LA SCOMPARSA DELLE PAROLE:

Un bel giorno scomparvero le parole. Si sentirono bistrattate, male utilizzate; si sentirono strumentalizzate ed incomprese. Si sentirono sottovalutate in un mondo ormai dove gli uomini davano importanza solo alle immagini e ai numeri. Gli uomini rimasero così senza linguaggio. Provavano a parlare, ma la loro voce non riusciva più ad articolare parole: solo suoni incomprensibili. Le parole di colpo scomparvero anche dai libri. Scomparvero le raccolte di poesie, i romanzi, i saggi, i manuali, i libri di storia dell’arte, gli articoli di giornale, le scritte sui muri, gli aforismi, i pettegolezzi, le bestemmie, le offese, le invettive. Fin qui molti furono contenti. Ma scomparvero anche i vocabolari, le enciclopedie, le agiografie, le barzellette, i nomi delle piazze delle strade, i nomi delle città, i nostri nomi di battesimo e i nostri cognomi. I bambini delle elementari non potevano più imparare le tabelline. Gli studenti delle scuole medie non potevano più imparare l’algebra. Quelli delle scuole superiori non potevano più imparare gli insiemi, le equazioni di primo e secondo grado, le funzioni, i limiti, le derivate, gli integrali, la trigonometria. Anche gli studenti delle facoltà scientifiche non potevano più progredire nei loro studi. Nei loro libri di testo erano scomparse tutte le parole. La matematica infatti non era fatto solo di formule, equazioni, funzioni. Era fatta anche di assiomi, di teoremi. Come potevano le maestre insegnare che cosa era il perimetro o l’area di un quadrato? E il teorema di Pitagora? Non esistevano più parole come “cateto”, “ipotenusa”, “somma”. Anche gli scienziati più “scientisti”, che fino ad allora avevano ritenuto il linguaggio qualcosa di inessenziale, non sapevano più come fare. Ad esempio gli astronomi non potevano più usare parole come “stella”, “costellazione”, “nebulosa”, “supernova”, “galassia”. Erano scomparse le parole. Erano scomparse le lettere dell’alfabeto. Erano scomparse la grammatica, la sintassi, l’ortografia. Di conseguenza erano scomparse tutte le terminologie scientifiche. Qualsiasi idea era divenuta inesprimibile: gli uomini erano condannati al silenzio. I linguisti e i filologi cercarono di utilizzare un antico trucchetto: cercarono di adottare ideogrammi e geroglifici. Ma fu vano, perché le parole se ne erano andate via sia con il loro significante che con il loro significato. Quindi anche gli ideogrammi erano dei semplici segni senza senso. Poi come per incanto – forse grazie ad una intercessione divina – le parole riapparvero. Anche coloro che fino ad allora le avevano ritenute inutili le ringraziarono.  Tutti capirono che gli uomini avevano bisogno di un sistema alfanumerico. Fu allora che smisi di essere uomo e divenni parola.


BOLOGNA:

 Lucio decelerò. Abbandonò subito la carreggiata e fermò la macchina in un’area di sosta. Erano le tre di notte.  C’era poco traffico in autostrada. Avevo incontrato Lucio a una festa studentesca a Ferrara: una festa con ragazze ubriache, con musica a tutto volume e senza un posto dove sedersi. C’era un marasma di gente accalcata in un piccolo appartamento. Qualche disperato si faceva di eroina o di benzedrina. Lucio mi aveva chiesto se avevo voglia di andare con lui a Bologna per divertirsi in una discoteca in cui conosceva alcune cubiste. Io avevo accettato subito.

Viva Bologna..la grassa, la dotta!!! Però  era accaduto l’imponderabile: un guasto al motore. Fu così che camminammo al bordo della strada finché non trovammo una colonnina sos: a quei tempi pochi eletti possedevano un cellulare. Eravamo all’inizio degli anni Novanta: non c’era ancora la crisi economica. Per inciso eravamo tutti più spensierati. C’era più benessere. C’era lavoro. Nonostante questo anche allora esisteva l’autodistruzione ed il vuoto interiore tra giovani: sopratutto tra coloro che erano insaziabili e viziati. Ritornammo alla macchina e aspettammo il carro attrezzi. Quando giunse il mezzo di soccorso esultammo. La macchina venne caricata in pochi istanti. Quindi il carro attrezzi partì verso la casa di Lucio a Bologna. Noi rinchiusi nella macchina parlavamo di tutto. Lucio diceva che nella sua vita aveva avuto conferma che la teoria del caos era vera: spesso si imbatteva in eventi imprevedibili. Inoltre eventi inizialmente insignificanti come il battito di ali di una farfalla potevano provocare effetti terrificanti (presupposto della teoria noto anche come dipendenza sensibile alle condizioni iniziali). Entrambi lo sapevamo che questa era una ipersemplificazione della teoria, ma in fondo alle quattro del mattino i nostri cervelli insonni non potevano partorire idee migliori. Poi mi diceva che scriveva poesie talmente ermetiche, che nessun critico letterario avrebbe decifrato analogie, metafore e citazioni. Oramai dovevamo cambiare i nostri programmi.   

Era troppo tardi per recarsi in discoteca. Avevamo perso tempo. Dopo venti minuti di viaggio arrivammo a casa di Lucio, che suonò il campanello perché non aveva le chiavi di casa. Salimmo le scale tutti insieme: anche l’uomo che ci aveva soccorso. Ci venne ad aprire suo padre, un professore ordinario di medicina, che era stanco della vita sregolata del figlio. I suoi genitori ci accolsero in vestaglia. Erano arrabbiati perché Lucio non metteva la testa a posto. Era sempre pronto a cogliere l’attimo fuggente. Non dava esami all’università. Pensava solo a divertirsi. Perdeva tempo, nonostante avesse perso già due anni perché era stato in carcere per spaccio di droga. Per fortuna che sua madre ebbe cuore e diede a Lucio la sua macchina. Il padre pagò l’uomo del carro attrezzi. Noi salutammo e ci avviammo verso il garage. Eravamo fortunati anche perché sua madre aveva fatto il pieno il giorno prima. Era l’alba ormai. Le prostitute abbandonavano le loro postazioni. Entravano in azione i netturbini. I bar aprivano e servivano caffè  ai primi clienti assonnati. Ci fermammo ad un distributore automatico per acquistare due pacchetti di sigarette. Le volanti della polizia controllavano la città. La fauna della notte lasciava spazio alle persone cosiddette normali, che andavano a lavorare nelle fabbriche e negli uffici. Bologna era un pachiderma, che si risvegliava lentamente. Riprendemmo l’autostrada e ritornammo a Ferrara. Anche quella notte da girovaghi era passata. Non so perché ho voluto brevemente raccontarla, visto e considerato che non successe niente di significativo. Adesso non so che fine ha fatto Lucio. Non so se è ancora vivo. Eravamo così diversi: quasi agli antipodi. Io andavo in bicicletta. Lui aveva belle macchine. Io ero sempre senza ragazze. Lui invece riusciva ad attrarle con i suoi soldi, il suo fascino da maledetto, il suo vitalismo spavaldo e allo stesso tempo disperato. Ci frequentavamo raramente. Io andavo alla mensa universitaria. Lui invece nei ristoranti. Io frequentavo le lezioni. Lui no. 

Entrambi eravamo degli individualisti, ma le nostre ribellioni non portavano da nessuna parte. Forse una cosa in comune l’avevamo: eravamo entrambi sconclusionati. Forse non era vero. Forse l’unica cosa in comune era l’aver condiviso quella notte pazza. Dopo quel viaggio non l’ho più rivisto. Non so perché lo ricordo, ma forse anche nella mia memoria vige la teoria del caos.

ELENA:

Elena aveva smesso di mangiare. Ventidue anni. Studentessa universitaria di legge. Alta. Chioma folta. Mora. Labbra sottili. Occhi verdi. Zigomi alti. Sopracciglia arrotondate. Naso aquilino. Dimagriva ogni giorno. Il suo corpo diventava ogni giorno sempre più scheletrico. Nei suoi occhi intravedevo la morte. Inutile fare psicologia grossolana e spicciola. Forse desiderava una perfezione, che non avrebbe mai raggiunto. Forse si sentiva abbandonata. Forse dentro di lei o attorno a lei sentiva un vuoto: una voragine, che si apriva e creava uno sprofondo. I vestiti di un tempo non le stavano più. Forse sentiva il suo corpo come un oggetto impuro. Forse semplicemente non si sentiva amata. Forse nessuno le aveva dato amore. Forse le avevano dato amore nel modo sbagliato. L’anoressia e la bulimia restavano un mistero. Quali erano veramente le cause? Una percezione errata della propria corporeità? O forse c’era qualcosa di più profondo? Il rischio di banalizzare certi sintomi era sempre elevato. Sarebbe riuscita a superare questo momento? Molto probabilmente non da sola. Molto probabilmente avrebbe dovuto chiedere aiuto ad uno specialista. Ogni giorno era sempre più leggera. Ma ogni giorno era sempre più vicina al punto di non ritorno. La catastrofe sembrava sempre più imminente. Non si confidava più con amiche. Si era chiusa in sé stessa. Forse era prigioniera del suo passato, di un passato di cui non riusciva a liberarsi. L’immagine che rimandava lo specchio era ormai un’ossessione. Come del resto pesarsi sulla bilancia. Sempre più ragazze erano come lei. Alcune fotomodelle rasentavano l’anoressia per avere le misure per sfilare. Eppure non c’era niente di oggettivo: i canoni estetici variavano in base all’epoca e alla cultura. Ma la cultura predominante era sempre più invadente e oppressiva. La civiltà dell’immagine creava dee prive di qualsiasi imperfezione estetica e chiedeva il sacrificio di migliaia di ragazze non conformi ai criteri estetici dominanti. Molte delle escluse cercavano qualsiasi artificio, qualsiasi escamotage per essere accettate o soltanto per sentirsi accettate. Elena non aveva bisogno di parlare per chiedere aiuto: il suo corpo era già un messaggio esplicito, una richiesta di aiuto. Come mai non se ne erano ancora accorti? Il suo male era manifestazione di un disagio esistenziale, di un malessere radicato da anni. Quanto ancora avrebbe potuto resistere il suo corpo così magro? Io che ero il suo dirimpettaio mi ponevo queste domande banali. Forse nascondere le fragilità e ostentare la magrezza sono esigenze del nuovo millennio: nuovi imperativi categorici. Perché questa autodistruzione così lenta e allo stesso tempo così graduale?  Perché non rompere quello specchio? Perché non scaraventare contro il muro quella bilancia? Perché rimanere sempre in disparte nella vita e non divertirsi mai?      

Nel frattempo gli sciacalli giudicavano. I detrattori, i calunniatori patologici erano sempre dietro l’angolo. Parlavano di lei e la giudicavano senza pietà. Fraintendevano e falsificavano tutto: la sua sensibilità, la sua sessualità, il suo pudore, la sua essenza. Lei era in lotta con sé stessa e le carogne si divertivano a vedere che soffriva. Forse era ormai come una mosca impigliata in una tela di ragno.

UN INCONTRO:

Alzo il bavero. Mi infilo le mani in tasca. Si è alzato un vento gelido. Una cortina di nubi plumbee occupa interamente il cielo. Cammino sotto i portici, che mi riparano dalla pioggia. Ammiro le arcate e il colonnato. Scorgo l’insegna. Finalmente sono arrivato al pub. E’ un locale accogliente arredato in legno. C’è l’aria condizionata e una sala per fumatori. Alcuni ragazzi giocano a freccette. Ordino una birra media alla spina. La ragazza va a spillarla e dopo un minuto me la porge. Mi metto a sedere sullo sgabello. Poggio un gomito sul bancone. Metto i piedi sopra la sbarra di metallo del bancone. Noto un poster di James Dean, inossidabile mito americano. Inizio a sorseggiare la birra. Tiro fuori le banconote dal portafoglio e pago il conto. Alcune ragazze sedute ai tavoli ridono a crepapelle, ma non so esattamente cosa susciti in loro tanta ilarità. Gli altri avventori bevono e parlano tranquillamente. C’è una musica in sottofondo. Io penso a come è complessa la realtà. Penso a come è complessa la natura. Ad esempio i rami di un albero o i fiocchi di neve sono studiati dai matematici per la loro geometria frattale: eppure apparentemente sembrerebbero così semplici le loro forme! 

All’improvviso entra nel locale un quarantenne stempiato, che calza un paio di mocassino e indossa una cerata e un paio di jeans sbiaditi e rattoppati. È una mia vecchia conoscenza. Lo guardo, ma lui non mi riconosce più. È da venti anni che non ci vediamo. Comunque sono sicuro che è lui, anche se ognuno di noi ha sette sosia nel mondo. Mi sembra proprio lui. Saluta un tizio e riconosco il suo timbro di voce. È lui. Ne sono certo. La sua voce è inconfondibile. Ora ha meno capelli. E’ più paffuto nel viso. E’ visibilmente ingrassato. Venti anni fa facevamo entrambi parte di un movimento culturale, che voleva umanizzare il mondo: ideali nobili, grandi utopie. Però finimmo per litigare giocando a Risiko. Voi non sapete quante comuni negli anni Settanta  si sono disciolte per quisquilie, per piccolezze. Una volta ho letto di una comunità giovanile, che si è sciolta a causa di un litigio per dei giornali di fumetti. Un membro della comunità sosteneva che fossero suoi e da lì era nata una frattura nel gruppo. Tutto ciò mi ricorda un verso di una poesia di Bukowski: “nessun uomo è forte come le sue idee”. Ho finito la birra. Vado fuori per camminare ancora. Penso ancora a come certe piccolezze possano rovinare tutti i buoni propositi. È già sera. È smesso di piovere. Il sole si e’ fatto spazio tra le nuvole e sta tramontando. Raggi di sole fievoli si stagliano su insegne luminose, vetrine, finestre. Leggo per curiosità alcuni manifesti. Si allungano le ombre. È finito un altro giorno. La giovinezza ormai è un ricordo sbiadito.

BOMBA BATTERIOLOGICA:

 I suoi erano pensieri intermittenti, discontinui. Guardò per qualche istante la spiaggia. Un alito di vento creava delle increspature nel mare. Fissò l’orizzonte. I soliti convenevoli e le solite conversazioni tra vicini di ombrellone. Lontane le voci di bambini sul bagnasciuga. Lontani gli schiamazzi delle comitive di ragazzi, che giocavano a pallavolo in riva al mare. La sua mente era annebbiata dal vino, dal caldo, da quel sole abbacinante. Dai quotidiani era stata battezzata “bomba batteriologica”. I moralisti sostenevano che quel male fosse un castigo divino, ma forse si erano dimenticati le sciagure di Giobbe. La sua unica vera colpa era stata quella di essersi innamorata di un ragazzo: un ragazzo, che faceva molti viaggi esotici e che l’aveva contagiata. Lei sapeva pochissimo di quel maledetto virus, che svolazzava di ventre in ventre. Poi si era lasciata ed aveva avuto due avventure, contagiando involontariamente due ragazzi del posto. Erano i primi anni Novanta. C’era la guerra in Jugoslavia. La Germania si era riunificata. Era nata l’Unione Europea. In Italia era scoppiata Tangentopoli e avevavano fatto gli attentati a Falcone e Borsellino. Allora si moriva di AIDS,  anche nel primo mondo. All’epoca dei fatti esisteva la psicosi, ma molti esperti avevano rassicurato la massa dicendo che colpiva solo i gay e chi si drogava. Intanto il virus si propagava, complice la disinformazione: il preservativo era l’unica precauzione. Fu allora che conobbe il marchio della diversità. Fu allora che capì la cattiveria della normalità. Si riversarono su di lei una caterva di stereotipi negativi, di pregiudizi scaturiti da paure immotivate. Grazie alla stampa quattro portatori sani del virus, che facevano rapine con le siringhe infette, divennero rappresentativi di tutti i sieropositivi. Lei per i suoi compaesani divenne un mostro. L’Aids era la peste di fine millennio. Era caccia all’untore. Lei ormai non ne poteva più. Così aveva fatto le valigie e si era presa qualche giorno di vacanza. Si era recata da sola al mare. Oramai al suo paese era più sola di un cane randagio. Non ne poteva più. Era andata a bussare a tutte le porte per un lavoro, ma veniva sempre discriminata senza alcun decoro. I datori di lavoro si erano passati tutti il suo nominativo. Tutti stracciavano il suo curriculum: ogni direttore del personale aveva l’ordine tassativo di non assumere nessun candidato sieropositivo. 

Ritornò all’albergo. Aveva tre stelle. Aveva un parcheggio, un ristorante, una piscina, dei campi da tennis. Attraversò la hall. Chiese la chiave. Salutò la ragazza della reception. Prese l’ascensore. Osservò per un attimo il guardaroba, la camera, lo scrittoio. Alzò la cornetta e fece il numero di casa. Si sedette sul letto.  Trovò la madre.

Ciao mamma. Come va?

Tutto bene e te?

Si. Tutto bene. Dovevo cambiare un po’ aria.

Non demoralizzarti. Va davvero tutto bene?

Si. Ti voglio bene.

Anche io.

Ciao.

Ciao.

Riagganciò la cornetta. Entrò in bagno. Si lavò il viso. Si guardò allo specchio. Si fermò un attimo a sentire l’amplesso di una coppia, che filtrava dalla stanza accanto. Tirò fuori dalla borsa la pistola carica. Se la rivolse contro la sua fronte. Un colpo e poi più niente. Quella pistola aveva disinnescato una  bomba batteriologica.

FIRENZE:

Firenze sognava (diceva la canzone) e faceva sognare, però era difficile tirare avanti. Lei adorava passeggiare per le viuzze strette e medievali del centro storico. Adorava passeggiare per le strade su cui si affacciavano antichi palazzi nobiliari. Adorava guardare i negozi storici, i caffè con i tavolini all’aperto. Contemplava le facciate di edifici secolari. Le piaceva intrufolarsi nei mercatini e ammirare la laboriosità degli artigiani. Le piaceva osservare il lusso delle botteghe degli orafi e dei gioiellieri sul Ponte Vecchio. Le piaceva riflettere sulla sua vita, mentre vedeva il panorama da Piazzale Michelangelo. Ma nessuno aveva un lavoro per lei ed anche lei doveva sopravvivere. Inoltre aveva un figlio: un altra bocca da sfamare. Fu così che un giorno prese una drastica decisione: pensò di fare la vita. Dopo aver analizzato i pericoli corse al volo a cercarsi un protettore perché secondo lei quella era l’unica via d’uscita. Questo strano individuo aveva i baffi, la testa pelata e gli occhi stanchi. Calzava un paio di sandali. Gli disse: “qui sulla strada la guerra è spietata. Importano ragazze da ogni angolo del mondo. Ci sono bellezze di ogni tipo: bellezze esotiche e bellezze androgine. Da sola rischi di essere seviziata e ricattata. Qui ci sono le albanesi violentate e schiavizzate, le nigeriane raggirate tramite malefici. Il mercato tuttavia ha una sua logica di spartizione. Per ognuna vige una fascia di orario e la regola di non sconfinare oltre la propria postazione. Io ti proteggerò da tutti i pericoli, ma voglio una percentuale perché anche io devo campare.”

Fu così che cominciò a lavorare. Più forte di ogni insulto era il desiderio di vedere crescere suo figlio, di vederlo adulto. Forse per essere dei mariti esemplari c’è bisogno di qualche attimo di distrazione, di qualche quarto d’ora di trasgressione. Forse da sempre c’è bisogno di una doppia morale. Forse ci sono dei desideri inconfessabili, che alla moglie non si possono menzionare e a lei chiedevano cose che alla consorte non osavano domandare. Passarono i mesi e smise di innamorarsi dei clienti. Imparò tutti i segreti della professione. Quelli che venivano a contrattare in due in motorino o in macchina lei non li accettava per paura che la lasciassero senza un soldo. Li rifiutava non per ragioni di orgoglio, ma per timore che gli facessero il portafoglio. Con qualcuno che indossava la divisa lavorava gratis e non guardava l’orologio. Ma nonostante questi favori alle forze dell’ordine una volta venne processata, perché sorpresa in macchina con un cliente. “Atti osceni in luogo pubblico” sentenziò un giovane carabiniere. Quando arrivò in tribunale al giudice disse: “vostro onore da che mondo è mondo ci sono donne che come me esercitano la più disonorata delle professioni, per cui non prendete decisioni affrettate. Si è mai chiesto cosa accadrebbe nel mondo se non ci fossero quelle come me a fare da valvola di sfogo a nuvoli di maschi? Certamente aumenterebbero gli stupri e le molestie alle donne perbene. Certi uomini non capiscono più niente quando il testosterone gli ribolle nelle vene. Chi non ha una donna dovrebbe stare da solo tutta la vita? Forse preso dall’angoscia dovrebbe farla finita? Io vendo me stessa a ogni storpio, menomato o malato. Io sono molto di più di una assistente sociale. Nella mia alcova e non nei confessionali dei preti gli uomini si vanno a confessare. Nella mia alcova e non negli studi degli psicologi si vengono a sfogare. Nella mia alcova e non negli studi degli andrologi si fanno aiutare. Eppure per le puttane non c’è rispetto, anche se vi facciamo sempre spazio nel nostro letto. La società civile nei nostri confronti ha la stessa sensibilità di una mandria di bisonti. Nessuno ci dà la pensione. Eppure noi, anche se puzzate o fate schifo, vi trattiamo sempre come persone. Quindi non venite a farmi la  morale se faccio sesso in fondo a un vicolo deserto in ora tarda.”

Il giudice la assolse, anche perché era suo cliente. Invece condannò per eccesso di moralismo il giovane carabiniere. Passarono i mesi e trovò una sistemazione migliore. Iniziò a mettere annunci sul giornale locale e iniziò a rispondere alle chiamate del cellulare. Iniziò a lavorare in una sfarzosa camera di albergo, più calda e confortevole di ogni antico bordello. 

Firenze sognava e faceva sognare. 

LO SPETTACOLO:

La ragazza parcheggiò  la sua decappottabile, che le avevano comprato a rate i genitori. Spense la cicca nel posacenere. Estrasse uno specchio dalla borsa. Si guardò gli occhi, le labbra, la lingua. Osservò il trucco.  Scese dalla macchina. Si sistemò la gonna del tailleur. Cercò gli spiccioli nelle tasche per pagare il parcheggio. La piazza era quella. Aveva l’appuntamento tra cinque minuti. Diede un’occhiata alle vetrine. Guardò le commesse dei negozi. C’era anche una sala giochi. Era tutto un viavai di ragazzini. Al centro della piazza si trovava un monumento equestre. Dei bambini giocavano a palla in un cortile. Le loro grida si mischiavano ai rumori del cantiere edile, che ristrutturava un edificio. Qualche decina di metri più in la’ un bar. Fuori dal bar alcuni clienti fumavano e si rovinavano il fegato a bere superalcolici. Altro brusio. Altro mormorio nell’aria.

Era una calda primavera. Era esplosa pochi giorni prima con il suo tripudio di colori. Le giornate si erano allungate. Il sole era il re del cielo.  Il cielo era limpido. Attraversò la strada. Guardò i numeri civici. Trovò l’indirizzo giusto. Lesse le scritte sui pulsanti del citofono. Suonò. Le venne aperto il portone. Salì di corsa i gradini. L’ufficio si trovava al terzo piano. Era ansiosa per il colloquio che doveva sostenere. Le aprì un uomo sulla sessantina in giacca e cravatta. Era abbronzato. Aveva tutti i denti di porcellana. La fece entrare nel suo ufficio. Le tende erano state tirate. Le disse di sedersi.  Lei si sedette e sistemò gli avambracci sui braccioli della poltrona. L’uomo aveva in mano un bicchiere di whisky con dei cubetti di ghiaccio. Le chiese se voleva un po’ di whisky, ma lei rispose di no. L’uomo era un agente di spettacolo. Aveva affermato di avere ottime entrature nel mondo dello spettacolo. Le aveva detto che avrebbe dovuto fare un book fotografico. La ragazza non sapeva ancora se considerare l’uomo un essere meschino. Non sapeva ancora se era un vero manager o solo un millantatore. Forse aveva dei veri contatti. Forse era uno dei tanti del sottobosco. Però non capiva neanche cosa l’attirasse. Forse quell’uomo aveva del magnetismo. L’uomo disse alla ragazza che per avere successo non c’era bisogno di spremersi il cervello. Bastava avere un bel corpo e disse che lei aveva tutti i requisiti: si vedeva al primo colpo d’occhio che era una bella ragazza. Poi sostenne che in una società capitalistica c’erano i vincenti e i perdenti: gli eletti e i dannati.  Si mise a spiegare che nella vita le casistiche e le varianti possono essere praticamente infinite, ma lui nell’ambito del possibile conosceva gli ingredienti per far ottenere il successo a una bella ragazza. Le spiegò anche che il mondo dello spettacolo era un immenso tritacarne e che bisognava cogliere la palla al balzo quando si era giovani.  Quindi le chiese se voleva affermarsi oppure diventare una massaia come tante altre. La ragazza le rispose che era disposta a tutto pur di diventare famosa. Allora l’uomo le si avvicinò e le mise una mano sulla gamba. La tregua era finita. La ragazza non oppose resistenza. Non aveva scampo. Non aveva vie di fuga. L’uomo si comportò con prepotenza: come se tutto gli fosse dovuto. Consumarono l’amplesso sulla scrivania. Forse l’uomo si era comportato in quel modo per rompere la solitudine. Forse per sentirsi più giovane. Dopo aver fatto sesso l’uomo le mostrò delle fotografie in cui era ritratto con dei personaggi famosi e dei ritagli di giornale in cui veniva menzionato. Quindi si diedero un altro appuntamento e la ragazza si congedò. Quando giunse a casa si spogliò subito e andò a farsi un bagno per purificarsi. Non sapeva ancora se era stata ingannata, se era stata imbrogliata.


PADOVA:

Erano gli anni Novanta. Sono passati più di venti anni ormai. Eravamo tutti studenti fuori sede, domiciliati a Padova. Ci davamo sempre appuntamento in piazza del Capitaniato.  Andrea faceva medicina, piaceva molto alle ragazze. Era un marcantonio.  Però era più interessato agli acidi e ai viaggi psichedelici che alle studentesse. Giancarlo era prossimo alla laurea in psicologia clinica e fumava una Camel dietro l’altra. Aveva i capelli a caschetto e gli occhiali. Simona invece faceva scienze dell’educazione e lavorava come operatrice culturale. Chiara e Luca studiavano entrambi psicologia e stavano assieme. Ernesto faceva chimica e si fumava uno spinello al giorno, nonostante avesse l’asma. Cambiava ragazza ogni mese. Tutti andavamo in bicicletta o più raramente ci muovevamo con l’autobus. Dopo la laurea non so più che fine abbiano fatto alcuni. Alcuni non so se si sono integrati realmente nella società o se sono diventati dei disadattati come me del resto. Saltuariamente si univa a noi anche Laura, che aveva trenta anni e leggeva a tutti le sue poesie. Talvolta era in preda a crisi dissociative.

Mi ricordo ancora gli ultimi dell’anno passati assieme a casa di Chiara e Luca a suonare la chitarra e a cantare le canzoni dei cantautori. Mi ricordo che mangiavamo sempre le lenticchie, bevevamo vino e aspettavamo l’alba. Ci tiravamo anche la farina addosso. Dormivamo in quindici in quella casa. Alcuni portavano i sacchi a pelo. La padrona dell’appartamento lo permetteva e trattava Chiara e Luca con bonaria indulgenza. Mi ricordo anche che c’era Federico. Prendeva tutti trenta agli esami e conquistava molte ragazze. Lui era di qualche anno più grande di noi. Era stato qualche anno nei carabinieri. Ho saputo da Luca che è morto a quaranta anni di un tumore. Era diventato uno stimato psicoterapeuta. In quella occasione ho fatto il telegramma alla famiglia, che risiedeva a Brescia. Ho saputo anche che Chiara e Luca si sono lasciati dopo dieci anni che stavano assieme.

Ma è inutile che scriva qualcosa sui miei amici: forse si offenderebbero o non si ritroverebbero più in quelle storie. D’altronde le amicizie della giovinezza non ti segnano profondamente come quelle dell’infanzia. E poi perché rappresentare quel mondo di studenti fuori sede, visto e considerato che eravamo dei privilegiati? Certo dovevamo subire le angherie di alcuni professori. Certo eravamo sfruttati da degli affittacamere spilorci. Ma rispetto a molti giovani di allora eravamo pur sempre dei privilegiati. E poi a chi interessano più gli anni Novanta? Sono  stati un periodo di benessere rispetto a questi tempi attuali segnati da una grave crisi economica.

Allora tornavamo a casa una volta ogni due settimane circa. Ogni viaggio in treno era sempre un’avventura. Ma ora cosa mi è rimasto di quei paesaggi visti dal finestrini? Cosa mi è rimasto di quelle discussioni intavolate con gli amici al bar? Cosa è rimasto di quei destini intrecciatisi casualmente? Eppure qualche volta quei visi, quelle storie, quei giorni ritornano ad affollare la mente.  Mi ritornano alla mente il relativismo e l’esistenzialismo dei miei amici. Eravamo tutti irrazionalisti: non credevamo a nessun edificio sistematico della ragione. Spesso mi ritorna alla mente quella polifonia di voci. Comunque nessuna nostalgia: credo nell’eterno ritorno di Nietzsche. Ho letto “la dottrina dei cicli” di Borges: il numero di atomi del mondo è finito: le permutazioni degli atomi sono finite. Nessun “carpe diem” di Orazio. Gli istanti non fuggono via. Niente è perduto per sempre. Non esiste il momento opportuno da catturare al volo. Ci ritroveremo di nuovo a vivere quell’epoca. Il tempo non è lineare: è ciclico.