Posted on  Nuccio Lodato Appunti alessandrini

Nel centenario della nascita del grande scrittore

Che fa il nesci, eccellenza? O non l’ha letto?

                                     Giuseppe Giusti, Sant’Ambrogio

                                       <Te lo ricordi Aldo? Lo sai che è morto? E Tacconi, te lo

                                        ricordi? E’ morto anche lui>

                                        Luciano Bianciardi, Ritorno a Kansas City (Il lavoro culturale)

Ci sono piccole circostanze inattese nelle quali la vita ti lascia letteralmente di sasso. Al telefono, un caro amico milanese, Giorgio Politi, del quale dirò più avanti, e che ho avuto il piacere di ritrovare alla grande negli anni più recenti (ma ci conosciamo da sessanta giusti!), mi paralizza all’istante recitandomi a memoria questo doppio distico, completamente dimenticato da me che pure ne ero stato in quella remota epoca, dedicandoglielo, l’autore:

                Ancora grato della forte

                apertura su Leopardi  

                -che, per grazia della sorte

                non è giunta troppo tardi-

                Io ti offro (che fortuna,

                non gettarla certo ai cardi!)

                la suprema voluttà:

                deliziarti con Bianciardi.

Ne ricostruisco le circostanze, cominciando dalla fatale coincidenza a sorpresa che ispirarono i versi citati (evidentemente immortali, a dispetto della loro autoconclamantesi mediocrità, a mia insaputa…).

<Perché le interessa? Perché lo compra?>. Le parole, con spiccato accento toscano, mi risuonano inattese alle spalle mentre, alla non più purtroppo esistente libreria “Il Convegno” di Rapallo, sto pagando una copia UE Feltrinelli del da poco ripubblicatovi Lavoro culturale di Luciano Bianciardi.

Vacanze pasquali 1965: a scadenza ravvicinata la maturità. Alcuni giorni con la famiglia nella “seconda casa” ligure in quegli anni presso che inevitabile.  A esame archiviato, complice la quiescenza paterna, con l’estate ci saremmo definitivamente trasferiti, dalla natìa Voghera (cui Alberto Arbasino, Valentino Garavani e Giuseppe Turani avevano già voltato le spalle a vantaggio di Roma) all’ex-“perla del Tigullio” che l’ineffabile sindaco dc Turpini stava finendo di “rapallizzare” a tutta forza: fatale ultima meta di tanti pensionati lombardi. Intendiamoci: la Rapallo di allora non era ancora quella desertizzata, in desolante svendita immobiliare diffusa, di oggi. Così come non era più, e da parecchio tempo, purtroppo, quella evocata dal dottor Giuseppe Bacigalupo nel suo bellissimo Rapallo di ieri (Campanotto editore). Veniva morendo: ma assai dolcemente, come l’anno nel più celebre attacco di romanzo dannunziano, certo. Era infatti ancora possibile scorgervi quotidianamente, senza che la cosa impressionasse, Ezra Pound che sostava la mattina, silenzioso, con Olga Rudge al caffè Centrale sulla piazza. O Lillian Gish che dal Bristol di Zoagli andava a visitare la sorella Dorothy, ricoverata alla clinica diretta proprio dal loro medico di fiducia, appunto il dottor Bacigalupo. O Soraya Esfandiari che usciva incredibilmente impeccabile, novella Venere botticelliana in olimpionico blu, dalle acque antistanti il Kursaal dell’Excelsior, al termine della quotidiana lezione alla scuola di sci nautico di Gigi Figoli (l’”ex-imperatrice” riempiva ancora a tutto spiano le pagine dei rotocalchi: spettri degli ayatollah ben di là da venire…) provocando un immancabile capannello anticipato giornaliero di curiosi ambosessi in attesa del magico evento. O più modestamente Novella Parigini che, incurante delle proprie portentose dimensioni, divorava a qualunque ora prodotti di corrispondente portata ai tavolini di una frequentatissima gelateria (adiacente alla libreria della quale si dirà tra qualche riga) portando bene o male anche sul Tigullio un qualche refolo velleitario quanto nostalgico dell’allora ancora recente e infinitamente celebrata e discussa Dolce vita felliniana.

Feltrinelli aveva ripresentato il libro in economica pochi mesi prima, dopo la prima edizione 1957: azzeccatissima -quasi premonitrice- la copertina, una sigaretta consumantesi su di un portacenere stracolmo. Aspiravo già, confusamente, a quel volontariato di “animazione cinematografica” che mi avrebbe monopolizzato anche troppo la vita: acquisto e lettura immediata dell’impagabile libretto, gustato immensamente per argomento, tono e struttura. Quello del “Convegno” era un riacquisto per dono. Destinatario proprio il caro amico e coetaneo milanese, l’intesa col quale era nata nelle precedenti estati sul Tigullio: quel Giorgio Politi oggi emerito di Ca’ Foscari e considerato tra i maggiori storici dell’età moderna in Italia. Condividevamo allora una visione adolescenziale piuttosto sarcastica e disincantata del mondo della cultura. Il lavoro culturale, con la fatidica aggiunta, nella nuova edizione, del Ritorno a Kansas City, oltre a piacermi, mi era sembrato così affine al clima vivacemente beffardo intercorrente fra noi, che avevo deciso, immaginandolo a sua volta convergente con la famiglia per la settimana pasquale nella località che aveva propiziato la reciproca conoscenza, di fargliene omaggio a sorpresa. Gli sarebbe toccato invece il ruolo di propiziatore inconsapevole dell’incontro con la misteriosa voce alle spalle: la qual cosa gli avrebbe ovviamente fatto strameritare i versi dedicatori inflitti all’inizio a chi si sia avventurato in questa lettura. Certo, ripensandoci oggi, i nostri anni liceali furono in incantamento, come sembrava del resto dischiudersi il futuro generale in quell’Italia 1960-65 che oggi parrebbe non essere mai esistita. La conoscenza dell’amico mi aveva dischiuso il contatto con un gruppo di coetanei milanesi -tutti frequentanti come lui il liceo “Carducci” di via Beroldo e raccolti attorno alla redazione del corrispondente foglio studentesco “Mr. Giosuè”…- che erano giunti a costituire un circolo poetico la cui forza consentiva loro di pubblicarsi vicendevolmente a stampa i rispettivi versi in un’apposita, elegante collana di libretti. A me, ragazzo di provincia che prendeva ogni volta quasi sotto ipnosi il treno per Milano, quei sessanta chilometri pari a un’ora di viaggio dischiudevano un mondo reale da favola: oltre a quegli amici c’erano le librerie, il Piccolo degli anni del Galileo e del Gioco dei potenti di Strehler, ma anche San Siro coi primi derbies visti dal vivo nella contrapposizione Herrera-Rocco, con i portieri Buffon (zio…) e Ghezzi incredibilmente scambiatisi di maglia, e Rivera imperante nell’allora amato rossonero pre-berlusconiano, al fianco di Altafini e Sani. I componenti quel gruppo, non era difficile prevederlo, sarebbero diventati tutti qualcuno: nell’università, nel giornalismo, nella politica, nella scrittura. Non ne citerò i nomi, peraltro tutti noti: dirò solo che uno di loro, che personalmente trovava parecchio simpatico e comunicativo, è tuttora il massimo storico mondiale del cinema d’animazione.

Politi, in particolare, che nel giro di pochi anni si era inventato prima fotografo di strabiliante abilità, poi fisarmonicista-compositore di canzoni politiche che ancora mi risuonano nelle orecchie e che mi duole non siano -temo…- ascoltabili in registrazioni, si era preparato, in vista dell’imminente maturità, una… “tesina”  di una sessantina e spingi di fittissime pagine dattiloscritte, che mi duole aver perso in copia, ma che oggi avrebbe potuto benissimo essere proposta con successo quale tesi di laurea triennale. Se non addirittura… magistrale, come oggettivamente il testo era: al punto da avergli valso l’omaggio bianciardante, accompagnato in un bigliettino dagli immortali versi eternati in apertura. Avevamo addirittura pianificato, trascinati dall’impeto iper-laico del Recanatese, una “Rivista di studi antimanzoniani” -il cielo ci perdoni…- che per fortuna non conobbe mai neppure il numero zero di prammatica. E ci eravamo divertiti progettando un’Iliade filmata con oggetti animati: ma l’idea iniziale di far impersonare Calcante da un calzascarpe -l’indovino Calzante…- ci era parsa talmente geniale da congelare, nell’autoammirazione sinceramente, temo, a tutt’oggi perdurante, l’intero progetto, che non avrebbe mai potuto reggere all’inarrivabilità di quell’esordio. Avremmo però, in compenso, deciso di smettere proprio in quegli anni di scrivere ed infliggerci reciprocamente le rispettive poesie, che ripensate oggi non dovevano essere poi così malaccio, inventandoci una pseudo-citazione crociana che, a più di mezzo secolo di distanza, condividiamo ancora toto corde e ci divertiamo a ripeterci: <Dopo i diciotto anni continuano a scrivere poesie solo due categorie di persone: i poeti e i cretini>. Non avendo mai avuto la presunzione di autoannoverarci nel primo gruppo, scampato pericolo!).   

Torno dunque all’inizio, nell’allora nuova e bellissima libreria bilateralmente spalancata verso il golfo e verso i “carugi” alla sommità del lungomare, quasi di fronte all’”antico castello” che avrebbe dovuto difendere a suo tempo gli indigeni dalle incursioni piratesche ottomane. La gestiva una signora anglosassone, un po’ legnosa ma affascinante, Judith Rice, con il marito Roberto Canale. Li aiutava un’altra giovane signora italiana, molto discreta, elegante e minuta, la cui bellezza semplicemente incantava.

Mentre il titolo richiesto mi viene sollecitamente messo in mano proprio da quest’ultima, mi volto per rispondere alla domanda del misterioso interrogante alle mie spalle. A tre anni dal successo deflagrante de La vita agra, il suo autore aveva raggiunto una notorietà -anche visiva e “mediatica”: allora per fortuna non lo si diceva, chissà come commenterebbe oggi questo termine da redivivo!- da renderlo immediatamente riconoscibile anche a un ragazzino pasticciante-infarinato di cose letterarie.

Troppo emozionato per il mai sospettato “incontro con l’autore”, balbetto qualcosa della spiegazione sopra esposta, e incasso molto di buon grado la firma della copia, ma soprattutto la proposta incredibile di una passeggiata a due sul prospiciente lungomare. Mai più immaginando che da lì a pochi mesi sarebbe divenuto il teatro di una ricorrente consuetudine interpersonale che avrebbe accompagnato per intero il mio quadriennio di Lettere, dalla matricola alla laurea.

L’interesse dello scrittore affermato per il suo giovane lettore è schietto, autentico: lo capisco dalla natura e dalla qualità delle domande sugli studi svolti, i professori (certo, niente a che vedere con Milano e il “Carducci”: il piccolo ma qualificato liceo classico vogherese annoverava però in quegli anni a sua volta nomi nazionali: lo storico Alfassio-Grimaldi, il filosofo Brunetti, lo storico dell’arte Magugliani; non fatico a fare bella figura), i progetti e le aspirazioni. Intervallati da squarci di memoria sulla Normale pisana e la durezza dello studiare negli anni bellici, come dai reiterati tocchi di classe di estemporanee riflessioni sugli autori classici in programma alla maturità imminente.

Dall’estate, a prova scavalcata, con mia compiaciuta sorpresa, quel fulmineo contatto inatteso non sarebbe rimasto l’episodio isolato che avevo invece logicamente previsto. Al primo incontro casuale nell’autunno successivo, ritrovandomi immediatamente riconosciuto da Bianciardi, a mesi di distanza da quel fortuito incrociarsi in libreria, con lieto stupore, avremmo addirittura compreso di abitare nello stesso quartiere, Sant’Anna, adiacente al grande campo da golf: all’inizio del suo dispiegarsi la mia famiglia ed io, alla fine lui con Maria Jatosti (perché altri non era, l’avrei appreso presto, la bellissima signora della libreria) e il loro figlio Marcellino.

Compatibilmente con la mia frequenza quotidiana dell’ateneo genovese, e la sua ben più severa -tante volte irresistibilmente descritta…- fatica diuturna di scrittura in proprio ma soprattutto di traduzione, finirono a poco a poco per isolarsi tacitamente giorni e ore nelle quali era facile incontrarsi per strada senza specifici appuntamenti, percorrendo l’intero tratto che portava da quell’immediato entroterra, attraverso la trafficatissima -ma non ancora soffocata dall’autostrada…- duplice forcella via della Libertà-via Mameli, fino al lungomare del primo incontro. Non ero però, ovviamente, l’oggetto esclusivo dell’attenzione dello scrittore, che anzi sembrava più nativo del luogo degli stessi indigeni, tanta era già la sua consuetudine confidenziale, per le vie, con bottegai delle porte dei negozi, baristi dei non rari (anzi…) aperitivi, o passanti casuali per molteplici versi trascorsi a lui già noti. Tanto incline alla disponibilità, quanto si sarebbe sempre mostrato sordo all’ufficialità: nessun ascolto alle sirene degli enti locali, agli innumerevoli tentativi di coinvolgimenti ufficiali nelle innumerevoli manifestazioni rivierasche, ai molti e interessati espedienti tesi a stanarlo per fregiarsi della sua presenza. <Fa il pesce in barile> era il commento che riservava ai colleghi inclini a cedere a tali lusinghe di integrazione. I rapporti restavano ufficiosi e solo privati, interpersonali: ad esempio quello col giornalista locale all’epoca più rappresentativo, Mario Bitonte.

Nei mesi intercorsi tra la sorpresa alla libreria e il riapprodo definitivo nel Tigullio, mi ero portato da parte mia coscienziosamente “avanti col lavoro” recuperando la lettura dell’Integrazione (rilanciato da Bompiani dopo il boom della Vita agra) e soprattutto de La battaglia soda, uscito appena l’anno precedente, col quale Bianciardi aveva confermato l’opzione Rizzoli che tanta fortuna aveva avuto con l’immediatamente precedente capolavoro.

Proprio da questo romanzo tornarono a decollare le nostre conversazioni, ed era un piacere ascoltarlo re-immedesimarsi, come nel testo del romanzo dal titolo machiavelliano, in Giuseppe Bandi, parlando in prima persona come se fosse lui, sulla necessità assoluta, ad esempio, di far alimentare la truppa prima dello scontro, sostenuta con l’immediatezza concreta che dava l’illusione di trovarsi proprio lì, sul campo dell’imminente battaglia. E devo proprio a lui, come tanti –ma col privilegio dell’ascolto diretto unito alla lettura…- l’amore e la condivisione del fascino esercitato dal miracolo incredibile dei Mille e dell’oggettivamente assurda epopea garibaldina, che Bianciardi avrebbe ulteriormente propiziato poi con Dàghela avanti un passo e col lavoro di produzione del materiale sull’argomento e addirittura di un’antologia a uso delle scuole (il cui scarso interesse per il tema lamentava). Non fu insomma il Craxi collezionista il vero antesignano delle camicie rosse…

Potrei farla ancora più lunga e dettagliata: non è il caso. Mi limiterò a qualche scheggia di conversazione rimastami più impressa. Sentendomi anche vincolato da una doverosa discrezione a posteriori, per cui continuerò a tenere per me alcuni suoi giudizi su colleghi scrittori, non particolarmente lusinghieri ma sempre inattaccabili nel merito. Irresistibile però mi resta in particolare il modo sarcastico in cui delineava la figura di un narratore (poi anche, ahinoi, regista in proprio…) all’epoca nettamente sulla cresta dell’onda, come lui, anche quanto a tirature. Durante una spedizione di rappresentanza rizzoliana a New York del comune editore (per l’inaugurazione di quella proverbiale libreria? non ricordo) in cui li aveva contrapposti l’interessata corte pressante cui avevano sottoposto entrambi, ma con differente esito, “la vampira Barbara Steele” (parole sue: il fatto che il cognome del collega-rivale potesse essere facilmente tradotto alla lettera in inglese con perfetta equivalenza linguistica potenziava la bianciardata!). Parlando sul serio, non aveva esitazioni naturalmente su chi fosse il collega italografo più grande del secolo: <Gadda, non c’è dubbio>, all’epoca ancora vivente. Né tanto meno sul maggiore anglografo: <Il mio amico Enrico Molinari di New York: qui da noi il suo traduttore sono io che mi chiamo Bianchi…Luciano Bianchi!>. Le sue traduzioni dei Tropici di Henry Miller, per i quali ancora all’epoca Feltrinelli doveva battersi contro la censura a suon di espedienti, sono oggi un magistrale, smagliante classico del miglior erotismo mondiale.

Grande lezione di una mattina, seduti su di una panchina del solito lungomare (a proposito della distinzione tra maggiorenni poeti e no…). Si avvicina trepida una mia coetanea graziosa assai, e gli porge timidamente un quaderno, mentre la osserva perplesso: <Posso lasciarle i miei racconti, con comodo, per un suo giudizio?>. Non le dice né sì né no, ma si mette in tasca il quaderno salutandola quasi con un grugnito di congedo. La poverina sparisce presso che camminando all’indietro, come il protocollo imponeva allora e adesso al cospetto delle maestà regnanti… Io che stavo invidiandola, perché da tempo progettavo, senza averlo ancora osato, di fare altrettanto col mio immancabile quadernino di poesie e racconti, in un batter d’occhio mi ritrovo a rallegrarmi in silenzio di non esserci riuscito: <Si ricordi bene, Lodato: non si dà mai a nessuno il manoscritto per un giudizio! E’ come per i prestiti di denaro: si rovinano solo le amicizie…>. Un momento di dolore autentico da lui provato: stiamo passeggiando lungo via Marsala, proprio sotto il palazzo in cui abitò appunto Pound negli anni Trenta rapallesi, quando il giornale radio del transistor gli porta la notizia della tragica e assurda scomparsa improvvisa di Delio Cantimori, caduto dalla scala della sua biblioteca. Dalle accorate parole ancora sugli anni della Normale di getto capisco fino in fondo quanto sia decisivo un Maestro, quale per lui era stato il grande storico normalista (era il 13 settembre 1966). Di tutt’altro segno e tono i ricordi riferiti alla vicinanza rapida e problematica milanese e feltrinelliana con Guido Aristarco e <Cinema Nuovo>, peraltro immortalati… immortalmente introducendo la figura del “dottor Fernaspe” ne La vita agra. Indimenticabile l’istantanea, autentica o inventata che sia, di una solitaria domenica pomeriggio, col fratello del direttore affacciato al balcone della sede in via Valvassori Peroni della rivista, nella quale si era trovato inopinatamente rinchiuso senza possibilità di uscita, rivolto ai rari passanti: <Aiuto, aiuto! Sono il fratello del dottor Aristarco! Sono rimasto imprigionato nella redazione del quindicinale di cultura “Cinema Nuovo”… Aiutatemi!>. Un Everest di cordialità, l’ho già ricordato, con la gente vera del luogo. Ci eravamo affezionati molto entrambi a un operaio -rara avis già in sé, da quelle parti, in una cittadina in cui la DC raccattava il 75% e comunisti e socialisti si contavano sulle dita della mano di un mutilato…- Enrico Piccardo, che avrebbe anni dopo trovato a sua volta una tragica fine in un infortunio sul lavoro. Ci accomunava a lui anche l’interesse utopistico per <il manifesto> mensile, che cominciava a uscire proprio allora, con la clamorosa radiazione di Rossanda, Pintor, Castellina, Magri, Caprara e Milani dal PCI. Il fatto che potesse essere concepito un comunismo non solo inasservito all’URSS, ma addirittura ad essa radicalmente contrapponibile ci appariva, nell’ingenuità calorosa di quegli anni, non ancora raffreddata irreversibilmente da piazza Fontana, talmente ovvia e felice da essere davvero attingibile.

Talvolta ti folgorava con una battuta meritevole di essere incisa: <Io non gliene parlo mai, a mi’ figlio, del “problema dei giovani”: che poi magari gli viene davvero…>. O quando se rivolgeva con tenerezza alla nonna materna di Massimo Bacigalupo, figlio di tanto medico-memorialista e imminente star dell’anglo-americanistica mondiale, con la sua impeccabile parlata antica da toscana d’origine ma rientrata in Italia da anziana dopo una lunghissima permanenza matrimoniale a Pittsburgh: <Signora mia, ma lei l’è un lessico della Crusca vivente!>. Non sono mai riuscito a trascinarlo alle proiezioni settimanali che organizzavo col Circolo Universitario nella sala consiliare del Comune i cui banconi e scranni avevano ascoltato i “Concerti tigulliani” di Pound negli anni Trenta: ma quando nel ’67 il congresso nazionale della Federazione Circoli del Cinema mi condusse nella sua Grosseto, al ritorno fu prodigo di domande circostanziate sulla città e l’impressione che mi aveva fatto (insistendo in particolare, divertito, sul cognome di un dentista che era lo stesso di uno tra i massimi filosofi e studiosi di estetica del ventesimo secolo: il dottor … Lukàcs: sempre dalle parti di Aristarco-Fernaspe in definitiva eravamo!).

Era facile vederlo a passeggio per la cittadina con Maria e Marcello, allora in età fra elementari e medie (avrei letto con interesse, anni e anni dopo, la prima biografia pionieristica di Pino Corrias e le successive; con una certa angoscia la prima edizione ’77 Editori Riuniti del Tutto d’un fiato di Maria: più serenamente la seconda con Stampa Alternativa una decina di anni fa). Ma anche casa Bianciardi a Sant’Anna (poi immortala nella cornice della Rapallo“Nesci” di Aprire il fuoco) si faceva accogliente per gli amici. Ne ha fornito una magnifica descrizione il fotografo Massimiliano Tursi nella sua splendida avventura-ricognizione dei luoghi della vita dello scrittore: <Il posto che mi ha emozionato di più, forse perché quello più vissuto da Bianciardi, è stato l’appartamento di Rapallo, con il terrazzo grande come la prua di una nave, e poi la stanza pentagonale da cui guardava il gabellino> (ma si torni alla lettura del suo racconto La casa al mare). C’era, lì, un appuntamento settimanale cui non si poteva mancare, nella seconda metà de pomeriggio domenicale, quando ci si doveva assolutamente ritrovarvisi per vedere tutti insieme, in religioso silenzio interrompibile solo da libere risate, Quelli della domenica, con l’attesa quasi spasmodica del comparire, scendendo le vertiginose scale tra il pubblico da lui offeso e minacciato, del “professor Kranz tetesco di Cermania” di Paolo Villaggio, o degli incredibili duetti di debutto, da loro stessi purtroppo poi mai più eguagliati, di Cochi e Renato. Abitudine certo favorita dall’esserne autori i suoi amici Vaime, Marchesi e Terzoli, ma ignorando tutti che il regista -di origine alessandrina- Romolo Siena avesse residenza stabile a pochi chilomentri da lì… A fine trasmissione, i presenti venivano ringraziati e congedati con una sonata al violoncello: una prosperosa signora toscana lì residente, in trepida e prudente attesa di separazione in un paese ancora senza divorzio (altro chiodo doloroso per lo stesso Bianciardi…) era forse l’autentica destinataria e il reale oggetto di dissimulata attenzione privilegiata di quegli incredibili pomeriggi. Ma l’estremamente vivido, al limite dell’incontenibile, interesse di Bianciardi per il mondo femminile e la sessualità, non sempre convenzionale né ortodossa, si estrinsecava in più passaggi di quelle quasi quotidiane conversazioni aperte e all’aperto. Qui il traduttore milleriano si rivelava perfettamente ben scelto dal suo pur iperproblematico editore, e grandeggiava anche la coerenza del magistrale critico tv di “ABC”, la rivista di Baldacci e Saba allora in odore di semipernografia (oggi sbadiglierebbero le novizie di un convento se avessero da sfogliarla…). Era ovviamente un’altra Italia, insieme più semplice e più repressa di quella di ieri e di oggi: non aveva ancora conosciuto il femminismo, il politicamente corretto, il me-too, la cancel culture, le fake news e via aggravando: ma si rilegga a mente serena La solita zuppa. Così scorreva la vita esterna nella “Nesci” fissata in Aprire il fuoco… D’altra parte Bianciardi s’era trovato bene nel mondo del cinema attratto dalla sua opera: dell’esperienza del ’64 per La vita agra era emerso in amicizia con Lizzani e Tognazzi che l’aveva impersonato, ed entusiasta di Giovanna Ralli che aveva dato adeguatamente corpo -e che corpo…- alla figura di Maria. Nel successivo Il merlo maschio avrebbe avuto anche la soddisfazione di comparirvi violoncellista in prima persona, legando col collega regista-scrittore Festa Campanile, e giustamente infervorato, da musicista, per il ben più inimitabile violon d’Ingres della “divina creatura” Laura Antonelli.

Il rituale delle ricorrenze ha accomunato in questo ’22 il centenario di Bianciardi a quello di Pasolini. Difficile forse considerare personalità fra di loro opposte come quelle di due simili pilastri del nostro secondo Novecento: ma almeno una cosa li ha accomunati, oltre alla -diversamente espressa e vissuta- pervicace volontà di non-riconciliazione permanente. L’ha fissata una volta per tutte il grande amico della vita e altrettanto grande fotografo Mario Dondero, utilizzando poche parole perfette anche per Pasolini: <Ha saputo vedere con grande anticipo come sarebbe diventata l’Italia>. E’ tornato sul tema Mauro Garofalo (“La Stampa”, 26 febbraio 2019): <Lui, Pasolini, Olmi e pochi altri hanno affrontato il grande vuoto che a metà Novecento spaccò l’Italia in due: Roma capitale e le province rurali, i monti e i boschi, e il cemento armato mascherato da civiltà>. Un grazie di cuore alla figlia Luciana la cui tenacia ha consentito, prima coi due volumi dell’”Antimeridiano”, poi con Il cattivo profeta del Saggiatore, di tornare a disporre della sua opera omnia. <Perché leggere di nuovo oggi Luciano Bianciardi?> si è chiesta Simonetta Fiori recensendo quest’ultima uscita (“la Repubblica”, 9 settembre 2018): <Il primo motivo è che i capolavori come La vita agra Il lavoro culturale hanno finito per oscurare migliaia di pagine che vale la pena recuperare. […]. Il secondo è legato al precedente: pur incarnando la figura dell’intellettuale non integrato o disintegrato, Bianciardi non ne hai mai fatto una professione>.

14 novembre 1971. Una qualsiasi, noiosa domenica uguale a tante altre del “servizio di leva” per il solitario scritturale di turno festivo presso il comando del Gruppo Artiglieria da Montagna “Susa” della “Taurinense”, all’epoca di stanza nell’omonima cittadina del Piemonte alpino. Telefono d’ufficio, come sempre, silenzioso; monotona attesa dell’ora di pranzo, per scendere a mensa e scambiare almeno due parole davanti al vassoio con qualche commilitone. Distratto ascolto inganna-tempo del giornale radio. Fulminea quanto inattesa la notizia. Il gelo. Il silenzio. L’incredulità. Nessuno lì con cui parlarne e condividere il colpo al cuore, come aveva potuto fare Bianciardi proprio con me cinque anni prima il giorno di Cantimori. La chiamata di leva mi aveva impedito di registrarne l’abbandono di “Nesci” e il rientro solitario a Milano. Passato più di mezzo secolo: è la prima volta che riesco a parlarne.