FORESI DELLO PSEUDOSCORPIONE

 · di Rebecca Lena · in arteRacconti. ·

Un frinìo d’ali impigliate, ogni sera, rimbalzano da una parete all’altra fino a trovare un cantuccio lanoso che li catturi. Mi ronza vicino proprio adesso, un corpicino sconosciuto, vibrante di polvere notturna e il suo soffio sussurra all’orecchio una vertigine inquieta. 

Dall’altro lato della stanza un altro microspasmo mi giunge lieve: la masticazione lentissima di alcuni pidocchi della carta che si affaccendano fra le pagine dei vecchi libri. Se aprissi adesso, una pagina casuale del libro di Bernardo Soares, vedrei la sua punteggiatura esplodere, virgole e punti impazziti sulla superficie del foglio come a scombinare il tempo di lettura. Li offenderei un po’ per via della loro minutezza, e loro mi risponderebbero, gridando in coro, con le fauci grondanti d’oceano e di vuoto, che la loro dimensione non ha confine con l’altezza del corpo ma con ciò che vedono adesso, aperta la pagina, col buio sconfinato di questa stanza. E se aprissi la finestra anche col buio sconfinato del cosmo. Così il buon Bernardo ha insegnato loro.

Riponendo poi quel libro forse urterei una scocca rugosa: il frutto di un’altra masticazione ancestrale, quella della vespa vasaia che oggi ha attraversato le mie tende innumerevoli volte. Il piccolo nido di terra giace su di una costola, come una bara di ingegno e saliva nella quale ha riposto con cura un uovo, e insieme a lui un essere vivo ma immobile – un ragno paralizzato dal veleno della vespa, catturato e ficcato dentro – a sigillarne l’apertura. Giace adesso, quel ragno saltatore, in attesa di qualcosa. Trattengo il respiro, forse potrei percepire il suo palpito di terrore e bramosia per quell’uovo così vicino che quasi potrebbe assaggiare, se davvero potesse muoversi, ma che invece, una volta schiuso, si nutrirà di lui. Associazioni improvvise mi suggeriscono che la cella somiglia un po’ alla vita stessa, la larva è il corpo, il ragno la coscienza che ne sarà nutrimento. Lui che la osserva evolversi, la brama, poi scompare, risucchiato in tutto e per tutto dalle sue fauci. Una volta formata, la vespa – sintesi superiore di corpo e spirito – fuggirà altrove, abbandonando la cella vuota del mondo.

Ora potrei sbirciare sopra l’armadio, approfittando del volo di una falena a cui mi aggrapperei con le mie piccole chele tenaci. Là sopra dev’essere un cimitero di addomi logorati, ali sparse, grumi di antenne. Forse incontrerei gli occhi del ragno violino feroce, essere imperituro, in attesa eterna. Divino e timoroso. Porterei lui un sacrificio per placare la sua fame. 

La falena esita, non vuole posarsi vicino ai resti di altri, vira e riprende il volo al centro della stanza. Gli occhi del violino li immagino soltanto, ci allontaniamo: adesso fendo l’oscurità, in groppa al mio insetto scuro, appesa in realtà alle sue zampe rassegnate, mi lascio trasportare dove vuole lui e d’un tratto ho un’intuizione, mi sento come loro, come tutto il brulichio entomologico della camera: in perenne spaventosa attesa. Io pseudoscorpione umana che sono solita viaggiare per foresi, da una parete all’altra del mondo, mi aggrappo a poche zampe altrui che mi permettano il volo – altrimenti altro non sarebbe la mia vita che un immota palude di polvere – trattengo il respiro per ascoltare meglio chi sta immobile nel buio, in attesa di divorare, o essere divorato.

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