il mutuo. Non ti paga le bollette. Non ti paga il medico. Non ti paga i farmaci. Non ti paga l’avvocato. Non ti fa passare il mal di testa. Non ti fa passare il mal di schiena. Non ti aiuta a trovare un lavoro. Non fa innamorare le ragazze. Non bisogna farsi illusioni: ci sono poeti veri costretti ad avere una doppia vita ed un doppio lavoro per sopravvivere. L’ambiente della poesia è un po’ noioso: è pieno di  presunti geni incompresi. Il mestiere di poeta non esiste più da tempo ormai. Scrivere per diletto o per sfogo non cambia niente: forse serve solo e soltanto  ad allenare la mente. Forse è solo e soltanto masturbazione mentale. Attorno era un paesaggio di pianura che riannodava gli interrogativi con i dubbi. Le cime ricurve degli alberi, perfino i fusti sotto il giogo del vento, facevano perdere le coordinate dell’abitudine. C’era di più e di meno della logica (qualcosa di diverso) in tutta questa amalgama di espedienti della natura. Qualcosa di inspiegabile: una voce che ha una sua musica interna; una vocazione inconfessabile che inizia dove finisce la ragione. Le tortore accovacciate sui fili della luce, di tanto in tanto scendevano in picchiata sui girasoli. Mentre tu parlavi io me ne stavo a crogiolarmi al sole, a cogliere l’interezza di un io frammentato, che travalicava se stesso. Quel parco era un intreccio di melodie e di canti delle più svariate specie di uccelli. Quel parco aveva quel tanto di pioggia che bastava a saziare le radici degli alberi; quel tanto di sole che bastava a rigenerare le foglie e i rami. Quel parco di giorno era frequentato da sportivi di ogni genere, da sposine un po’ grassocce che volevano dimagrire con l’attività fisica, da signore che portavano lì il cane a scorrazzare, da studenti e studentesse che andavano a prendere il sole. Quel giorno assistemmo ad una discussione accesa, a dei battibecchi tra i possessori dei quadrupedi e gli altri. Alcune persone si lamentavano che spesso i cani venivano lasciati liberi, mentre invece avrebbero dovuto essere sempre tenuti al guinzaglio dai proprietari. Questi ultimi sostenevano a loro volta che i loro cani non erano pericolosi e che non c’erano altri spazi in cui lasciarli liberi. I proprietari dei cani pensavano che certe persone avrebbero dovuto curare la loro fobia per gli animali domestici. Gli altri pensavano che i proprietari dei cani fossero delle persone incivili, che se ne fregavano delle regole.  I proprietari per lasciare libero il loro cane dovevano avere un giardino ampio oppure dovevano prendere la macchina e portarlo in aperta campagna. I proprietari dei cani pensavano che ci fossero delle norme e delle ordinanze incivili a riguardo. Pensavano che questo era il segno tangibile che eravamo troppo distanti dalla natura. Comunque il parco di giorno era pieno di vita e succedevano cose di ordinaria amministrazione. Di notte quel parco era malfamato. Era piuttosto rinomato come luogo in cui si spacciavano droghe pesanti: allucinogeni, ecstasy, amfetamine, cocaina, eroina. Tu comunque in quel parco parlavi e io pensavo al  vuoto immenso nel cieloi. Volevo che mi annullasse in quelle striature di grigio, in quel vagheggiare senza tempo; volevo che cancellasse per un amen il mio respiro e poi lo ripristinasse subito dopo. Parlavamo, ma qualcosa mi sfuggiva. Mi sfuggiva perché c’era sempre qualcosa di noi che andava oltre il messaggio e il contenuto. Parlavamo e tu mi chiedesti se mi ricordavo quella stanza. Mi chiedesti se mi ricordassi quella stampa con le ninfee. Mi chiedesti se pensassi ancora o se vivessi soltanto. Io restai in silenzio. Forse avrei dovuto rispondere accuratamente ed elencare le mie vicissitudini per poi rimestare quel che mi era stato dato e quello che mi era stato tolto.  Poi ti dissi che ogni tanto prendevo un treno per una città lontana: una città che non significava niente per me; una città anonima, connubio di civiltà, illusioni momentanee, slogan pubblicitari e barbarie. Ti dicevo che mi piaceva gironzolare per le vie del centro. Gli occhi di estranei non erano niente per me ed i miei occhi non erano nulla per gli estranei. Ti dissi che questa estraneità mi rendeva libero almeno per qualche ora. Questo è successo qualche giorno fa. Ora sono qui in questa stanza e smetto di scrivere, perché voglio andare a dormire. Queste sono solo alcune pagine del diario di un pazzo.

L’ALCOLIZZATO:

 “Sei sempre il solito perdigiorno. Gabriele non combinerai mai niente di nuovo nella vita.”

“E che cosa dovrei cercare di fare? Dovrei forse cercare di arrivare? E per che cosa? Non ho una donna. Non ho figli. A quale pro?”

“Non puoi continuare a buttarti via così. Il mondo non è solo questo paese. Se non riesci a vivere qui vai a cercare fortuna da altre parti.”

“Da altre parti tutto sommato sarebbe lo stesso. Forse sono io che sono sbagliato e così sia. Voglio dartela vinta almeno questa volta.”

“Così facendo la dai vinta al mondo e a chi ti vuole male. Non l’hai ancora capito?”

“Alle 5 finisco di lavorare e posso andare a sbronzarmi quanto mi pare. E tu non devi metterci bocca. Non lo sopporto questo tuo moralismo.”

“E poi una volta che sei ubriaco cosa fai? Dove vai?”

“Una volta che sono ubriaco sto bene. Si sta bene quando si è gonfi. La vita si fa più accettabile quando sono ubriaco o quantomeno alticcio. Il vino cambia la prospettiva, ti fa vedere le cose da un’angolazione completamente diversa.”

“Sai che bere può creare dei problemi? Potresti soffrire di amnesia anterograda, puoi avere problemi al fegato. Potresti soffrire di cirrosi epatica tra qualche anno. L’alcol potrebbe slatentizzare qualcosa. Potresti soffrire in futuro di disturbi psichici. Se continui a bere subentrerà la dipendenza fisica. Io lo so che non ti va bene la tua vita, ma non puoi continuare a ricorrere all’alcol come sorta di auto-medicazione. Non puoi. Potresti iniziare ad andare alle riunioni degli Alcolisti anonimi oppure entrare a far parte di qualche gruppo di auto-aiuto. Io mi sono informata bene. Altrimenti potresti usare l’Antabuse.”

“L’Antabuse lo usi tu. Se vado dagli Alcolisti anonimi finisce che li porto tutti quanti ad ubriacarsi con me. E poi a me non me ne frega niente!!! Io sono epicureo. Che me ne frega della vecchiaia? Che me ne frega di come sarò tra qualche anno? La mia vita ha sempre fatto schifo e ogni anno è sempre peggio. Preferisco morire giovane che morire da vecchio. Un bel colpo secco da giovane e chi si è visto si è visto!!! Si potrebbe stare qui e disquisire fino a domani mattina all’alba sul vino e i suoi effetti. I latini sostenevano che nel vino si trovava la verità. Per gli arabi l’uomo che beve vino è assente. Io quando bevo vino trovo entrambe le cose: la verità e l’assenza. E poi ogni quanto mi ubriaco? Una volta alla settimana?”

“Lo sai bene che questo è un paese e la gente parla.”

“D’altra parte io vado a bere nei bar del paese. Vado a piedi. Mi ubriaco e torno a casa. Non faccio niente di male. Che me ne frega della reputazione? Uno stato alterato di coscienza ogni tanto ci vuole. Non lo vedi come è meschina la gente di questo paesello? Che me ne frega di loro? Sai quanti giovani ci sono che bevono più di me? Sai quale è la differenza? La differenza è che loro si ubriacano in un contesto completamente diverso. Loro prendono la macchina e si vanno a ubriacare in discoteca. Poi qualcuno di loro raddrizza una curva e si ammazza e il giorno dopo troviamo la sua foto sul giornale. Io invece quando mi ubriaco vado in qualche bar del paese prima di cena. Ma ci vado a piedi. Mica rischio che mi sequestrino la macchina!!! Mica rischio di ammazzarmi o di ammazzare qualcuno!!! E poi non dimenticarti di tutti quelli, che apparentemente fanno i precisini e i perfettini, e poi vanno in casa di qualche loro amico a sniffare coca. Sono stufo dei falsi moralisti e delle beghine inacidite di questo paese.”

Ero in mutande e canottiera. Andai subito a vestirmi. Mi misi i blue-jeans e una polo. Lasciai sotto il tavolo le ciabatte e mi misi un vecchio paio di mocassino. Salutai mia sorella, presi il giubbotto dall’appendiabiti e chiusi la porta. La discussione era finita. Erano le 6 di sera. Era l’ora dell’aperitivo per i frequentatori dei bar e per i baristi. Avevo terminato il mio turno alle 5. Non ce la facevo più con quella macchina a controllo numerico. Mi ero rotto i coglioni. Per non parlare poi del capo officina, che mi stressava ogni giorno con le sue freddure. Eppure dovevo sopportare, dovevo sforzarmi, dovevo conviverci. A volte stavo troppo a rimuginare. Era un mio difetto. Dovevo essere più lineare ed essere anche più menefreghista. Il vino di certo mi aiutava in questo. Il vino dava atmosfera anche al bar più squallido e dava ritmo anche alla vita più monotona. Il sistema mi aveva fottuto. La vita non era quella delle pubblicità ingannevoli, quella dei film drammatici a lieto fine, quella delle canzoni sentimentali. La vita era stress, noia, alienazione, crisi economica. E io non potevo far parte di niente ormai. I miei amici di un tempo non li vedevo più da tempo. Si erano tutti sposati. Avevano tutti famiglia. Erano tutti integrati ormai. Ero rimasto solo. Dovevo scendere in piazza? Dovevo scrivere lettere morte a questo mondo? Dovevo diventare grafomane e scrivere di un mondo che aveva seppellito tutti i miei sogni e le mie aspirazioni? Dovevo sperare di vincere alla Lotteria? Ma non lo capivano molti che anche quella era una tassa dello stato? Una tassa subdola e ingannevole, che sfruttava la credulità della gente? Ma perché le persone non iniziavano a ragionare adoprando il calcolo delle probabilità? E invece tutti a comprare biglietti, sperando in un colpo gobbo !!! Era molto meglio bere e rischiare il delirio. Che avevo da perdere? Fossi stato almeno proprietario di un albergo a una stella, di una farmacia o di una tabaccheria in pieno centro!!! Avessi avuto almeno una ragazza con me!!! E invece le ragazze italiane facevano le difficili!!! Non mi consideravano per niente. Non ero bello e non ero piacente.  Per quanto riguardava il gentil sesso ci avevo messo una pietra sopra ormai da un pezzo.

Il mio disagio fino ad allora portava solo e soltanto allo stordimento dovuto alla quantità eccessiva di alcol. Avevo 36 anni ed era da venti anni che lavoravo. E i lavori che avevo fatto non erano mai stati gratificanti. Mi potevo anche accontentare di poco, ma nessuno avrebbe mai dovuto togliermi il vino. Potevo anche albergare in una stanzuccia squallida, dormire in un letto con le lenzuola e il materasso sporchi e umidi, fare un lavoro alienante e sottopagato, mangiare schifezze, non fare all’amore, ma nessuno doveva togliermi quella bevanda rossa. Il vino era la mia salvezza. Aveva un bel dire mia sorella del vino. Il vino per me era necessario come l’aria che respiravo. Perché l’aria che respiriamo è forse solo ossigeno? Non c’è forse anche il monossido di carbonio che si attacca alla nostra emoglobina? Non ci sono forse le polveri sottili? Non potevo esimermi dal berlo così come non potevo bloccare il respiro troppo a lungo. O bevevo o facevo come Kurt Cobain. Solo che Kurt Cobain aveva i fans che lo piangevano. Una volta alla settimana sentivo il richiamo del vino. Volevo una realtà rovesciata per qualche ora. L’alcol esercitava sul mio palato e sulla mia mente un fascino incredibile. Gli imprenditori, gli speculatori finanziari, gli impresari edili, i notai, i dentisti, gli avvocati, gli imbonitori, gli agenti immobiliari, i capobanda di catene di Sant’Antonio potevano fare tutti i soldi che volevano. Maschi bulli e bellocci e gigolò potevano farsi tutte le donne che volevano. Io bevevo il vino ed ero a posto. Ogni mio sorso poi era inframezzato da un tiro di sigaretta. Quella sera mi volevo ubriacare. Ero già uscito da casa. Niente e nessuno poteva trattenermi. Arrivai davanti al mio bar preferito, ma il bar era chiuso. Mi imbattei in un frequentatore abituale del bar. Gli chiesi come mai era chiuso, che cosa era successo. Lui mi disse che il proprietario era fuggito all’estero. Aveva lasciato la moglie e i figli ed era andato a vivere a Santo Domingo. Non era affatto malvagia come idea. E’ per questo motivo che quella sera non mi ubriacai. Ritornai subito a casa e iniziai a pensare a Santo Domingo. Era un luogo incantevole pieno di belle ragazze. Era da venti anni che lavoravo e qualche soldo l’avevo pure risparmiato. Non mi ero mai comprato macchine costose e abiti firmati. Non avevo mai fatto mutui. Non ero mai ricorso a prestiti. Non avevo debiti di gioco. Non frequentavo ristoranti alla moda. Insomma questo è tutto o quasi tutto. Ma adesso mi chiama la mia bella moglie per la cena. Devo finire in una manciata di secondi questo racconto. E’ da due anni che sono qui a Santo Domingo e dell’Italia non ho nessuna nostalgia. Non ho più bevuto un goccio. Adesso io faccio il barista. Sono io che verso da bere e riempio il bicchiere a italiani in vacanza, che non ce la fanno più a lavorare e a vivere in Italia. Però molti di loro hanno in Italia casa, lavoro e famiglia. Molti di loro non se la sentono di abbandonare tutto. Qualcuno però riesce a fuggire e allora gli offro da bere. Ma non fatelo sapere troppo in giro, non spargete troppo la voce perché altrimenti questo mio bar potrebbe fallire.

IL GENIO E LA BAMBINA:

​​​Guardò la chioma rossa di sua figlia e i suoi occhi azzurri. Si mise ad osservare attentamente le sue lentiggini. Poi riprese a guardare la strada. Ormai erano prossimi alla destinazione. Quella bambina aveva dei problemi. Aveva dei problemi di apprendimento. A scuola era l’ultima della classe. Quell’anno l’avevano bocciata. Eppure si impegnava e faceva sempre i compiti!!! L’aveva portata da degli psicologi, che le avevano fatto dei test d’intelligenza. Le avevano diagnosticato un ritardo mentale. Non avrebbe potuto laurearsi e nemmeno diplomarsi. Che onta per due genitori, che erano entrambi professori universitari e anche due ex-allievi della scuola Normale di Pisa!!! Sua moglie diceva che voleva bene lo stesso alla bambina e che anzi proprio per questo motivo dovevano starle più vicino. Lui invece rimaneva in silenzio. Non parlava. Da chi aveva preso quella bambina? Forse era il frutto di una mutazione genetica!!! Aveva fatto anche l’analisi del Dna, ma non c’era stata alcuna sorpresa: quella era veramente sua figlia. Aveva chiesto un parere a un suo amico, che aveva vinto la cattedra di psicologia generale all’università di Roma. Il suo amico gli aveva detto che a suo avviso le differenze di intelligenza esistevano, ma non erano così facilmente quantificabili come certi psicologi volevano far credere. Gli aveva detto che i test d’intelligenza erano misure indirette soggettive. Infatti non c’era alcun strumento oggettivo, che misurasse l’intelligenza e anche quei test erano creati da degli psicologi, che avevano una loro cultura e una loro mentalità, anche se venivano utilizzati dei criteri statistici. Il suo amico gli aveva detto che in fondo quei test avevano una capacità predittiva di circa il 60%: esistevano sempre dei falsi positivi e dei falsi negativi. Un tempo si credeva allo schema dello stimolo e della risposta. Ma a suo avviso tra lo stimolo (il test) e la risposta si potevano situare alcune variabili intervenienti come l’ansia, la distrazione o l’originalità. Il suo amico gli aveva detto che quei test riuscivano a predire in una certa misura il successo scolastico, ma alcuni studiosi avevano avanzato il dubbio che misurassero soltanto il pensiero convergente e che penalizzassero le persone creative, che erano dotate di pensiero divergente. Ma lui non credeva fino in fondo a quel che diceva il suo amico. Forse gli diceva queste cose per rincuorarlo. Forse la pensava così, perché era troppo progressista. Sua moglie invece gli diceva che per capire e vivere la vita non c’era bisogno di alcuna dote intellettiva e che la bambina era gioviale, serena e piena di vita. Sua moglie gli diceva che per vivere bene la vita c’era bisogno di istinto. Ma lui era sempre più ombroso. Non parlava mai. Non diceva mai la sua.

Avevano passato la laguna di Orbetello: quella laguna dove affioravano isolotti e boschetti in cui vivevano aironi e fenicotteri. Erano arrivati al promontorio dell’Argentario, circondato dal mare: un promontorio, caratterizzato dalle terrazze e dalla macchia mediterranea. La costa irregolare invece era piena di calette, di scogliere e di lingue di sabbia. Dalle viuzze sterrate si arrivava alla spiaggia. C’erano anche delle pinete. Erano posti ameni, che infondevano un intimo senso di benessere per le bellezze paesaggistiche  e naturali. Eppure la laguna di Orbetello rischiava di perire per gli scarichi di materie inquinanti, che causavano un proliferare di alghe. Dio aveva benedetto questi luoghi e gli uomini rischiavano di rovinarli definitivamente. Giunti a Porto Santo Stefano parcheggiò la macchina in uno spiazzo. Fece scendere la bambina. La prese per mano. La portò sulla barca. Accese il motore. Si diresse in mare aperto. La barca solcava le onde con levità. Il mare era calmo. Il mare era una tavola. Era limpido e trasparente. Quando giunse molto lontano dalla terra ferma disse a sua figlia che avrebbero fatto il bagno e che questa volta le avrebbe insegnato a nuotare. La piccola rimase interdetta, ma poi si fidò. Sorrise al padre, che con le mani cinse la sua schiena e la gettò in acqua. Un istante dopo si tuffò anche lui. Ma invece di aiutarla a galleggiare iniziò con tutte e due le mani a premerle la testa per affondarla. Continuò per tre lunghissimi minuti. La piccola all’inizio cercò di opporre resistenza, poi ebbe appena il tempo di chiedere: “perché papà?”. Ma l’uomo non rispose e continuò ad affogarla. Un piccolo ed ultimo grido finì disperso nel vento. La piccola ormai era una cosa inanimata. Era un corpo morto che galleggiava. Non dava più segni di vita. L’uomo risalì sulla barca. Era sicuro che nessuno l’aveva visto. Era certo che nessuno s’era accorto di niente. Finalmente si sentiva leggero. Oramai si era tolto un peso. Si sentiva libero. Non gliene importava assolutamente dell’eventuale galera e dell’eventuale ergastolo. Era assolutamente sicuro che sua moglie in fin dei conti avrebbe capito. Era mezzogiorno. Il sole era alto nel cielo. Lui aveva voglia di andare a mangiare in un ristorante come se niente fosse accaduto.