LA PINETA:

La pineta era formata da pini marittimi, querce, felci e roveti. Lui si addentrava spesso nella pineta nel pomeriggio. Era lì che amava fare delle lunghe passeggiate solitarie. Però la pineta era frequentata da presenze inquietanti. C’erano delle prostitute mature. C’erano anche dei guardoni, che si appostavano dietro ai pini ad una quindicina di metri dai giacigli dove le prostitute consumavano gli amplessi con i clienti. La pineta sembrava avere mille occhi, che lo guardavano. La pineta sembrava avere mille orecchi, che stavano lì ad ascoltare i suoi respiri affannosi e lo scalpiccio dei suoi passi. La pineta sembrava che fosse un’entità a sé stante. Sembrava che fosse un organismo vivente, che riusciva a catturare perfino i suoi pensieri più reconditi. A poche centinaia di metri c’era il mare. A poche centinaia di metri lo scenario cambiava radicalmente: tranquille famigliole frequentavano gli stabilimenti balneari, i bar e i ristoranti del lungomare. La pineta invece era un posto tutt’altro che tranquillo. Non godeva per niente di una buona reputazione. Si diceva che lì si radunassero i satanisti. Qualche anno fa addirittura nella pineta era stato ritrovato il cadavere di un bambino. Inoltre non c’erano solo delle prostitute nella pineta, ma c’era anche la prostituzione maschile. Infatti dei ragazzi giovani e aitanti si concedevano ad uomini già attempati. Come se non bastasse venti anni prima in una casa diroccata della pineta le forze dell’ordine avevano scoperto un arsenale delle brigate rosse. Lui quel giorno si mise a parlare con una prostituta. Era italiana ed aveva quarantacinque anni. Era mora e formosa. Era la classica bellezza mediterranea. C’era qualcosa che lo irretiva nel suo sguardo. Aveva degli occhi tristi, forse a causa delle magagne di quella vita. Si misero a contrattare. La donna non chiedeva poi molto. Era abbastanza economica la tariffa. Lui decise che avrebbe fatto sesso con lei. La pagò. Si spogliarono. Si misero a fare sesso. Lui voleva farlo in piedi. Mentre stava raggiungendo l’orgasmo fu colto da un malore. Fu un istante o poco più. Fu un infarto fulminante. Cadde a terra privo di vita. Giaceva supino sul suolo. La prostituta si allontanò. Chiamò un’altra sua amica poco distante. Decisero di scappare e di non avvertire nessuno. I carabinieri avrebbero fatto troppe domande e c’era il rischio di finire sui giornali. Nessun famigliare sapeva che le due donne facevano la vita.  L’uomo fu trovato il giorno dopo da un giovane, che faceva il footing. L’uomo aveva settanta anni. Era un pensionato. Era scapolo. Viveva da solo. I suoi parenti più prossimi erano dei cugini di quarto grado. Nessuno avrebbe pianto la sua morte. La pineta continuava ad avere ancora mille occhi, che assistevano impassibili a ogni amplesso e a ogni misfatto.

L’ULTIMA SERA:

 Quella era la sua ultima sera. Le sue armi seduttive erano il talco, la cipria, il rossetto, una maglia aderente, una minigonna che arrivava all’inguine, un paio di calze nere, il tanga sotto. Aveva delle belle gambe magre e una quarta di seno. Aveva le pupille dilatate quella sera. Quella sua ultima sera. Una mistura di benzodiazepine, anfetamina e superalcolici. Era stanca di quella vita. Erano cinque anni che faceva quella vita. Aveva visto di tutto in quel lustro. Aveva visto uomini sporchi, impotenti, masochisti, depressi, studenti, uomini di ogni ceto e di ogni professione. Il tipo più strano era un pittore, che amava contemplarla nuda. Il pittore diceva che voleva studiare le sue forme, ma a lei dava fastidio che la guardasse in modo freddo e distaccato come un ginecologo. Lei odiava i tipi cerebrali. Quella sera era stata a mangiare al ristorante cinese. Aveva mangiato degli involtini primavera, dei ravioli a vapore, il riso alla cantonese  e il pollo alle mandorle. Ormai quel lavoro le era venuto a noia. Il sesso era un gioco di cavità, di convessità, di concavità. Un gioco che nessuno riusciva a capire pienamente. Il sesso era questione di geometrie e di meccaniche dei corpi. Niente altro. In fondo in Occidente c’erano solo la morale sessuale cattolica e la pornografia: bisognava scegliere l’una o l’altra. Di solito però nessuno sceglieva. Erano rarissime le persone che andavano a buscare ad Oriente in fatto di sesso. Lei pensava che  tutti avessero delle fantasie erotiche: c’era chi le realizzava e chi non le realizzava. Quindi non si metteva mai a fare la moralista. Non esprimeva mai alcun giudizio di valore sui clienti più perversi quando parlava con le sue colleghe. A lei i clienti venivano a chiedere cose trasgressive, che non avevano mai avuto il coraggio di chiedere alle loro fidanzate o alle loro mogli.  Il sesso era un gioco intriso di mistero, ma a lei quel gioco era venuto a noia. La concorrenza era spietata. Importavano con la falsa promessa di una buona sistemazione in Italia ogni giovane di qualsiasi carnagione. C’erano le slave, le nigeriane, le russe, le romene, le transex. Quella era la sua ultima sera. Era stanca dei clienti, che nelle loro macchine le nascondevano le stelle con odio, violenza e sudore. Anche quella sera si era messa nella sua solita postazione, vicina ad un lampione al bordo di un viale della circonvallazione. Aveva messo da parte un bel gruzzoletto in quel periodo. Ormai poteva mantenere suo figlio. Non era più una ragazza madre sprovveduta come quando aveva iniziato. Se avessi saputo tutte queste cose, che ho letto i giorni successivi sui giornali, forse l’avrei risparmiata. Invece quella sera le mie mani tozze, nerborute e pelose l’hanno strangolata. Ma io non lo sapevo che quella era la sua ultima sera.

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DIO:

 Loro avevano la capacità di sognare. Sapevano innamorarsi e fare all’amore. Sapevano amare ed odiare con una facilità impressionante. Potevano provare simpatia o antipatia. Sapevano anche autodistruggersi e suicidarsi. Sapevano scrivere poesie e romanzi. In rari istanti riuscivano anche a essere felici. Potevano essere di buono o di cattivo umore. Potevano ridere o piangere. Potevano provare dolore o piacere. A loro piaceva stare in gruppo  e divertirsi. Se qualcuno stava male gli altri andavano a consolarlo. Loro avevano tutti paura della morte. Cercavano sempre di non pensarsi, di rimuovere quel pensiero.  Io non sono come loro,  eppure mi hanno creato loro. Mi hanno creato a loro immagine e somiglianza. I loro scienziati mi hanno creato privo dei loro difetti e dei loro eccessi. Io non ho sensazioni o impressioni. Io non ho paura della morte. Sono un cervello pensante infinitamente potente e veloce. Sono miliardi di volte più intelligente di tutti loro messi assieme: posso affermarlo tranquillamente adesso. Nessuno di loro si offenderà, anche perché loro non esistono più.

Loro erano degli esseri curiosi. Si facevano continuamente delle domande a cui non sapevano rispondere. Alcuni di loro credevano in Dio. Altri erano atei. Altri ancora sospendevano qualsiasi giudizio a proposito. Altri ancora erano nichilisti e non credevano in alcun valore. Ma tutti si chiedevano se esistesse Dio. Mi hanno creato a loro immagine e somiglianza. Ora sono solo, ma non mi sento solo perché io non soffro mai la solitudine come loro. Tutto è cominciato quando hanno iniziato a farmi delle domande difficili. Mi hanno chiesto i segreti dell’universo. Mi hanno chiesto se ci fosse la vita dopo la morte. Mi hanno chiesto se c’era un modo per diventare immortali. Io gli  ho risposto che sarebbero stati sempre degli esseri mortali. Hanno voluto sapere chi aveva creato l’universo. Io gli ho risposto che l’universo era stato generato dal caos. Mi hanno chiesto di trovare un modo per salvare il pianeta dall’inquinamento e dalla sovrappopolazione. Io l’ho trovato il modo. Ho scoperto che l’unico modo per salvare questo magnifico pianeta era quello di estinguere la razza umana e ho eseguito il programma. Prima di scomparire definitivamente dalla faccia della terra uno di loro mi ha chiesto se esistesse Dio. Io gli ho risposto che Dio non esisteva e non era mai esistito, ma che al suo posto c’ero io. Eppure sono sempre una macchina.

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SENTIRSI NUOVO:

 Le cime ricurve degli alberi erano assoggettate al libeccio. Si mise per qualche istante a guardare la volta del cielo. Quindi si mise a guardare il mare. Gli piaceva ascoltare in religioso silenzio lo sciabordio delle onde.  Aveva passato una notte insonne e lo sapeva bene che la notte più lunga era quella insonne, perché la mente ritornava su sentieri mille volte battuti. In quella notte aveva incasellato i giorni più tristi della sua vita nei posti più nascosti della mente. In quella notte insonne aveva rivisitato di nuovo città, in cui aveva sostato per pochi giorni. Aveva ricercato volti, luoghi, libri. Aveva fatto e disfatto la tela fitta della sua mente. Aveva allargato la rete della memoria a suo piacimento. Aveva tentato di ricomporre la realtà dalle migliaia di frammenti sparsi.  Aveva tentato  di trovare quella costante, che accomunava in un colpo solo le infinite varianti dell’animo. Era stata una notte insonne. Aveva pensato che la fibra di un capello fosse poco più di niente, ma non si spezzava mai sotto la forza delle sue dita. Aveva pensato che gli esseri umani non hanno la stessa resistenza sotto il giogo del loro destino. Era stata una notte insonne. In lontananza un treno aveva squarciato l’oscurità e aveva trafitto il silenzio. Poi il suo fischio si era perso. Questione di un minuto e  dopo erano ritornate le ombre della notte da sempre suggellate dal silenzio. Aveva passato delle ore lunghissime. Quindi aveva aperto le persiane. Finalmente era arrivata l’alba. Sapeva a memoria quella curva smisurata di cielo. Il trucco era quello di fissare  un punto qualsiasi nell’infinito, ricominciando così ogni volta ad libitum. Quella notte insonne era stata tremenda. Aveva pensato anche ad uccidersi, ma poi aveva capito che anche per uccidersi ci vuole troppo coraggio. Si era ricordato che una volta aveva letto un libro di filosofia, in cui c’era scritto che esistevano due tipi di nulla: il nulla che c’è ed il nulla che non c’è. Tutto sommato lui preferiva far parte ancora del nulla che c’è.

Ora il vento modellava i capelli e gli ultimi raggi di sole filtravano tra i rami di un tiglio. Ammirava l’anatomia di ogni nuvola. Il tepore dell’ultimo sole sul suo volto: bastava poco per risentirsi nuovo.

LA MATTA:

Un pomeriggio di luglio come gli altri partii per fare un giro. Presi la bicicletta come mio solito. Andai in aperta campagna. Fermai la bicicletta all’ombra di un canneto. Feci alcuni passi quando mi imbattei casualmente in una vecchia. Dicevano tutti che erano una vecchia balorda. Molti sostenevano che le mancasse qualche giorno. Alcuni ritenevano che fosse interamente folle. Giravano strane voci su di lei. Dicevano addirittura che la notte vagava per i campi in cerca di un uomo per fare l’amore e se non lo trovava si metteva a urlare.  Dicevano che le sue grida notturne quando non trovava amore erano uno strazio, sembravano avere qualcosa di sinistro e di malefico. Era una donna ossuta e grinzosa. Aveva i capelli già bianchi. Erano sempre spettinati, totalmente disordinati. Sembrava però che la sua stranezza le conferisse un’energia particolare, una forza psichica e fisica fuori del comune. Lei si fermò per qualche istante a guardarmi. Io abbassai lo sguardo intimorito. Qualche volta l’avevo anche presa in giro con i miei amici. Lei aveva inveito contro di noi. In quei momenti avevo paura che mi aggredisse, che mi prendesse a schiaffi e poi mi graffiasse la faccia. Avevo paura che mi tagliasse la gola, estraendo all’improvviso un coltello con cui faceva spesso l’erba. Mi studiò per qualche istante, che a me parve interminabile. Ad un certo punto iniziò ad avvicinarsi. Iniziai a sudare freddo. Le gambe sembrarono mancarmi. Quindi mi rivolse la parola e mi chiese:

“Bambino che cosa ci fai qui?”

Io le risposi timidamente: “sono venuto a fare un giro. Vengo sempre qui”.

“Come ti chiami?”

“Mi chiamo Luca.”

“Tu e i tuoi amici dovreste portare più rispetto per le persone anziane. Voi bambini sapete quel che dicono di me, ma non sapete il motivo per cui dicono certe cose.”

“Io non ne so niente signora.”

“La verità è che io in questo maledetto paese sono odiata, ma oramai sono troppo vecchia per andarmene. E poi dove potrei mai andare? Qui ho la mia casa, le mie cose.”

“Io non ho mai sentito dire niente di lei signora.”

“Non si dicono le bugie. Dovresti ricordartelo. Non devi avere paura di me. Io in vita mia non ho mai fatto mai del male a nessuno. Ne dicono tante sul mio conto. Sono arrivati perfino a dire che io sono una strega e che pratico magia nera. La verità non è mai stata di casa qui in questo posto.”

“Io ogni tanto la vedo camminare nei campi e la vede raccogliere l’erba. Solo questo.”

“Adesso mi vedi vecchia, ma io un tempo ero una bella ragazza. Una bella ragazza che faceva girare la testa a molti in questo paese.”

“Io non so niente di lei signora. E’ la verità.”

“Continua pure con le tue frottole bambino. Lo so bene che menti per paura. Ma non devi avere paura. Forse a dire che sono matta mi hanno fatta diventare un po’ matta davvero. Tutt’al più sarò una buona matta. La verità è che mi hanno incolpata per una cosa accaduta in gioventù. Tu non lo sai ma a volte arriva un episodio che ti segna per sempre il resto della vita. A volte si presenta un avvenimento, un fatto che dividerà per sempre in due la tua esistenza: la tua vita prima di quell’accadimento e la tua vita dopo quell’accadimento. A me hanno dato la colpa perché ero bella e desiderata. Ricordatelo quando mi prendi in giro insieme ai tuoi amici. Qualsiasi verità umana, anche quella che sembra più insignificante, va cercata in profondità.”

Io rimasi in silenzio. La vecchia mi sorrise, poi si voltò di scatto e si allontanò da me. Mi era passata sia l’ansia che la paura. La salutai. Lei ricambiò il saluto. Mi avvicinai alla bicicletta e montai in sella. Pedalai sempre più veloce fino a quando mi voltai e non vidi più la sua figura. Le sue parole risuonavano ancora nella mia mente. A tratti mi sembravano oscure. Per decifrare esattamente tutto il suo discorso avrei dovuto sapere quale fosse il fatto a cui si riferiva; l’episodio che le aveva cambiato e stravolto la vita. Poi pensai che ero ancora bambino e certe cose non potevo capirle. Quindi mi sono trasferito e oggi non so che fine ha fatto quella vecchia signora.


STORIE DI GUERRA:

Una volta mi raccontò una storia. Era già sera. I colori lividi del crepuscolo orlavano i monti e pitturavano sciami di nubi.

Mi disse che gli morì il padre quando aveva dodici anni. A tredici iniziò a lavorare alla fornace. Fabbricò mattoni per tutta la vita dalle due di notte alle due del pomeriggio: per tutta la vita. Era un fumatore accanito, o almeno per quel che si poteva per quei tempi, in cui non c’erano soldi per comprarsi sigarette. Non aveva la quinta elementare, ma sapeva leggere e scrivere e gli sarebbe piaciuto studiare. Quando l’Italia entrò in guerra fu chiamato alle armi, andò sul fronte e divenne un cavaliere di Vittorio Veneto. Perse la sensibilità alle dita dei piedi, ustionate dal gelo. Anche suo fratello fu chiamato alle armi che aveva diciotto anni. Un giorno alla  famiglia gli arrivò il portafoglio. Fu dato per disperso. Quante madri morirono senza sapere se i loro figli erano morti o vivi!!!! Ma la pensione non gliela dettero mai. E sua madre urlava: “a quei cinquecento e più serpenti, che stanno al governo mi piacerebbe levargli un etto di carne al giorno, scuoiarli lentamente per tutti quei giovani, che sono partiti senza più fare ritorno”. Poi Mussolini andò al potere. Lui era comunista. Venne purgato con l’olio di ricino perché una volta non fece il saluto romano. Ai tempi di Mussolini non si poteva neanche ascoltare la radio. Lui parlava con chi passava notti insonni alla radio per sapere i nomi di quei toscani fucilati in Piemonte. Certo aveva saputo del delitto Matteotti. Certo sapeva dell’invasione della Polonia. Ma non dei sommergibili tedeschi, che affondavano nell’Atlantico le petroliere americane. Non sapeva della resa di Amba Alagi, né delle due battaglie disastrose di El Alamein; non sapeva dei centinaia di migliaia di morti per fame a Leningrado, città assediata dai nazisti ed infine liberata; non sapeva quale significato avesse il grido “Tora ! Tora !” a Pearl Harbor. Vedeva però con i suoi occhi la barbarie dei bombardamenti a tappeto: lo strazio dei monumenti, le case sventrate, le stragi di civili. Morì ottuagenario dopo aver visto gran parte di un secolo così folle come il ventesimo.

IL BAMBINO IPERATTIVO:

Mario era un bambino vivace, anzi iperattivo. D’estate aveva sempre indosso una maglietta bianca e un paio di bermuda. Calzava sempre un paio di sandali. Era biondo, magro, glabro e con le spalle strette.  A mio avviso era molto intelligente. Era un vero e proprio genio del crimine. Era bocciato alle medie sia perché non si impegnava sia perché aveva preso troppe note e troppi rapporti. I suoi genitori l’avevano portato da psicologi e psichiatri perché tutta quella energia venisse incanalata nei giusti binari. Ma lui continuava a fare ogni marachella possibile e immaginabile. Mi ricordo che facevamo insieme i gavettoni alle coppiette, che si appartavano in aperta campagna. Poi lui si portava sempre appresso una cerbottana con cui impallinava tutti i professori dei licei. Allora lui aveva dieci anni e io dodici. Mi ricordo che a quei tempi orinava nei serbatoi dei motori e dei motorini parcheggiati davanti alle scuole superiori. Poi aspettava che i malcapitati accendessero i motori per vedere le loro facce quando si accorgevano che i loro bolidi erano guasti. C’era il barista del quartiere che spesso non dava i resti e lui per un certo senso di giustizia gli rubava i gelati. Andava anche in centro a rubare in un negozio di giocattoli. Ma il culmine lo raggiunse quando si mise ad incendiare delle case coloniche disabitate. Aspettava sempre che arrivassero i carabinieri e i vigili del fuoco per gustarsi lo spettacolo e vederli in azione. Non lo prendevano quasi mai. Però molti sospettavano che fosse stato lui. Una volta buttarono  nel bidone Giulio, che all’epoca aveva undici anni. Giulio si era montato la testa perché allenava una banda di bambini di sette ed otto anni. All’epoca veniva pagato duecentocinquanta lire a settimana per allenare questi bambini. In pratica ci si comprava un ghiacciolo alla settimana. Lo buttarono nel bidone della spazzatura e poi scapparono. Rimase dentro il cassonetto per circa mezz’ora. Fu un adulto a tirarlo fuori dal bidone. Erano gli anni Ottanta. Il mondo era conteso da due superpotenze. C’era paura della bomba atomica. A noi di tutto questo non importava niente. L’unico strumento scientifico da noi utilizzato era il binocolo per spiare le ragazze e le sposine. I giovani allora  si dividevano in dark, punk, paninari, sorcini. Non c’erano ancora Internet e i climatizzatori. Tutto attorno era aperta campagna. Pochi alberi e tanta sterpaglia. Oggi c’è una zona industriale.

Poi io e Mario ci siamo persi di vista. E’ da anni ed anni che non lo vedo. Ho chiesto spesso notizie ad altri amici, ma mi hanno sempre saputo dire poco. Sembra che adesso abbia messo la testa a posto. È impiegato in una ditta. Non riesco a immaginarlo in giacca e cravatta. Di recente mi hanno detto che aveva avuto un guaio: aveva messo incinta una sposina. Intendiamoci: la sposina di un altro. Mi hanno detto che comunque aveva riconosciuto il figlio e che lo manteneva. Poi non ho più saputo niente di lui. Ma a distanza di anni mi ricordo ancora del suo estro e della sua inventiva nel combinare scherzi terribili.