Alessandria, pubblicato da Pier Carlo Lava 

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LA MENTE E I LUOGHI

Montagne, viaggi, avventure

Prefazione di Claudio Smiraglia

PREFAZIONE

Non è agevole sintetizzare contenuti e significati del libro di Enzo Concardi, tante sono le suggestioni che derivano dalla lettura. Già il titolo con il suo binomio (“la mente e i luoghi”) sembra aprire interconnessioni fra un lembo di spazio terrestre ben delimitato, potremmo definirlo “geo- grafico”, e un lembo di spazio antropico, apparentemente ancora più ridotto, ma di immensa potenzialità, che po- tremmo definire “psicologico”. Il sottotitolo riesce a ri- durre questa sensazione di spaesamento, racchiudendo quello spazio geografico in un contesto più specificato (“montagne”), che interagisce con le modalità di fruizione di quello stesso spazio (“viaggi”) e con le tipologie di de- finizione delle sue valenze (“avventure”).

In realtà il filo conduttore che fa dei numerosissimi fram- menti che compongono il libro un universo compiuto, va ricercato con passione e tenacia e solo con più di una lettura ci si accorge che ogni frammento, ogni pensiero, ogni tes- sera, vanno a integrarsi in un mosaico completo. Già i quat- tro capitoli che lo compongono, con i loro titoli accatti- vanti, ma in qualche misura sfuggenti ed evocativi (Mes- saggi in bottiglia, Dimensioni altre, Arpe fatate, Per le vie del mondo) suggeriscono un insieme di tematiche armoniz- zate fra di loro che guidano a poche linee portanti, dove la montagna direttamente o indirettamente gioca il ruolo di protagonista. È una montagna certamente viva e palpitante, una presenza discreta o ingombrante, vissuta in prima per- sona attraverso un alpinismo e un escursionismo (perché chiamarlo trekking, come è moda ormai diffusa?) di alto livello; è una montagna dove il lirismo talora onirico delle sempre arricchenti citazioni letterarie, che scaturiscono da

un umanesimo profondo e che si stempera nelle emozioni di albe, tramonti, contrapposizioni cromatiche, si alterna al realismo del rapporto uomo-montagna; è un rapporto che ha sostituito, almeno sulle Alpi, la secolare spaventosa fa- tica della sopravvivenza con l’attuale drammaticamente di- lagante, per ripetere le parole dell’Autore, “omologazione consumistica”.

La varietà delle esperienze dirette dell’autore, i riferi- menti autobiografici (che si tratti di una camminata solita- ria in Valsesia, un’ascensione sulle Ande Peruviane, un’escursione invernale con gli amici del CAI, la scalata del Monte Bianco o un incontro con un pastore della Valle Cervo), le riflessioni sull’essenza dell’alpinismo e sulla sua evoluzione (o involuzione? l’alpinista: uno che ascende ri- cercando o uno che evade fuggendo?), tutto concorre a creare un quadro unificante della montagna, che diventa e si porge come metafora della vita e delle sue stagioni, non- ché dei suoi sistematici dubbi e problemi. Forse ciò che più resta di arricchente dalla lettura del libro sono però gli in- terrogativi non sempre evidenziati che ne scaturiscono e che riguardano gli eterni dilemmi sui rapporti fra uomo e natura e fra uomo e uomo.

In particolare la domanda lacerante espressa o taciuta nei vari capitoli è sempre la stessa, la domanda che molti ap- passionati di montagna si pongono costantemente ad ogni uscita e ad ogni ritorno: è questa la montagna che vo- gliamo? La montagna ridotta ad una affollatissima elegante periferia urbana, dove l’inquinamento raggiunge e spesso supera per qualche settimana i livelli della città e dove l’unica differenza è data dall’incombere delle cime che cir- condano l’abitato, una montagna dove la presenza antro- pica autoctona debba limitarsi alla musealizzazione di baite ridenti e prati fioriti, senza tuttavia il puzzo del letame. Il

tutto spesso in acuto contrasto con valli vicine dove regna un silenzio desolato derivante dall’abbandono e dallo spo- polamento. È questo l’alpinismo che vogliamo? Un alpini- smo (usiamo questo termine nel suo senso più ampio e on- nicomprensivo) gestito dalla deificazione della velocità, dal tecnicismo esasperato e dalla spettacolarizzazione portata all’estremo? Da qui il dubbio che spesso pervade chi ha de- dicato una parte a volte preponderante della propria vita a guidare quante più persone possibile lungo i sentieri, verso le cime, nella convinzione (errata?) che la semplice frequen- tazione della montagna portasse ad una sorta di autoeduca- zione e che l’incremento numerico dei frequentatori signifi- casse automaticamente una crescita della conoscenza e della conseguente conservazione dell’ambiente montano.

È dunque mancata la capacità educativa da parte di chi per scelta o per appartenenza associativa ha contribuito alla divulgazione del fascino della montagna? Sarebbe stato più appagante non calarsi nel ruolo di apostoli delle cime e mantenere la montagna il più possibile solitaria e “aristo- cratica”, montagna per pochi e non per tutti? Una Monta- gna quindi che diventa specchio e guida di una interiorità, che diventa arricchimento, che diventa filosofia di vita?

Rileggendo queste frasi sorge spontanea una considera- zione, che acuisce ancora di più gli interrogativi sopra pro- posti: sono forse queste le parole e le riflessioni di chi per età anagrafica non è più in sintonia con i sempre più veloci ritmi evolutivi di ciò che gli sta intorno? Tutto questo acui- sce il dilemma e porta ad altri pressanti interrogativi: chi è titolato a farsi garante della scelta e della decisione su quale sia la montagna “migliore”, dove si smorzino le contrappo- sizioni e le contraddizioni fra benessere e povertà, valoriz- zazione e sfruttamento? Il cittadino o il montanaro? L’al- pinista o lo sciatore? L’ambientalista o il banchiere o il

giornalista o l’influencer? Solitamente si risponde a questi interrogativi sottolineando la necessità di un non meglio definito “equilibrio” fra conservazione dell’ambiente e svi- luppo economico, tutto nel nome di una “sostenibilità” al- trettanto indefinita. I risultati finora raggiunti nel concre- tizzare questo “equilibrio”, non solo in ambito montano e non solo in età preCovid, non lasciano molto spazio all’ot- timismo, non rendono molto fiduciosi che l’homo sapiens (quanto appare poco adatta questa aggettivazione!) riesca in breve ad invertire le tendenze di questo periodo geolo- gico che ormai unanimemente viene definito Antropocene. Da questa sorta di “pessimismo cosmico” dove “si annega” il pensiero, l’Autore sembra tuttavia ricavare barlumi di luce e schegge di speranza che proprio dalla Montagna prendono vigore, nella consapevolezza che “oggi più che mai abbiamo bisogno di metamorfosi e rinascite per cre- dere ancora nell’uomo e nella civiltà”. Consapevolezza che ci sentiamo di condividere pienamente.

Claudio Smiraglia

Claudio Smiraglia, professore ordinario fuori ruolo di Geografia fi- sica presso l’Università degli Studi di Milano, si è dedicato allo stu- dio dell’evoluzione dell’alta montagna in particolare al glacialismo e ai rapporti con le variazioni climatiche, temi sui quali ha pubblicato oltre 300 lavori scientifici e numerosi testi divulgativi. Ha compiuto e diretto missioni scientifiche nelle zone glaciali dei vari continenti, comprese le Ande, l’Alaska, l’Africa, le alte catene dell’Asia (Kara- korum e Himalaya) e l’Antartide, in quest’ultimo sito ha partecipato a 4 missioni nazionali PNRA ed è stato coordinatore scientifico di 2 missioni. È stato presidente del Comitato Scientifico del Club Alpino Italiano e del Comitato Glaciologico Italiano. Nel 2011 ha ricevuta la Laurea Honoris Causa in Geografia Fisica dall’Università di Bu- carest (Romania).

INTRODUZIONE

“Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce” Anonimo

È questa la seconda pubblicazione che raccoglie i miei scritti personali dedicati al grande alveo delle montagne, dei viaggi, delle avventure. Scritti che temporalmente oc- cupano gli anni che all’incirca vanno dal 1970 al 2010. La prima risale all’autunno 2008 e porta come titolo La volpe, gli stambecchi e l’ermellino, con sottotitolo Fondo Escur- sionismo di ricerca, ovvero esperienze alla scoperta delle “Terre Alte” nel selvaggio inverno alpino. Questa volta la titolazione è più impegnativa volendo esprimere la visita- zione dei luoghi – geografici, dell’anima, dello spirito – come attività discendente dalle energie della mente, impor- tante condizione per cui si possa parlare di libertà interiore nella scelta delle dimensioni itineranti e degli obiettivi umani sottesi, altro elemento – quest’ultimo – essenziale per una crescita qualitativa.

La mente e i luoghi vuole valorizzare la facoltà umana del pensiero, la noesis degli antichi greci, il nome dell’azione del verbo pensare, oggi sciaguratamente scarseggiante ne- gli individui d’una società che al libero pensatore preferi- sce e cerca d’imporre l’automa consumatore.

La pubblicazione – sotto forma prevalentemente d’arti- coli di riflessione, brevi saggi di ricerca e qualche volta anche di narrazione di eventi – si suddivide in quattro

parti: Messaggi in bottiglia (I), Dimensioni altre (II), Arpe fatate (III), Per le vie del mondo (IV), tutte suggestioni che rispecchiano una visione lirica e conoscitiva allo stesso tempo, frutto di decenni di frequentazioni montane e altre, effettuate per passione alla ricerca di incontri, ami- cizie, momenti di vita intensi e significativi, finestre di solidarietà umana. Il bilancio è per me altamente positivo in termini di arricchimento generale dello spessore esisten- ziale e della gamma emotiva.

Nella lettura degli scritti qui proposti confido sulla cle- menza del lettore e in una sua riflessione partecipata, se- condo lo spirito del pensiero espresso dal celebre medico svizzero rinascimentale Paracelso: “Chi non ama niente, non sa niente”. Per quanto riguarda la montagna in sé, con il trascorrere degli anni, apprezzo sempre di più il linguag- gio comunicativo e simbolico dei suoi elementi: una le- zione di vita rispetto all’aridità e alla robotizzazione ‘at- letico-agonistica’ delle tendenze odierne.

L’Autore