Alessandria: Editoriale ● Agostino Pietrasanta

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Forse mi ripeto, ma si tratta di un’ovvia quanto convinta opinione: nulla nasce come Venere dal capo di Giove. Nulla capita per caso e, nella Chiesa, fatte salve le scontate dichiarazioni ufficiali, persiste e si ripete in diversi e svariati episodi una profonda lacerazione dottrinale e di intervento pastorale. Le poche considerazioni che farò seguire, in parte già oggetto di precedenti interventi, mi vengono suggerite da un’intervista del periodo agostano, rilasciata da papa Francesco. Facendo cenno a una sua abdicazione, per ora categoricamente esclusa, propone per qualunque futuro emerito, il titolo di “vescovo emerito di Roma”. Non entro nello specifico perché, del tutto ignorante di questioni teologiche, potrei rischiare parecchio. Dico solo che si tratta di un primo cenno di opportuna e doverosa normazione di uno stato e di una condizione dei futuri pontefici che potrebbe ripetersi. 

Venuta meno una concezione sacrale del papato, legata a un regime di cristianità, per altro già superata dal Concilio nonostante i successivi tentativi di restaurazione, la Chiesa dovrà affrontare le prospettive e le conseguenze in una normazione di vari e diversi aspetti dei canoni in merito. Resta inteso che oggi diventa molto difficile procedere, in rispetto delle decisioni di Benedetto XVI cui, in ogni caso spetta il merito di avere introdotto una svolta di rottura nella continuità storica della vita della Chiesa. Tuttavia proprio le innegabili lacerazioni presenti nel tessuto ecclesiastico dimostrano l’urgenza di opportuni interventi. Nonostante l’evidente volontà di Benedetto e di Francesco di conciliare le “emergenze” (fino a una stabilizzata normazione le definirei tali) di una difficile compresenza, resta sotto la constatazione di tutti che le varie “cordate” (così le chiamo per rispetto) si avvalgono surrettiziamente della personalità straordinaria del pontefice dimissionario per mettere in difficoltà il pontefice legittimo; e lasciamo perdere la “blasfema” e dichiarata opinione di chi mette in dubbio o nega espressamente la succitata legittimità.

Bastino pochi richiami di fatti ben noti. Si presenta un libro su questioni teologiche non gradito a Benedetto e il responsabile del dicastero competente deve, su pressioni di varia e complessa provenienza, dimettersi dall’incarico con grave disagio del papa. Si dibatte la questione del sacerdozio ordinato a uomini sposati, soprattutto in condizioni di constatata urgenza e le manovre degli zelanti provano a contrapporre le opinioni dell’emerito con quelle del pontefice in carica. Si tratta di passati comportamenti di prelati responsabili delle finanze e delle risorse della Chiesa o della fuga di notizie riservate; si pongono alcune scottanti condizioni per i Sacramenti ai divorziati (elenco che potrebbe allungarsi) e le beghe curialesche si mettono in moto per contrapporre i due succitati comportamenti. Tutto serve a ingarbugliare una matassa che dovrebbe invece costituire oggetto di comune e convergente preoccupazione pastorale. Non parliamo poi dei casi (questione Biden insegni) in cui l’autorità civile, in conseguenza di legittimi percorsi, non può sottoscrivere comportamenti giustamente sostenuti sul piano dei principi, come tali non certo negoziabili.

Eppure tutto questo ha delle premesse di qualche significativo periodo e da condizioni di confronto che nella Chiesa si sono realizzate nella ricezione del Concilio. Ovviamente tutto questo evita di cadere nel pettegolezzo delle beghe curialesche, degli stili di vita opulenta (eufemismo) di troppi prelati che creano oggi e hanno creato ieri imbarazzi e difficoltà agli interventi del magistero superiore, sia pure di carattere diverso e talora persino, al confronto, dialettico, ma sempre fondato su carismi innegabili (i metodi di Giovanni Paolo II non sono evidentemente analoghi a quelli di Francesco).

Tutto però avviene in un contesto di ben più avvertiti processi dottrinali e pastorali. Dopo il Concilio, nella Chiesa italiana si sono espresse due metodologie di percorsi e di testimonianza. In un primo momento ha prevalso l’attenzione ai segni dei tempi, raccomandata da papa Giovanni soprattutto ma non solo nella “Pacem in Terris”. Come dire che si è scelta la metodologia del discernimento per cui la storia veniva vista come luogo della salvezza nel rispetto dei suoi caratteri anche profani e, di conseguenza si ripudiava (il verbo non sembri eccessivo) il regime di cristianità. La scelta religiosa proposta dall’Azione Cattolica Italiana costituiva uno dei precipitati storici di tale opzione e fu interpretata da vari episcopati, non solo dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana). Parallelamente si faceva strada la critica, con espressa dichiarazione, del movimentismo che giudicava rinunciataria la via di un discernimento poco adeguato a una presenza e a una proposta cristiana di sostanziale conquista organica della società. Sembrerebbe (il condizionale è voluto) inutile aggiungere che dopo Paolo VI in sostanza convinto della validità del discernimento nonostante qualche riserva sulle metodologie, Giovanni Paolo II si entusiasmò alla presenza compatta di movimenti che apparvero riproporre la centralità del Cristianesimo nella organica ricostruzione di un tessuto sociale sfilacciato anche sul piano politico. Il fatto è che un parte dei sostenitori della strada presenzialista non disdegnarono un ritorno a un regime di cristianità per il quale non si poteva rinunciare allo strumento del potere. Ora sappiamo che tale ritorno degenerò  per alcuni protagonisti (non per tutti) in una fase di caduta anche sul versante penale. Il tessuto sociale non fu cristianizzato, corroso dalle categorie del relativismo e dalla prassi di un consumismo indifferente agli ideali di varia opzione, ma da cosa nasce cosa. Così si ritornò, con l’età ruiniana (Camillo Ruini) a una surrettizia presenza diretta e non indiretta  (potestas directa in temporalibus) nelle scelte politiche: la scelta religiosa rivoltata come un guanto. Contemporaneamente le chiese si svuotavano. Ora le due posizioni tra loro incompatibili hanno creato una frattura che nei suoi caratteri di scontro non hanno più alcuna forza propositiva originaria, ma precipitano o favoriscono lo scontro tirando per la sottana ogni responsabilità della Chiesa dalla propria parte. E i due protagonisti di oggi, il papa emerito e quello legittimo non possono sfuggire alla storia che si trovano a vivere e, per certi aspetti, a subire.

Personalmente ho sempre sostenuto che solo con un Concilio si esce dalle secche che stiamo vivendo, ma forse un Sinodo che coinvolge anche il popolo cristiano, e magari anche chi ha fedi diverse o non ne condivide alcuna, potrebbe risultare anche più fecondo. Purché si entri in rapporto coi vari settori di una società scristianizzata: se ascoltiamo solo il 5% che frequenta e non gli altri 95% faremo cose inutili: rimasticheremmo la vita dei morti!