ESAMINARE LA POSSIBITA’ DI INSERIRE TALE TESTO IN FONTAMARA DI CARMELO ALIBERTI

IL  SEGRETO DI FONTAMARA

Ignazio Silone fu uno degli scrittori più grande del ‘900”.Ricevette una prima educazione cattolica dalla madre,ma presto,a contatto con le sofferenze, le sopraffazioni e la miseria dei contadini di Fontamara, maturò naturalmente un forte sentimento umanitario che lo indusse ad accettare fideisticamente una certa fiducia verso le idee marxiste,tanto da aderire ufficialmente alla fondazione del P.C.I. Come segretario della gioventù comunista partecipò alla riunione del Cominter, nel 1927 a Mosca con una delegazione italiana,di cui facevano parte anche Gramsci e Togliatti.In quella sede,scoprì il carattere monolitico del partito,nel modo totalitario con cui Stalin operava per ottenere la dirigenza, eliminando coartatamente gli avversari interni che gli contendevano la guida del partito.  Disgustato e deluso dal comportamento di Stalin, criticò apertamente la connotazione dittatoriale del partito, perciò ne fu espulso. Durante i lavori del Congresso, aveva consegnato agli alti funzionari del Partito, la prefazione e il primo capitolo di Fontamara, per dimostrare la sua convinta adesione alle teorie socialiste, ma quelle pagine, nelle carte riportate in Italia dal segretario di Togliatti, non si trovarono più. Tale scomparsa fu definita dallo studioso Giulio Napoleone“IL SEGRETO DI FONTAMARA” e ricostruì il percorso oscuro di quelle pagine importanti, spiegando anche le vere ragioni delle differenze tra i due manoscritti. In effetti,  in maniera documentata,l’ondata di ostilità sollevatasi contro il giovane Silone,aveva la regia di Togliatti,che dapprima gli fu amico,ma successivamente, temendo di non godere sufficienti simpatie presso i vertici del comunismo russo e   di potere essere  scavalcato nelle alte gerarchie sovietiche dallo stesso Silone, gli voltò le spalle e incominciò a seminare discredito attorno al giovane amico, con artificiose macchinazioni. Gli studi e le ricerche raccolte nel recente volume intitolato “Il segreto di Fontamara” hanno portato alla luce dagli archivi del Comintern, ricoperti di polvere, l’introduzione e il primo capitolo di Fontamara,iniziato nel nosocomio di Bellinzona e portato in Russia dallo stesso Silone,come testimonianza del suo ben radicato credo comunista,per  cui  fu accolto benevolmente. Si era alla  prima  riunione dell’Internazionale socialista,per l’assegnazione delle più alte cariche del partito, e conseguentemente eleggere gli alti dirigenti dello stato  e i responsabili del Partito nei vari paesi europei. Erano in competizione Troskij, Zinoviev e Stalin. A malincuore,su intesa con Togliatti, Silone inizialmente sostenne le posizioni staliniste,ma quando capì che nel partito Stalin ostacolava  il libero dialogo tra le varie componenti e si apprestava ad organizzare il sistema di governo da creare nei paesi–satelliti, facendo firmare in dialetto cirillico, comprensibile da pochi, senza neppure poterlo discutere, un documento di espulsione dal partito dei suoi oppositori, denunciò il sistema verticistico del partito e spiegò il suo modo di concepire una tipologia di governo, gestita dall’alleanza di contadini ed operai, non condivisa dai potenti del partito, che fingevano di credere in un modello di stato proletario,mentre già avevano architettato una strutturazione monolitica del paese,cioè il sistema dittatoriale di un uomo solo, con l’accentramento di tutti i poteri, al vertice dello Stato. Per motivi di gelosia, il segretario di Togliatti ,incaricato di portare in Italia le sue carte ,trascurò di portare in Italia le pagine fontamaresi  che rimasero celate, sommerse dalla polvere negli archivi del partito in Russia. I motivi di tale decisione rientrano nel disegno di far cancellare dal tempo la figura di Silone,che ormai era conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo,come emblema dell’antifascismo e come eroe clandestino in lotta contro le prepotenze e le persecuzioni delle comunità, inchiodate  nel guscio della miseria e vittime indifese della tirannide. Profondamente deluso, lo scrittore vide aggravata la propria salute e fu ricoverato con urgenza a Como e poi in Svizzera,trafitto da un dolore che lo trascina nelle bolge del delirio, dove la sua mente oscilla tra ricordo e ansia di conoscere gli accadimenti laceranti di Fonamara,  con il cuore sospeso sul destino di coloro che sono rimasti,e che emergono nel rigurgiti del sogno a raccontare le ultime disavventure accadute a Fontamara, per poterle raccontare al mondo,in modo da contribuire alla formazione di una nuova coscienza, consapevole del valore immenso della libertà e condannare l’orrore della dittatura che trasforma la creatura umana in essere zoologico o in “res”. Senza voler condannare o santificare l’uomo-scrittore,vengono   analizzati l’introduzione e il primo capitolo del romanzo,senza inutili polemiche,ma con la serietà e l’obiettività di chi sa di dover individuare il nucleo della verità di una storia,sottraendola alle subdole strumentalizzazioni degli avversari. A tal fine,dopo la scoperta, si cerca di dare convincenti risposte ai dubbi che la scoperta ha suscitato, per  poter capire perché il manoscritto venne abbandonato in Russia e non portato in Italia e perché lo scrittore mutò la dedica fatta a dieci eroi, venuti nel Meridione per diffondere idee sovversive contro il regime e seminare nuove idee di libertà e di dignità, ma vennero fucilati senza processo; chi avrebbe potuto avere interesse a cancellare il nome e l’opera di Silone dalla luminosa lavagna della storia,riuscendo,in tal modo  a capire il “segreto di Fontamara”, volutamente occultato da chi sarebbe stato danneggiato dalla sua diffusione.    

1930-33, dove lo scrittore si era ricoverato IGNAZIO SILONE

Con Ignazio Silone (nato a Pescina dei Marsi, in provincia dell’Aquila, il 1° maggio del 1900, pseudonimo di Secondino Tranquilli, e deceduto a Ginevra nel 1978 ) la questione meridionale riesplode nelle sue ancestrali e incontenibili istanze. Particolarmente in Fontamara, romanzo scritto nel Sanatorio di Davos nel per motivi di salute, Silone promuove a protagonisti della sua storia i poveri contadini delle sue terre, soprannominati “cafoni”, sottoposti sia a uno sfruttamento spietato dei proprietari locali, sia al tormento, alle asperità geografiche dei luoghi, privi d’acqua, dei più elementari servizi igienici, di mezzi di sussistenza e di reti di comunicazione.Con l’opera di Silone, Vittorini, Bernari, Rea, Levi, per finire a Consolo e Sciascia (per citarne alcuni), gli ultimi grandi scrittori siciliani scomparsi recentemente, a Quasimodo, a Cattafi, ad Emilio Isgrò, una rara figura di scrittore che esordì con l’opera LE FIERE DEL SUD,di ispirazione verista,e successivamente trasfigurò surrealistica men te e in modalità ilaro-tragica la sua scrittura, con cui cantò in maniera corale L’Orestea di Gibellina e Gibella del martirio,opere in cui,mediante la tecnica teatrale della processione popolare la tragedia del terremoto,che distrusse alcuni paesi,con un numero alto di vittime e i superstiti sono stati totalmente dimenticati: allora la processione diventa un efficace strumento di lotta per protestare contro il colpevole abbandono delle Istituzioni,sempre latitanti di fronte alle tante piccole e moderne tragedie della Sicilia e dell’intero Meridione d’Italia.  Anche  l’opera dello scrittore abruzzese, declina la questione meridionale in questione del Sud di tutto il mondo, cioè di tutte le masse sfruttate nel meridione del mondo, si riconverte in termini operativi (e non più solo idillici, lacrimosi e oleografici) e diviene lo scenario su cui lo scrittore incomincia ad acquistare un nuovo ruolo, trasformando il proprio impegno creativo in vera esortazione alla lotta, trasformando se stesso, nel Solito Sconosciuo o nell’alter ego Berardo Viola, che si immola per proporre un modello concreto di resistenza e il Risorgimento del suo popolo, divenuto oggetto di ogni sopruso e di totale schiavizzazione. Perciò, nella trilogia dell’esilio dello scrittore (“Fontamara”, “Vino e pane”, “Il seme sotto la neve”) per rimanere nell’ambito del tema e lasciando da parte tutti gli altri motivi in cui si articola la narrativa siloniana, lo scrittore abbandona la tendenza all’evasione verso plaghe astratte o fantastiche di realtà, e impegna le armi dell’impegno, le armi della letteratura, in difesa dei suoi “cafoni” (in cui, come suggerisce nella prefazione, si identificano i poveri e i diseredati di tutto il mondo). All’interno dell’animo di Silone agì dapprima un impulso umanistico impregnato di idee socialiste, maturato a contatto con i diseredati del suo villaggio,che si incontravano quotidianamente,quando non erano troppo impoegnati nel lavoro dei campi nel Circolo dei contadini, a cui egli leggeva e rispondeva alle lettere dei parenti emigrati,perché i fontamaresi erano analfabeti e ciò faceva molto comodo ai governanti, che avevano nelle loro potere ogni strumento di inganno contro i lavoratori analfabeti.Poi questa piccola scintilla si dilatò a osservare le laceranti ferite dell’uomo meridionale e degli sfruttati della sua terra e, infine, quando la sua riflessione si allargò su orizzonti più vasti, l’umanitarismo istintuale del giovane Silone si identificò inconsciamente con l’ideologia marxista, fino a diventare, con Gramsci e Togliatti, il fondatore del PCI., nel Congresso di Livorno del 1921.Ma, come ben presto si scoprì, la sua fu solo una ubriacatura giovanile, non surrogata da motivi ideologici, per cui, dopo la famosa riunione del Comintern, svoltasi nel 1927 a Mosca, alla quale partecipò anche Silone, come Segretario della sezione giovanile, durante la quale Stalin voleva costringere a firmare un testo di condanna dei suoi avversari, scritto in dialetto cirillico e perciò incomprensibile ai partecipanti, Silone capì di aver aderito a un partito monolitico e, inorridito, fuggì, rifugiandosi nella letteratura, da dove continuò coerentemente a combattere in difesa e per la palingenesi sociale dei suoi cafoni. Particolarmente in Fontamara, mentre è tormentato dalla malattia in quel letto d’ospedale svizzero a Davos, è costantemente perforato dalle lacrime di dolore dei suoi compagni fontamaresi, che lo scrittore immagina lo vadano a trovare. Allora questo drappello di fantasmi che lo “perseguitavano”, diventano personaggi e lo scrittore denuncia al mondo la questione dei “cafoni”, che in quel momento storico rappresentava l’aspetto più tragico della questione meridionale, perché si intrecciava con la bufera dittatoriale che dilagava allora in diverse parti d’Europa, incidendo barbaramente sulla storia delle vittime. Convinto che “nessuna ragione di Stato si identificava con la causa dell’uomo“, Silone, dopo aver descritto “di che lacrime grandi e di che sangue” la storia della sua gente, si lancia alla scoperta delle cause delle persecuzioni istituzionali, per poter liberare dalle catene laceranti i suoi fontamaresi e contribuire alla progettazione di un mondo utopico, dove non vi siano più discriminazioni, e poter vivere in un microcosmo di giustizia sociale e di solidarietà umana. Appartenente a una famiglia indigente, a contatto diretto con il mondo contadino,ne respirò la disperazione e la miseria, per cui  presto acuì una profonda sensibilità per i miserabili analfabeti della sua terra, tanto amato da loro e spessissimo presente nella sede dei lavoratori, ad ascoltare le loro storie di privazioni e di fame, partecipando alla loro disperazione e aiutandoli nei modi che poteva. In tale ambiente, plasmò la sua anima proletaria, finché, dopo la partecipazione a contestazioni sociali, fu tra quelli come Gramsci e Togliatti, che nel Congresso di Livorno nel 1921,partecipò alla fondazione del PCI, ricevendo l’incarico di Segretario della gioventù comunista. Molto presto, sorvegliato speciale della polizia segreta fascista, fu costretto a vivere da clandestino e si nascose anche a Trieste, dove collaborò e condiresse “Il Lavoratore” di ispirazione socialista, ma presto dovette intraprendere la via clandestina dell’esilio, coltivando sempre un sentimento incrollabile per la tragedia sociale e umana degli oppressi della sua terra e degli sfruttati e frustati dai poveri dell’intero pianeta, che lui particolarmente individua, come rivela nella introduzione a “Fontamara”, nella parte del Sud del mondo. Clandestino in Germania, ospitò nel suo rifugio segreto, i poeti e gli scrittori russi perseguitati dal comunismo staliniano e, grazie a lui, l’Occidente conobbe nomi e opere dei grandi intellettuali sovietici del dissenso, sfuggiti alla condanna dei Gulag e del mondo culturale russo, ostile al sistema. Nel 1933, usciva in tedesco “Fontamara”, che fu tradotto simultaneamente in moltissime lingue, riuscendo a denunciare al mondo le nefandezze e la barbarie del regime fascista, fino ad allora mascherate dalla falsa e suadente propaganda all’estero dell’Italia come un regno ideale di governo. Le quotidiane persecuzioni, crocifissioni e sevizie delle squadracce del regime suscitarono alte antipatie verso il fascismo, che aveva già imposto le leggi “fascistissime” e costretto i docenti universitari a sottoscrivere la loro adesione e fedeltà al fascismo. Lo scrittore della libertà, intanto, continuava l’attività di propaganda antisistema anche con i suoi scritti, romanzi e saggi politici continuando ad approfondire i sistemi e le radici della dittatura e a nascondersi in diversi luoghi d’Europa. Intanto, nuove idee di uguaglianza, di giustizia e di libertà circolavano clandestinamente, diffuse da un simbolico personaggio sconosciuto, detto “Il Solito Sconosciuto”, che affida allo scrittore un pacco di manifesti propagandistici contro il sistema e incitando alla rivoluzione antifascista. L’oculata polizia segreta fascista arresta il giovane Silone, con l’accusa di propaganda sovversiva e vuole estirpargli con la tortura la vera identità del Solito Sconosciuto (che in realtà era l’aleggiante simbolo delle nuove idee socialiste che si andavano diffondendo in Europa e che incominciavano a trascinare le masse oppresse, affamate torturate e violentate in modo dissacrante, del mondo contadino. Cade vittima della violenza carnale anche Maria, la donna che aveva addolcito l’istintivo comportamento di Berardo, con cui aveva elaborato progetti d’amore familiare, con concrete e sudate iniziative lavorative, fondate sul dissodamento di dure terre incolte, dette “Terre maledette”, rifiutate da tutti gli abitanti, perché ritenute “terre del diavolo”. Nella incursione notturna di fascisti ubriachi, detta notte dell’orrore, lo scempio totale fu consumato a Fontamara e anche l’ingenua Elvira, fidanzata di Berardo, subì l’atrocità della violenza sotto il campanile della chiesa. La notizia dello scempio compiuto sul corpo di Maria, frantuma il sogno di rientrare nel corso di una vita normale, continuamente torturato dagli agenti del regime, si arrende e, falsamente, si fa riconoscere come l’inafferrabile “Solito Sconosciuto e sulla croce, come Cristo, pronuncia le profetiche parole: Finalmente, ecco un fontamarese che non muore per sé, ma si sacrifica per gli altri”, cioè, come Cristo, gettando nella coscienza del suo tanto amato popolo, il seme della rivolta e del sacrificio personale della vita, nella lotta per la conquista dei loro diritti e della agognata libertà. L’esempio sacrificale della morte di Berardo scuote le coscienze anestetizzate dall’assuefazione alla fame, alla rassegnata schiavitù e alle beffe ordite per divertimento sadico della nobiltà agraria, e, riuniti sotto il campanile, dove è stata immolata Maria, la donna di Berardo, simbolo dei valori morali dei fontamaresi, si chiedono più volte: “Che fare”? di fronte al supplizio della loro vita. La risposta era chiara, come esemplare era stato il titolo del giornale di Lenin “Che fare”, realizzato anche dai reietti, umiliati e offesi di Fontamara, che implicitamente si danno la risposta, cioè La Rivoluzione, perché la dignità e la libertà sono doni preziosi che solo chi li possiede, può difendere o riconquistare. 

Per poter liberare dallo stato di totale emarginazione i braccianti del Fucino, ancora immersi in una condizione feudale, e in cui prevale quell’umanesimo evangelico, “senza partito e senza Chiesa”, che era alla base della sua formazione umana e culturale, sulla scorta della lezione di Cristo, Silone regala alla questione meridionale un personaggio immortale, come Berardo Viola (protagonista di Fontamara), che, dopo le istintive intemperanze giovanili, si assoggetta senza ribellarsi alle torture e ai soprusi del regime, assurgendo a personaggio-simbolo per una soluzione della questione meridionale, in quanto alla fine, con l’ideazione del foglio locale, intitolato “Che fare?”, come il foglio fondato da Lenin in Russia per rafforzare la necessità della rivoluzione nel segno dell’ideologia marxista e addottrinare le coscienze alla nuove idee, rivelando anche le azioni mostruose dello zarismo, come strumento di denuncia al mondo delle crudeltà e delle prevaricazioni e delle efferatezze del fascismo a Fontamara su avversari e innocenti, sui deboli e gli indifesi, sui delitti visibili e invisibili ordinati ed eseguiti dalle squadracce nere, per rivelare il vero volto di un regime più atroce di altri totalitarismi, con l’obiettivo di far maturare in ciascuno una coscienza di rivolta collettiva per abbattere un criminale sistema di potere, per sostituirlo con la realizzazione di un progetto istituzionale, fondato su un modello di sistema, imperniato su una tipologia di cultura egalitaria della società, in cui i valori del cristianesimo (senza Chiesa) e del socialismo umanitario-libertario (e, perciò, senza partito) si fondano in un profetico progetto socio-politico.



IL CASO SILONE

Alcuni ricercatori tentarono in anni recenti di infangare la figura e il coraggioso operato antifascista, pagato a caro prezzo con una vita di fame e di peregrinazioni in esilio, strumentalizzando subdolamente alcune lettere, inviate dalla clandestinità dallo scrittore al Duce, con l’accusa infamante e falsa di essere un delatore del regime, al fine di cancellare ignominiosamente dalle pagine dell’antifascismo l’alone eroico del grande intellettuale che, con Fontamara rivelò all’intera umanità il sistema barbarico, totalitario e monolitico di una delle più spietate dittature e, come “Le mie prigioni” del Pellico produsse gli effetti della causa perduta. In realtà, si trattava di qualche lettera, indirizzata da Silone a Mussolini per chiedere la concessione della grazia per impedire che Romolo, il fratello minore venisse condannato a morte, con l’accusa di aver partecipato a una manifestazione contro il regime. Silone confessa di aver fatto ciò per il fratello che lo aveva seguito ciecamente nella lotta antifascista e il fratello maggiore si autoaccusava della condanna del giovane fratello per non averlo potuto impedire. Il suddetto carteggio, fino a tempi recenti, era secretato negli archivi di stato; da qualche tempo è stato reso accessibile agli studiosi, per cui se ne può prendere atto. Con un inedito e più intenso ruolo la letteratura, circa la questione meridionale, tende a proporsi come strumento di profezia, in attesa del “Terzo regno” e di una vera era di pace, di giustizia, di libertà, di amore e di solidarietà, dell’avvento, cioè, di un umanesimo integrale, di cui Silone (a differenza degli altri scrittori meridionali) si fa banditore dell’avvento di un “Nuovo Regno”, di cui Silone si rivela inconfondibile profeta, perché come egli stesso ebbe a sottolineare, lo scrittore appartiene alla società e nessuna ragione di sorta, si può identificare con la causa dell’uomo, come sostiene il critico Nino Motta nel quotidiano “Il Centro” del 30/6/1994.

Un contributo costruttivo alla questione meridionale fu fornito da alcuni poeti e scrittori del neorealismo, che, esorditi nel periodo fascista, esplosero subito dopo il secondo conflitto mondiale, strutturando le loro opere (oltre che sui motivi della Resistenza), in particolar modo al Sud, sulle istanze etico-civili, maturate in tanti anni di macerazione fisica, psicologica e intellettuale, di fronte alle rovine materiali e allo sfacelo morale del Mezzogiorno d’Italia, dove i derelitti della Marsica incominciarono a manifestare decisi segni di rivolta.

FONTAMARA

“Fontamara” è il primo romanzo di Ignazio Silone (pseudonimo di Secondo Tranquilli, 1900-1978), scrittore abruzzese che in Abruzzo ha ambientato le sue opere più significative. Nonostante il provincialismo delle ambientazioni, la sua opera deve considerarsi di livello europeo per le tematiche politiche e religiose affrontate, che riguardano la condizione dell’uomo nei suoi caratteri universali. Di orientamento comunista e antifascista della prima ora, Silone nel 1930 emigrò per ragioni politiche in Svizzera e qui, nel 1933, pubblicò in traduzione tedesca la prima edizione di “Fontamara”, che fu poi diffuso clandestinamente in italiano; solo nel 1949 verrà pubblicata, per Mondadori, una prima edizione nella lingua originale. Questo romanzo, che denuncia le condizioni di estrema povertà dei “cafoni” della valle abruzzese del Fucino, esclusi dai processi di ammodernamento dei governi dell’Italia unitaria (dalla monarchia sabauda al fascismo), fu al centro del cosiddetto “caso Silone”, scatenato dalla difficoltà di fornire all’opera un’etichetta critica unanimemente accettata, dal neorealismo alla narrativa regionale, dal verismo all’espressionismo letterario.Più ancora che in Italia, “Fontamara” fu letto e apprezzato all’estero, dagli Stati Uniti ai paesi del Terzo Mondo, dove diventò il libro simbolo della volontà di riscatto degli “ultimi”.

Fontamara è il primo romanzo di Ignazio Silone che ambientò in Abruzzo anche le sue opere più significative, senza che il provincialismo ambientale abbia impedito alla sua opera di essere considerata di livello europeo per le tematiche politiche e religiose affrontate, che riguardano la condizione dell’uomo e i valori universali, seriamente minacciati dagli spettri emergenti delle dittature. Antifascista precoce, si occuparsi della gioventù comunista. Subito schedato come nemico del regime, emigrò in Svizzera dove, nel 1933, pubblicò in traduzione tedesca la prima edizione del romanzo Fontamara, diffuso clandestinamente in italiano e solo nel 1949 verrà pubblicata, per Mondadori, una prima edizione in Italia. Questo romanzo, che denuncia le condizioni di estrema povertà dei “cafoni” (il termine è usato dallo scrittore, non con risvolti dispregiativi, ma con il nobile significato di gente povera ed onesta) del Fucino, esclusi dai processi evolutivi dell’Italia Unita, suscitando una polemica accesa tra i critici che non riuscirono a catalogare l’opera con un’etichetta assoluta, dal neorealismo al regionalismo, dal verismo all’espressionismo. Più ancora che in Italia, Fontamara fu letto e apprezzato all’estero, dagli Stati Uniti ai paesi del Terzo Mondo, dove diventò il libro simbolo dell’antifascismo. Fontamara è il nome immaginario di un piccolissimo paese sopra la piana del Fucino, collocato su un territorio scosceso e infruttuoso, che costringe gli abitanti a lavorare a giornata come braccianti nelle terre dei piccoli proprietari locali. Ciò naturalmente determina una discrasia sociale tra lo strato più povero della popolazione (i contadini “cafoni”, appunto) e i possidenti della classe media (i “galantuomini”), che sono tutelati dal potere fascista e dall’istituzione ecclesiastica. Le vicende sono ambientate verso il 1929. La narrazione comincia però in Svizzera, dove un io-narrante, l’alter ego dell’autore, riceve la visita di tre persone, due uomini (padre e figlio) una donna, abitanti di Fontamara, fuggiti clandestinamente dall’Italia e arrivati fino in Svizzera per chiedere asilo e per condividere con l’autore, loro conterraneo, le recenti e sciagurate vicende accadute nel paese. L’autore decide di trascrivere, senza interferenze personali o espansioni descrittive o riflessive, il loro racconto perché le condizioni disperate di “Fontamara” somigliano a quelle di ogni villaggio meridionale, più misero e abbandonato degli altri”, Fontamara è un piccolo universo, dove si vivono esperienze di spessore universale. In più, chi scrive è spinto a testimoniare dalla speranza che il “cafone”, protagonista con le proprie sofferenze dell’intero racconto, possa acquisire una forte valenza testimoniale, con l’obiettivo di scuotere le coscienze dei contadini locali dalla plurisecolare anestesia storia. La loro è una vicenda di povertà e soprusi, che prosegue sin dai tempi dell’unificazione d’Italia e del passaggio dalla dominazione borbonica a quella sabauda. Nessuno si è mai occupato dei cafoni della Marsica, perché i cafoni da sempre sono considerati una specie inferiore di uomini:“E noi?” gli rispondemmo. “Non siamo cristiani anche noi?”

“Voi siete cafone” ci rispose quello. “Carne abituata a soffrire”

Con l’avvento al potere del fascismo, però, la condizione si è aggravata. Lo dimostra emblematicamente l’evento con cui si apre il racconto, ovvero l’interruzione dell’erogazione di elettricità nel paese, dove la notte si regredisce a vivere al “chiaro di luna” Gli abitanti ignorano i connotati del nuovo governo, né hanno idea di cosa significhi “fascista”: per loro chi comanda si misura solo nei termini del miglioramento economico di vita e col nuovo potere si vive un significativo peggioramento della precarietà esistenziale. Il racconto è paradigmato da una sequenza di inganni orditi ai danni dei cafoni da parte dei nuovi governanti locali, rappresentati dal personaggio del podestà, l’autoritario e spietato Impresario, appoggiato dal clero-impersonato dal pavido don Abbacchio (parodia del manzoniano don Abbondio) – e dai piccoli proprietari come don Circostanza, un voltagabbana che dovrebbe tutelare gli interessi dei fontamaresi, invece protegge quelli dei nuovi padroni. Al raggiro dell’elettricità si aggiunge quello connesso al corso del ruscello, la cui acqua è una risorsa di primaria importanza per l’economia rurale di Fontamara. Con la connivenza delle istituzioni, questo è stato incanalato verso le terre dell’Impresario per renderle più fertili e produttive. Gli uomini e le donne di Fontamara, però, non sono disposti ad arrendersi di fronte ai soprusi dei ricchi e potenti e tentano con varie proteste ingenue, di difendere i propri diritti. I “cafoni”, per ignoranza e per analfabetismo hanno firmato una carta in bianco che autorizzava l’esproprio dell’acqua, sono ingannati a causa della loro ignoranza e del loro analfabetismo: di fronte alla loro sommossa, l’avvocato don Circostanza li convince ad accettare un accordo scritto per cui “tre quarti” dell’acqua andrà all’Impresario e “tre quarti” al paese. Non comprendendo la palese incongruenza, i “cafoni” cadono nel tranello. In seguito, i fontamaresi assistono al fallimento di una grande manifestazione per rivendicare i loro diritti elementari e l’espropriazione di alcune terre da sempre destinate al pascolo comune. Al danno e alle beffe, si aggiunge la feroce rappresaglia delle autorità, per aver tentato di ribellarsi ai loro ordini: un giorno, mentre tutti gli uomini del villaggio sono nei campi a lavorare, una squadraccia di fascisti irrompe a Fontamara, perquisendo le case e violentando le donne; al ritorno degli uomini, questi vengono “schedati” come sovversivi. Viene poi promulgato il divieto di emigrare dal paese e quello di discutere di politica in pubblico. Il villaggio vive la condizione di un popolo abbandonato alle ingiustizie di un sistema fondato su clientelismo, violenza e corruzione; nessuno difende la causa dei cafoni che non hanno un capo carismatico. Il giovane Berardo Viola, che è un “cafone” dotato di una “coscienza di classe” assai rara, tenta inizialmente la strada della rivolta, ma poi si convince a cercare un lavoro e un futuro lontano dal misero paese natale, per poter tornare e sposare Elvira. Ma anche Berardo ha il destino di uno sconfitto: giunto a Roma, egli non riesce a trovare lavoro per la fama di sovversivi che accompagna i fontamaresi (e lui in particolare), il giovane è poi arrestato e torturato in carcere, dove si assumerà anche la responsabilità di alcune stampe che inneggiano all’antifascismo. Berardo morirà per le conseguenze delle percosse, convinto che di non morire “per sé, ma per gli altri”. La sua fine, causata dalle percosse e dalle torture, verrà mascherata come un suicidio.

Privi di alcuna guida, i fontamaresi provano ad organizzare le loro forze attorno a un giornale clandestino, dal titolo «Che fare?», ma l’esperienza è di breve durata. Mentre nelle campagne abruzzesi hanno luogo una serie di insurrezioni contro lo Stato fascista, le squadre nere tornano a colpire ancor più duramente Fontamara, che viene saccheggiata, data alle fiamme e tutti i “cafoni” trucidati. Sfuggono alla strage, i tre esuli (Giuvà, Matalè e loro figlio) che vengono salvati dall’anarchico Solito Sconosciuto, già in contatto con Berardo, e condotti in Svizzera. Sono loro il simbolo della speranza per il futuro di Fontamara.

Il tragicomico in FONTAMARA

Quella raccontata in Fontamara è la storia tragica del destino di sofferenza assegnato agli “ultimi” della società italiana. Il romanzo si chiude su un’immagine di disperazione e disorientamento: i tre narratori sfuggono alla rappresaglia intervenuta a punire l’insurrezione di Fontamara e, allontanandosi dal paese, si chiedono “che fare?”. Non c’è risposta alla domanda e nulla all’orizzonte lascia trasparire una soluzione o una speranza. Eppure questo romanzo è stato considerato da molti critici come “il manifesto della dignità dei cafoni” e della loro volontà di rivalsa rispetto ai lutti e alle ingiustizie inflitte. In effetti, per la prima volta nella letteratura italiana, la plebe meridionale prende direttamente la parola e racconta la Storia dal proprio punto di vista. E proprio il punto di vista della narrazione è l’elemento che Silone sceglie per contrastare un potere che, per il proprio tornaconto, sfrutta impietosamente l’ingenuità inerme e l’onestà della povera gente. Chi racconta, infatti, traducendo in italiano il resoconto dialettale dei tre fontamaresi fuggiti, rende comprensibile ed efficace il messaggio etico e di denuncia sociale. Al tempo stesso però viene alla luce anche l’aspetto paradossale, per non dire comico, di alcune vicende. Ad esempio, nel caso di una delle molte truffe perpetrate ai danni dei “cafonI”:

“Ecco, intendiamoci”, riprese Innocenzo “intendiamoci, non si tratta di tasse, vi giuro su tutti i santi che non si tratta di pagare. Se si tratta di tasse, che Dio mi tolga la vista”.

Vi fu una piccola pausa, giusto il tempo per permettere a Dio di esaminare il caso. Innocenzo conservò la vista. L’improvvisa interruzione dell’illuminazione pubblica, decisa dal nuovo governo per i mancati pagamenti delle tante bollette, esasperò ulteriormente il cattivo umore dei cafoni, che ignorando l’umore dei contadini e le caratteristiche del nuovo regime, immaginarono che qualche nemico della regina Elena, meritevole di gratitudine per aver donato al paese l’illuminazione pubblica, avrebbe voluto offenderla con tale sgarbo. Non capirono che era stata, invece, un’azione intimidatoria o meglio un avvertimento, con cui il nuovo regime rivelava il suo vero volto. Così, gli abitanti tornarono indietro di molti anni, trascorrendo le notti al chiaro di luna, senza alcun avviso giustificativo. Tale episodio rappresenta un altro anello della catena infinita delle beffe e della privazione del solo diritto, di cui i “cafoni” erano stati beneficiati, assieme alla fornitura di sigarette dalle istituzioni; ma le sigarette avrebbero essere sostituite con la pipa riempita di foglie secche, come un tempo. La mancanza dell’illuminazione pubblica trasformava il villaggio in un piccolo cimitero, costringendo tutti all’uso della lanterna, generando un nuovo episodio di regressione. Tra i tanti raggiri subiti dai “cafoni” per la mancanza di alfabetizzazione, fu quello del “furto” del diritto di usufruire dell’acqua del ruscello, indispensabile per irrigare i loro minuscoli fazzoletti di terra, da cui traevano i soli prodotti per la stentata sopravvivenza. L’acqua del ruscello era anche indispensabile per rendere fertili i molti campi incolti del principe Torlonia, il più ricco di terre dell’intera regione e politicamente potentissimo, perché inserito ai vertici del nuovo potere. Per potere impossessarsi del diritto della fruizione dell’acqua da parte dei contadini poveri, fu ordito un inganno ingegnoso, quanto abominevole e criminale. Fu inviato il cav. Pelino per convincere tutti i contadini a firmare un foglio in bianco, con cui il governo avrebbe concesso molti benefici. Con tale inganno, il cavalier Pelino, dopo le proteste degli astanti, che fiutarono l’ingannevole orditura, sfoderò un repertorio retorico incomprensibile e, per abbattere il muro dell’avversione, si inventò la storia dei benefici. Dopo il crollò del primo, incominciarono a firmare gli altri. L’operazione fu sospesa per lo spegnersi dei lumi per il consumo totale dell’olio che ne alimentava la fiamma, Marietta, proprietaria della cantina, li invitò ad entrare nel locale. Si disposero attorno al tavolo per continuare a firmare il documento in bianco. Ma, improvvisamente, qualcosa si mosse nel semibuio del tavolo. Si trattava di un pidocchio, più grande del solito e di altro colore, mai visto prima, perché Dio, quando creò il mondo, stabilì che i pidocchi, ad ogni rivoluzione, sarebbero cambiati in una nuova specie. Dopo che Marietta fece notar e che sulla schiena il pidocchio si vedeva una croce, Michele Zompa si ricordò di aver fatto un sogno. Dopo la Conciliazione tra Stato e Chiesa, il prete in un’omelia spiegò che ora anche per i cafoni sarebbe cominciata una nuova era. Quella notte, Zompa aveva sognato di vedere per le vie Cristo, seguito dal Papa, a cui chiedeva consigli su cosa regalare i cafoni, dopo la pace tra le due istituzioni senza offendere le autorità politiche. “Sarebbe giusto distribuire ai cafoni le terre del Fucino, che le hanno sempre lavorato” o dispensare i cafoni dal pagare le tasse o mandare un raccolto abbondante, ma ogni proposta veniva bloccata dal veto convincente del Papa, faceva osservare a Cristo che ognuna delle proposte avrebbe provocato l’offesa dei proprietari terrieri, che erano buoni cristiani. L’esenzione dal pagamento delle tasse avrebbe offeso i governanti i l’abbondanza dei raccolti avrebbe provocato l’abbassamento dei prezzi e ciò avrebbe danneggiato i commercianti che erano pure buoni cristiani. Cristo, amareggiato, propose di recarsi sul luogo e constatare le reali esigenze dei cafoni. Cristo portava sulle spalle una grande bisaccia, autorizzando il papa a prendere e donare qualsiasi cosa necessaria a quella povera gente, costretta dalla fame e dalla povertà a mangiare pidocchi. Ai loro lamenti, il papa estrasse dalla bisaccia di Cristo una “nuvola” di pidocchi e li lanciò sulla gente, dicendo: “Questi nelle ore di ozio vi costringeranno a grattarvi e non avrete il tempo di peccare”. Il racconto de sogno di Michele Zompa irritò il cav. Pelino che si allontanò borbottando che avrebbero ancora sentito parlare di lui. Rientrando a casa a tastoni nel buio, lungo la scalinata, avvertì un rumore di vetri infranti e riconobbe per l’altezza dell’ombra, Berardo che a sassate rompeva le lampade spiegando : ”le lampade senza la luce, a che servono?”

La capacità di alternare, al tono grave con cui in prevalenza viene condotta la narrazione, un tono più leggero e disincantato è sempre funzionale alla denuncia delle contraddizioni e delle storture del potere: la presenza di elementi comici non implica affatto che chi narra si ponga ad un livello superiore o sia in sintonia con le prepotenze dei “galantuomini”. Il narratore decide di limitare al minimo i suoi interventi sul testo e sulle narrazioni dei tre “cafoni”: il suo compito è più quello del traduttore, per far emergere nella maniera meno filtrata possibile la visione del mondo di degli “ultimi”. La narrativa di Silone, anche in altre opere (“Pane e vino”, 1936; “Una manciata di more”, 1952; “L’avventura di un povero cristiano”, 1968), sin dalla sua prima prova conferma quindi un forte ed irrinunciabile retroterra etico, che ha la precedenza sulle questioni stilistiche e formali.

Negli anni Sessanta Silone cambiò anche legalmente il proprio nome. Lo pseudonimo è derivato dai nomi del santo spagnolo Ignazio e di Quinto P. Silo, condottiero della popolazione dei Marsi contro Roma nella “guerra sociale” del 90 a.C. Lo pseudonimo indica allora le due tensioni che animano l’attività politica e di scrittore di Silone, ovvero l’ispirazione cristiana e la lotta contro le ingiustizie del potere contro i più deboli.Silone si allontanò dal movimento comunista già verso il 1930, poiché non ne condivideva la linea filo-stalinista, che espresse nel Cominter di Mosca, quando si oppose a Stalin che avrebbe voluto dai convenuti la firma di un documento di condanna del gruppo zinovieviano in dialetto cirillico conosciuto da pochi. In quella circostanza, Silone capì il carattere monolitico del partito. Allora preferì allontanarsi dai compagni, rimase così un uomo di sinistra e un contestatore dell’ordine costituito, affrancato però dalle logiche di partito e condannato all’esilio o a qualcosa di peggio.

P.S. Ci sembra doveroso segnalare il recente volume di Luce D’Eramo, edito dalla Feltrinelli, sull’intera opera di Silone, con l’inserimento degli scritti siloniani e con il lungo carteggio dello scrittore con la scrittrice, già autrice del saggio, dedicato a Silone nel 1971. Riportiamo la nota editoriale relativa al volume:

Questo libro presenta nella loro totalità le pagine che Luce d’Eramo, scrittrice e intellettuale tra i più preziosi della nostra cultura, ha dedicato a Ignazio Silone, a cominciare dalla monografia L’opera di Ignazio Silone, unanimemente considerata un capolavoro, esemplare di rigore critico e passione letteraria e civile. Scritta nel 1971 – molto prima che Silone venisse riscoperto in Italia, pur essendo studiato e celebrato a livello internazionale –, rappresenta il testo fondamentale per conoscere l’opera dello scrittore abruzzese, da Fontamara a L’avventura di un povero cristiano, dall’infanzia marsicana all’espulsione dal Pci, dalla critica del sistema politico alla riscoperta di una fede «senza Chiesa». Questa nuova edizione aggiunge al saggio originale tutti gli articoli su Ignazio Silone pubblicati successivamente da Luce d’Eramo e, soprattutto, il carteggio inedito tra i due scrittori, terminato solo con la morte di Silone. Questi testi sono anche la testimonianza di uno scambio umano e intellettuale, durato negli anni, sui temi della letteratura, dell’impegno politico e, prima di ogni altra cosa, sul valore e sul senso dell’esistenza. Per l’autrice, infatti, alla base della scrittura di Silone c’è «la convinzione che si opera in mezzo e insieme agli altri, che tutto è legato perché ogni particolare è diverso, che per individuarsi bisogna accrescersi dell’altrui presenza». Con una prefazione di Goffredo Fofi scritta per questa edizione.

SINTESI

Fontamara è il nome immaginario di un piccolissimo paese tra colline e montagna, sopra la piana del Fucino, collocata su un territorio scosceso e avaro di frutti, che costringe gli abitanti a lavorare a giornata come braccianti negli appezzamenti dei piccoli proprietari locali. Si crea così una netta cesura sociale tra lo strato più povero della popolazione (i contadini “cafoni”) e i possidenti della classe media (i “galantuomini”), che sono protetti dal potere fascista e dall’istituzione ecclesiastica. Le vicende sono ambientate verso il 1929. La narrazione comincia però in Svizzera, dove un io narrante, identificabile con l’autore, riceve la visita di tre persone, due uomini (padre e figlio) e una donna, parenti del ricoverato, abitanti fuggiti clandestinamente da Fontamara e arrivati fino in Svizzera per chiedere asilo e riferire all’autore, loro conterraneo, le recenti vicende dolorose del loro paese. L’autore decide di scrivere il loro racconto perché “Fontamara rappresenta ogni villaggio meridionale, un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri”, al fine di denunciare al mondo la scellerata condizione di vita in tutti i paesi dell’Italia Meridionale, simile a quella universale del Sud del pianeta, con la speranza che il “cafone”, “quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore”. Il racconto degli esuli fontamaresi ha quindi una forte pregnanza testimoniale, che lo scrittore si assume il compito di “tradurre” in italiano la loro esperienza e il loro punto di vista sugli oppressi. La loro è una vicenda di povertà e di soprusi, che prosegue sin dai tempi dell’unificazione d’Italia e del passaggio dalla dominazione borbonica a quella sabauda. Nessuno si è mai occupato dei cafoni della Marsica, perché i cafoni da sempre sono considerati una specie inferiore di uomini: “E noi?” gli rispondemmo. “Non siamo cristiani anche noi?” “Voi siete cafone” ci rispose quello. “Carne abituata a soffrire”. Con l’avvento al potere del fascismo, però, la condizione si è aggravata, come dimostra emblematicamente l’evento iniziale del racconto, cioè l’interruzione dell’erogazione di elettricità nel paese. Gli abitanti di Fontamara ancora non sanno cosa significhi “fascista”, perché loro conoscono solo un potere che li ha sempre discriminati e perseguitati, con il conseguente peggioramento della perdita di qualche obbligata regalia ricevuta nel tempo. Il racconto è scandito infatti da una serie di inganni orditi ai danni della popolazione di Fontamara da parte dei nuovi governanti, rappresentati dal podestà, lo spietato Impresario, appoggiato dal clero – impersonato dal pavido don Abbacchio (simile al manzoniano don Abbondio) e dai piccoli proprietari come don Circostanza, che fingendo di rappresentare gli interessi dei fontamaresi, protegge, invece, quelli dei potenti. Al raggiro dell’elettricità, si aggiunge quello del ruscello, la cui acqua è indispensabile per la sopravvivenza dei “cafoni”. Con la connivenza delle istituzioni, il ruscello sarà incanalato verso le terre dell’Impresario, il potente podestà, abile speculatore che acquista da don Carlo Magna a prezzo irrisorio vasti terreni incolti, per speculare e renderle più produttive. A tal fine ordina ai suoi fedeli sostenitori di deviarne le acque nelle sue nuove terre, che per i fontamaresi costituivano la sopravvivenza, in quanto con quell’acqua irrigavano i loro campi ed erano indispensabili per dissetarsi e per ogni necessario uso domestico. Gli uomini e le donne di Fontamara, però, non sono disposti ad arrendersi di fronte ai soprusi e tentano con varie e ingenue proteste, di far valere i propri diritti. L’ignoranza dei “cafoni” li induce a firmare una carta in bianco che autorizzava l’esproprio dell’acqua con l’inganno, per cui, di fronte alla loro sommossa, l’avvocato don Circostanza li convince ad accettare un accordo scritto per cui “tre quarti” dell’acqua andrà all’Impresario e “tre quarti” al paese. Il loro analfabetismo impedisce loro di capire la palese incongruenza, i “cafoni” cadono nel tranello. In seguito, i fontamaresi vedranno il fallimento di una grande manifestazione per rivendicare i loro diritti elementari e saranno costretti a subire con disperazione l’espropriazione di alcune terre da sempre destinate al pascolo comune. Al danno materiale, si aggiunge la punizione violenta per aver tentato di ribellarsi: un giorno, mentre tutti gli uomini del villaggio sono impegnati a lavorare nei campi, una squadraccia di fascisti si presenta a Fontamara per perquisire le case e perpetrare ogni crudele violenza anche verso le donne. Anche Elvira, la donna amata da Berardo, subisce la stessa violenza, proprio sotto il campanile della Chiesa; al ritorno dal lavoro, gli uomini vengono “schedati” come sovversivi, per cui è imposto a loro il divieto di emigrare dal paese e quello di discutere di politica in pubblico. La condizione dei fontamaresi è quella di un popolo abbandonato alle ingiustizie di un sistema fondato su clientelismo e corruzione; nessuno difende la causa dei cafoni, che non possono neanche sperare in un capo carismatico che li guidi alla rivolta. Il giovane Berardo Viola, che è un “cafone” dotato di una “coscienza di classe” assai rara, tenta inizialmente la strada della rivolta, ma poi si convince a cercare un lavoro e un futuro lontano dal misero paese natale per poter tornare e sposare Elvira. Ma anche Berardo ha il destino di uno sconfitto: giunto a Roma, egli non riesce a trovare lavoro per la fama di sovversivo e subisce ingenuamente le vessazioni sarcastiche dei burocrati dell’Ufficio di collocamento che ironizzano e beffeggiano, con palleggiamenti di competenze, il giovane che è poi arrestato e torturato in carcere, dove si assumerà anche la responsabilità di alcune stampe che inneggiano all’antifascismo. Berardo morirà per le conseguenze delle percosse, convinto di non morire “per sé, ma per gli altri”. La sua fine verrà mascherata come un suicidio. Privi del loro esponente più carismatico, i fontamaresi provano ad organizzare le loro forze attorno a un giornale clandestino, dal titolo “Che fare?” (titolo corrispondente al foglio rivoluzionario fondato da Lenin durante la rivoluzione d’ottobre), ma l’esperienza è di breve durata. Mentre nelle campagne abruzzesi esplodono insurrezioni contro lo Stato fascista, le squadre fasciste tornano a colpire ancor più duramente Fontamara, che viene saccheggiata e data alle fiamme, tra morti e feriti. I tre esuli (Giuvà, Matalè e loro figlio) fuggono e vengono salvati dall’anarchico Solito Sconosciuto, già in contatto con Berardo, e condotti in Svizzera. Sono loro il simbolo della speranza per il futuro di Fontamara. Fontamara è il racconto della storia tragica del destino di sofferenza assegnato agli “ultimi” della società italiana. Il romanzo si chiude su un’immagine di disperazione e disorientamento: i tre narratori sfuggono alla rappresaglia intervenuta a punire l’insurrezione di Fontamara e, allontanandosi dal paese, si chiedono “che fare?”. La risposta alla domanda, dopo le barbare e criminali azioni subite, potrebbe risuonare nell’aria: ribellarsi, organizzarsi e combattere per conquistare la libertà. L’attività clandestina del Solito Sconosciuto, che già aveva contattato Berardo che è stato condannato a morte per essersi inverosimilmente riconosciuto in lui, ne rappresenta la speranza. Forse per questo il romanzo è stato considerato da molti critici come il manifesto della dignità dei cafoni e della loro volontà di rivolta rispetto ai lutti e alle ingiustizie subite. In effetti, per la prima volta nella letteratura italiana, la plebe meridionale racconta la propria Storia dal proprio punto di vista, scelto da Silone per denunciare al mondo un potere criminale che, per il proprio vantaggio, sfrutta l’ingenuità inerme e l’onestà della povera gente. Chi racconta, infatti, traducendo in italiano il resoconto dialettale dei tre fontamaresi fuggiti, manifesta efficacemente il messaggio etico e di denuncia sociale. Al tempo stesso però viene alla luce anche l’aspetto paradossale, per non dire comico, di alcune vicende. Ad esempio, nel caso di una delle molte truffe perpetrate ai danni dei “cafoni”: “Ecco, intendiamoci”, riprese Innocenzo “intendiamoci, non si tratta di tasse, vi giuro su tutti i santi che non si tratta di pagare. Se si tratta di tasse, che Dio mi tolga la vista”.La capacità di alternare il tono grave del la narrazione, con un tono più leggero e disincantato è sempre funzionale alla denuncia delle contraddizioni e delle storture del potere: la presenza di elementi comici accentua la gravità delle prepotenze dei “galantuomini”. Lo scrittore si limita a tradurre in italiano le narrazioni dei tre esuli, senza interventi narrativi propri e in un linguaggio scarno ed efficace (simile a quello successivamente usato dagli autori del Neorealismo) per far emergere senza filtri la visione del mondo degli “ultimi”. La narrativa di Silone, anche in altre opere (Pane e vino, 1936; Una manciata di more, 1952; L’avventura di un povero cristiano, 1968), sin dalla sua prima prova evidenzia una forte coscienza etica e una vocazione sociale, al di là delle questioni stilistiche e formali, con cui combatte per il superamento e le soluzioni della cristallizzata “questione meridionale”, senza esaltazioni verbali apologetiche, ma con le tante ferite aperte.

Ancora adolescente, Secondino frequentava il “Circolo dei contadini” locali, che ogni sera si riunivano nella sede al di là del ruscello ed, essendo alfetizzato, leggeva le lettere dei parenti lontani di costoro e rispondeva agli stessi secondo le indicazioni dei destinatari. A contatto con quei poveri lavoratori marsicani, ne ascoltava con amarezza le storie dolorose che sembrava si svolgessero in un girone infernale. La sensibilità del ragazzo ne rimase squarciata e naturalmente maturarono in lui idee proletarie e filopleblee convogliate nel Partito Socialista, nato nel 1892 e scissosi nel congresso di Livorno del 1921, con la nascita del P.C.I., a cui Silone aderì, ricevendo l’incarico di organizzare e curare la gioventù di sinistra. Per le accuse fasciste, Silone minacciato e poi ricercato, si avviò verso l’esilio, prima nascondendosi in Italia, tra cui nella città di Trieste (1922-1923), dove collaborò al periodico socialista “Il Lavoratore”, e poi in un nosocomio a Davos in Svizzera per curarsi una malattia polmonare e dove incomiinciò a scrivere il suo primo romanzo “Fontamara”, in cui riversò la sua febbrile partecipazione alla reale miseria dei contadini della sua terra. Del suddetto romanzo, si riporta qui qualche brano esemplificativo della atavica emarginazione di una ignorata comunità costretta a vivere in una programmata dimenticanza istituzionale:

 DA: Prefazione a “FONTAMARA”

Gli strani fatti che sto per raccontare si svolsero nel corso di un’estate a Fontamara. Ho dato questo nome a un antico e oscuro luogo di contadini poveri, situato nella Marsica, a settembre del prosciugato lago di Fucino, nell’interno di una valle, a mezza costa tra la collina e la montagna.In seguito ho risaputo che il medesimo nome, in alcuni casi con piccole varianti apparteneva già ad altri abitanti dell’Italia meridionale, e, fatto più grave, ho appurato che gli stessi strani avvenimenti in questo libro con fedeltà narrati, sono accaduti in più luoghi, seppure non nella stessa epoca e sequenza. A me però è sembrato che queste non fossero ragioni valevoli perché la verità venisse sottaciuta. Anche certi nomi di persone, come Maria Francesco Giovanni Luca Antonio e tanti altri, sono assai frequenti, e sono comuni ad ognuno i fatti veramente importanti della vita, il nascere, l’amare, il soffrire il morire, ma non per questo gli uomini si stancano di raccontarseli. Fontamara somiglia dunque, per molti lati, ad ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori delle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri. Ma Fontamara ha pure aspetti particolari. Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin, i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici. A chi sale a Fonntamara dal piano del Fucino, il villaggio appare disposto sul fianco della montagna grigia brulla e arida come su una gradinata. Dal piano son ben visibili le porte e le finestre della maggior parte delle case: un centinaio di casucce tutti ad un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti da tegole e rottami d’ogni sorta. La maggior parte di quelle catapecchie non hanno che un’apertura che serve da porta, da finestra e da camino. Nell’interno, perlopiù senza pavimento, con i muri a secco, abitano, dormono, mangiano, procreano, talvolta nello stesso vano, gli uomini, le donne e, i loro figli, le capre, le galline, i porci, gli asini. Fanno eccezione, una decina di case di piccoli proprietari e un antico castello oggi disabitato, quasi cadente. La parte superiore di Fontamara è dominata dalla chiesa col campanile e da una piazzetta a terrazzo, alle quali si arriva per una via ripida che attraversa l’intero abitato, e che l’unica via dove possano transitare i carri. Ai fianchi di questa sono stretti vicoli laterali, per lo più a scale, scoscesi, brevi, coi tetti delle case che quasi si toccano e lasciano appena scorgere il cielo. A chi guarda da lontano Fontamara dal feudo del Fucino, l’abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio come tanti altri, ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo: l’intera storia universale vi si svolge: nascite, morti, amori, odi, invidie, lotte, disperazioni. Altro su Fontamara non vi sarebbe da dire, se non fossero accaduti gli strani fatti che sto per raccontare. Ho vissuto in quella contrada i primi vent’anni della mia vita e altro non saprei dirvi. Per vent’anni il solito cielo circoscritto dall’anfiteatro delle montagne che serrano il feudo come una barriera senza uscita; per vent’anni la solita terra, le solite piogge, il solito vento, la solita neve, le solite feste, i soliti cibi, le solite angustie, le solite pene, la solita miseria, la miseria ricevuta dai padri, che l’avevano ereditata dai nonni e contro la quale il lavoro onesto non è mai servito a niente. Le ingiustizie più crudeli vi erano così antiche da aver acquistato la stesa naturalezza della pioggia, del vento, della neve. La vita degli uomini, delle bestie e della terra sembrava così chiusa in un cerchio immobile, saldato dalla chiusa morsa delle montagne e dalle vicende del tempo. Saldato in un cerchio naturale, immutabile, come in una specie di ergastolo. Prima veniva la semina, poi l’insolfatura, poi la mietitura, poi la vendemmia…. Gli anni passavano, gli anni si accumulavano, i giovani diventavano vecchi, i vecchi morivano, e si seminava, si sarchiava, si insolfava, si mieteva, si vendemmiava e poi daccapo. Ogni anno come il precedente, ogni stagione come la precedente, ogni generazione come la generazione precedente. Nessuno a Fontamara ha mai pensato che quell’antico modo di vivere potesse cambiare. La scala sociale non conosce a Fontamara che due pioli:la condizione dei cafoni, raso terra, e un pochino più su, quella dei piccoli proprietari. Su questi due pioli si spartiscono anche gli artigiani: un pochino più su i meno poveri, quelli che hanno una botteguccia e qualche rudimentale utensile: per strada gli altri… da sempre, i cafoni, gli artigiani, i braccianti, i manovali, gli artigiani poveri affrontano sforzi, privazioni e sacrifici inauditi, per salire quello scalino infimo della scala sociale; ma raramente vi riescono. La consacrazione dei fortunati è il matrimonio con una figlia di piccoli proprietari. Ma se si tiene conto che vi sono terre attorno a Fontamara dove chi semina un quintale di grano, talvolta non ne raccoglie che un quintale, si capisce che non sia raro che dalla condizione di piccolo proprietario, penosamente raggiunta, si ricada in quella del cafone… I cafoni di Fontamara più fortunati possiedono un asino, talvolta un mulo. In autunno, dopo aver pagato i debiti dell’anno precedente, essi devono cercare in prestito quel poco di patate, di fagioli, di cipolle, di farina di granturco, che serva per non morire di fame durante l’inverno…una pesante catena di piccoli debiti per sfamarsi e di fatiche estenuanti per pagarli. La lingua italiana è per loro una lingua straniera, perciò debbo sforzarmi di tradurre alla meglio nella lingua imparata quello che voglio che tutti sappiano la verità sui fatti di 

Fontamara.

I PIDOCCHI E IL CHIARO DI LUNA

Il primo giugno dell’anno scorso Fontamara rimase per la prima volta senza illuminazione elettrica. Il due di giugno, il tre di giugno il paesino di Fontamara continuò a rimanere senza illuminazione elettrica. Così nei giorni seguenti, finchè Fontamara si abituò al regime del chiaro di luna. Per arrivare dal chiaro di luna alla luce elettrica, Fontamara aveva messo un centinaio di anni, utilizzando l’olio d’oliva per illuminare le vie e per tornare dalla luce elettrica al chiaro di luna bastò una sera. I giovani non conoscono la storia, ma noi vecchi la conosciamo. Tutte le novità portate dai Piemontesi in settant’anni si riducono insomma a due: la luce elettrica e le sigarette. La luce elettrica se la sono ripresa: Le sigarette? Si possa soffocare chi le ha fumate una sola volta. A noi è bastata la pipa. La luce elettrica era diventata a Fontamara una cosa naturale, come il chiaro di luna. Nel senso che nessuno la pagava. Nessuno la pagava da molti mesi. E con che cosa avremmo dovuto pagarla? Negli ultimi mesi il cursore comunale neppure era più venuto a distribuire la sola fattura mensile con il segno degli arretrati, il solito pezzo di carta che noi ci servivamo per gli usi domestici. L’ultima volta che il cursore era venuto, per poco non vi aveva lasciato la pelle. Per poco una scoppiettata non lo aveva fatto secco all’uscita del paese. Egli era assai prudente. Veniva a Fontamara quando gli uomini erano al lavoro e nelle case non trovava che donne e creature. Ma la prudenza non è mai troppa. Egli era molto affabile. Distribuiva le sue carte con una risatella cretina, pietosa. Diceva: “Prendete, per carità, non ve l’abbiate a male, un pezzo di carta in famiglia può sempre servire”. Però l’affabilità non è mai troppa. Alcuni giorni dopo un carrettiere gli fece capire che a Fontamara egli non metteva più piede), ma giù nel capoluogo che la schioppettata probabilmente non era diretta contro di lui, la sua persona, contro la persona di Innocenzo La Legge, quanto contro la tassa… Nè a lui balenò mai l’idea di proporre al Comune un’azione giudiziaria contro i Fontamaresi. “Se si potessero sequestrare e vendere i pidochi”, aveva suggerito una volta senza dubbio darebbe importanti risultati. Ma anche se fosse lecito sequestrarli, poi chi li ricomprerebbe?” (“Fontamara”, 1930–1933)