Pier Carlo Lava – Social Media Manager 

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«Vietato piangere», tra pregiudizi ed educazioni inappropriate.

Alcuni di noi sono cresciuti con la errata convinzione, tramandata da contesti famigliari, educativi e sociali, che il pianto sia un modo per comunicare il dolore, usato da persone fragili, insicure, bisognose di sostegno e che andrebbe vissuto il più privatamente possibile.

In realtà qualunque emozione, se vissuta intensamente, può essere comunicata attraverso le lacrime e non solamente quelle considerate negative. 

Piangere dunque, qualunque ne sia la causa, è un modo per comunicare con sé e con gli altri uno stato d’animo emergente che non andrebbe giudicato o negato.

È una modalità con cui si consapevolizza un vissuto, lo si accoglie lasciandoci guidare dalla parte più profonda di noi, quella che dovrebbe potersi sentire libera dai condizionamenti e che decide, attraverso un’azione «speciale», di mostrarsi.

Se per non farlo, siamo costretti a indossare maschere in modo da non far trapelare all’esterno ciò che proviamo, il rapporto che abbiamo con lo sfogare le nostre emozioni può crearci difficoltà anche solo nell’assistere chi, queste emozioni, non le reprime. 

Per questo essere in presenza di qualcuno che piange può creare disagio.

Non si sa cosa fare! Non si trovano le parole giuste per consolare! Si vorrebbero suggerire soluzioni per cancellare le lacrime dagli occhi e ci si sente coinvolti, inadeguati, impotenti, persino irritati, finendo col fare o col dire quello che sarebbe meglio evitare di dire.

Per molto tempo inoltre, si è «insegnato» che le persone forti non dovrebbero piangere.

Così come di fronte a eventi luttuosi si è sentito spesso chiedere ai bambini o agli adolescenti, ma certamente anche agli adulti, di essere forti, di non farsi vedere piangere, perchè questo sarebbe stato di aiuto alle persone coinvolte.

Richieste invasive e disfunzionali che non tengono conto della limitazione imposta nell’espressione di un dolore.

Se poi a questo aggiunge il fatto che piangere, darsi il permesso di farlo, è un modo per prendersi cura di noi, di quella parte sofferente che nessuno riesce a consolare, si comprende l’abnorme emotivo messo a tacere.

Impariamo allora a non «temere» le lacrime e chi le esprime.

E se non sappiamo cosa dire, stiamo in silenzio che è «la forma più alta della parola.»

Mariangela Ciceri

Sono psicologa clinica e forense. Come clinica mi occupo di consulenza e supporto psicologico sia individuale che di coppia, di psicodiagnostica, di sostegno alla genitorialità, di psico-geriatria, di orientamento scolastico e professionale. Come libera professionista in ambito giuridico e forense il mio ruolo è quello di consulente nella valutazione del danno psichico dovuto ad eventi traumatici, di valutazione delle competenze genitoriali in caso di separazione e divorzio, di mediazione familiare. Conduco inoltre laboratori di comunicazione, psicologia sociale, uso della scrittura come strumento di consapevolezza e problem solving, al fine di facilitare il superamento di criticità emotive.

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