Il sogno di Fatima (racconto di Eduardo Terrana)
La giornata ormai si apprestava a vestire l’abito della sera. Fatima stava là, sul molo, immobile, con lo sguardo a scrutare lontano, assente dalla realtà intorno.
Un micetto, poco lontano, faceva le fusa ad una gattina; un barcone scivolava silenzioso sulle acque piatte del mare; un gruppo di ragazzi calciava sulla sabbia un pallone che ormai non rimbalzava più, sembrava anzi borbottasse, assumendo strane forme ad ogni colpo impietoso dei ragazzi che ridevano divertiti delle sue smorfie.
Fatima non sembrava avvertire quelle voci, non sembrava interessarsi al paesaggio, guardava sempre lontano, con il naso all’insù, sempre immobile, lo sguardo fermo, fisso sullo stesso punto, insensibile allo stimolo della luce del giorno ormai morente.
Un cagnolino, grondante acqua, Le si avvicina e Le lecca dolcemente la gamba.
Fatima non accenna reazione, solo un lento, lentissimo movimento del petto, cadenzato, regolare, rivela un leggero, leggerissimo respiro.
“Ragazza stai male? “, azzarda compostamente un signore. La domanda cade nel vuoto.
Una leggera brezza Le scompone i capelli, color frumento alla mietitura.
E i minuti scorrono e le ore scorrono.
“Ma guarda quella ragazza “, dice tra sé e sé una barbona, che, seduta su un sasso sotto il ponte, ormai divenuta la sua dimora, ordina i suoi panni dentro una borsa di plastica, “sono ore che se ne sta là ferma senza dire o fare niente. Davvero strana!”.
Le si avvicina, più incuriosita che preoccupata. La guarda, La scuote, e attende la reazione. Niente, per qualche secondo niente.
“Ragazza?”, insiste la donna, che continua nel suo scuotimento, e, ad un tratto, la ragazza, come d’incanto, accennando segni di vita, farfuglia balbettando: “Dove sono?”. Appare stordita, come svegliatasi da un lungo torpore.
“Dove sei? “, replica la barbona, “ma da dove vieni, chi sei, come ti chiami?”.
La ragazza si tappa le orecchie come disturbata dal rumore delle parole, più che infastidita.
Un leggero movimento dell’occhio, appena angolato a quaranta gradi, sfiora lo sguardo interrogativo e preoccupato dell’anziana signora che ancora la fissa con pietosa circospezione, ma solo per un breve attimo.
“Mi chiamo Fatima … dove mi trovo?”.
La sua voce è metallica, non tradisce emozione.
“Fatima! ma da dove vieni? guarda come sei conciata; bisogna lavare e medicare queste ferite”.
“Sono rumena. I miei genitori sono cattolici e devoti alla Madonna, perciò mi hanno chiamato Fatima”.
“E come sei finita qui? chi ti ha conciato in questo modo? certo non hai una bella cera. E’ da un po’ che ti osservo, sai, indecisa sul da fare, mi sembravi morta!”.
“Non so, non ricordo bene, ho solo un gran male qui alla testa, ricordo solo una grande barca, tante persone e poi …”.
“Va bene! adesso non ti stancare, il resto me lo racconterai più tardi. Vieni, ti ospito a casa mia … casa mia … si fa per dire. Vedi, è quella la mia casa, quel ponte che vedi laggiù in fondo, dove il fiume abbraccia il mare; io ci sto bene, sai, non mi disturba nessuno, qualcuno mi porta qualcosa da mangiare, e poi ho tanti amici … gatti, cani, pure gli uccellini si avvicinano e prendono le molliche dalla mia mano e si fanno accarezzare. Vieni! Ce la fai a camminare? Vuoi che ti aiuti? Ho del pane fresco, del formaggio e anche acqua fresca, che prendo dalla sorgente ai piedi di quel monte che vedi là in fondo a poco più di cinquecento metri”.
Fatima si alza, un po’a fatica, accusa dolore ad una coscia e ad una spalla, ma ce la fa.
Con le mani provvede a togliere il terriccio umido che Le si era attaccato ai pantaloni.
“Dai, andiamo “, fa la barbona. Fatima la segue.
Non si regge bene in equilibrio. Si lamenta. Cerca un appiglio e … provvidenziale trova il braccio della barbona.
“Ho male “, dice, “e … mi muore la gamba. Proprio non ce la faccio a stare dritta e a camminare bene”.
“Coraggio, dai, sono pochi metri, poi riposerai”.
Il sole, ormai al tramonto, salutava all’orizzonte con il suo mantello rosso.
“Io sono la terza di cinque figli”, dice Fatima, mentre sorseggia il tè caldo che Le è stato offerto.
La barbona la guarda sorpresa ed incredula. Fatima Le sta parlando, resta zitta, frena l’impulso di fare domande ed ascolta, adocchiando di tanto in tanto la ragazza che fissa la tazza che stringe con tutte e due le mani e sorseggia lentamente.
La sua voce adesso suona più umana.
“Mio padre fa il carpentiere e mia madre la casalinga”.
“Ma tu ti esprimi bene in italiano”, osserva la barbona, mentre sfila da un pacchetto di sigarette la sua MS preferita.
“Si! Mio padre è italiano, mia madre è rumena, io ho imparato da lui”.
Fatima parla con tranquillità, mentre il suo indice gioca con l’orlo della tazza.
“Grazie non fumo”, dice rivolta alla barbona che Le offre una sigaretta.
Parla in modo aggraziato.
“Vennero a casa mia un pomeriggio tre signori. Erano ben vestiti e davano fiducia.
- Sua figlia non lavora, vero signora? – chiesero a mia madre.
- No, non ancora – rispose, piuttosto sorpresa , mia madre.
- Signora- continuò il più anziano dei tre, -noi possiamo dare una mano alla sua famiglia e trovare un’occupazione a sua figlia, però all’estero, in Italia per esempio, dove potrebbe fare la babysitter o lavorare, alla pari, come assistente familiare o trovare sistemazione nell’area dei servizi-
“Sarebbe una fortuna”, rispose mia madre, -in casa mia lavora solo mio marito e non è facile tirare avanti bene e garantire qualcosa a cinque figli, tutti ormai in età adulta o quasi-.
-La fortuna… fa bene a invocare la fortuna- rimarcò un altro dei tre -anche perché se lei accetta l’offerta può subito beneficiare di una somma quale anticipo del guadagno che la ragazza farà. Però va detto chiaramente che l’impegno viene sottoscritto per cinque anni e che per tutto questo periodo la ragazza non avrà né modo né tempo di tornare in famiglia, anche per una breve visita.
Quelle parole raggelarono mia madre che, allargando le braccia, si rivolse a me con queste parole -figlia mia, io non posso decidere per te, sei già grande per prendere da sola certe decisioni. Sappi che qualunque sarà la scelta che farai noi tutti saremo con te.
Mi trovai di botto davanti ad una situazione che stimavo più grande di me.
Cosa fare, dire sì lasciare i miei cari, dire no e peccare d’egoismo, dimostrando insensibilità. E mentre l’animo e la mente erano tormentati da così gravosi pensieri, notai che il terzo uomo, che sino a quel momento non aveva aperto bocca, mi guardava, con una smorfia all’angolo sinistro della bocca che si smorzava in un ghigno sottile, mentre tra le mani teneva una mazzetta di dollari.
-Cosa ci dice signora…accetta? Vede, sono mille dollari per lei e la sua famiglia. E un acconto, beninteso- Un suono flebile uscì dalla mia gola, quasi impercettibile: accetto! però non fu recepito; accetto! gridai più forte, richiamando l’attenzione di tutti.
-Brava ragazza, hai buon senso- fece il primo dei tre.
-Figlia mia ci spezza il cuore questa tua decisione, ma sia fatta la tua volontà- disse con tono rassegnato mia madre.
-Cento, duecento trecento …- le mani dell’uomo, che non aveva perso il suo ghigno ironico e beffardo mentre continuava a fissarmi, sembravano scivolare sulle banconote, – …ottocento, novecento e mille! Ecco signora, sono mille dollari, firmi qui, e anche tu, ragazza, firma qui sotto; sa, sono formalità che devono essere rispettate, ma niente d’importante, stiano tranquille. Bene, ripasseremo fra tre giorni a prendere la ragazza. S’intende che le spese del viaggio restano a carico della nostra agenzia.
Se ne andarono, lasciando me e mia madre sorprese, incredule e senza parola, con mille dollari in mano. Ahimè! grave, gravissimo non subodorare nessun inganno.
I tre ripassarono puntuali dopo tre giorni ed io … salutai col cuore in frantumi i miei familiari. Una macchina nera fagocitò presto i nostri corpi e, veloce, prese il via. Ecco, avvenne tutto così “.
Fatima si concesse una pausa tra i singhiozzi.
La barbona La guardò commossa, in silenzio, “povera ragazza”, pensò, “quante deve averne passate ”.
Cominciava a rinfrescare allora prese un golfino e glielo poggiò sulle spalle perché si riparasse dall’umidità.
“Adesso manda giù qualcosa di caldo, certo non è il pranzo del re, ma un brodino caldo e del pane con formaggio e prosciutto penso possano rifocillarti un po’”.
“Dado Knorr…anche in Romania si trova, ma costa tanto, tutto quello che arriva dall’occidente costa tanto…”
“Prendi e manda giù”.
“Grazie ”, e Fatima prese la tazza col brodino caldo, che trattenne un po’ tra le mani prima di iniziare a berne il contenuto, quasi provando piacere a sentirne la sensazione di tepore che emanava.
Un lungo sospiro e Fatima riprese il racconto della sua storia.
“Avevamo percorso oltre tre ore di viaggio, quando la macchina si fermò. Mi fecero scendere con toni bruschi e modi sbrigativi. Mi ritrovai in mezzo al bosco. Da una baracca di legno venne fuori un tale che, dopo avermi guardato a lungo e squadrato a fondo, rivolto ai miei accompagnatori disse: – Bene! Sarete pagati come pattuito; sistemate la ragazza dentro con le altre e poi potete andare. Ci rivediamo al consueto appuntamento fra quattro giorni.
Io non compresi cosa stesse succedendo, ma fui percorsa tutta da brividi. Dove ero? Cosa voleva quel tizio da me? Perché mi trovavo in mezzo al bosco? Dubbi atroci nella testa, angoscia e paura nell’animo e nel cuore!
Erano oltre venti le ragazze dentro la baracca, piccola per tante persone.
Io mi sedetti in un angolo accanto a Elina, polacca. Portava il nome scritto su un cartello appeso al collo.
-Ecco metti anche tu questa collana – e così dicendo, il tizio, che mi aveva portata dentro, mi porse un cartello che portava scritto il mio nome. Lo misi al collo e mi sentii un cucciolo al guinzaglio.
-Ascoltate bene e fate attenzione – ci apostrofò con un vocione grosso il tale della baracca, che pareva essere il capo – Le vostre famiglie vi hanno venduto a noi, quindi voi lavorerete per noi. Farete esattamente tutto quello che vi sarà chiesto di fare. Sappiate che se farete le furbe o tenterete di scappare o di ribellarvi ci andranno di mezzo i vostri parenti. Vi conviene dunque essere brave ed obbedienti. E poi vedrete che quanto vi sarà chiesto in fondo non sarà pesante anzi vi darà diletto. Comunque, al momento debito, saprete tutto. Adesso riposate, ci fermeremo qui solo qualche giorno.
Fu una notte da incubo quella notte!
Le parole dell’uomo mi avevano proprio scossa. -Le vostre famiglie vi hanno venduto a noi- ma cosa volevano significare quelle parole e poi quelle minacce… Il sonno proprio non voleva venire, un turbinio di pensieri nella mente: dove ci avrebbero portato? cosa ci avrebbero fatto fare? come e dove avremmo vissuto? Una sensazione di freddo prese il mio corpo, quando ad un tratto una mano… mi girai di scatto e la mia vicina, Elina, con l’indice sul naso, come a dire zitta, non fiatare -avvicinati-, mi disse , – parliamo a bassissima voce, perché se ci scoprono a parlare non so cosa potrebbero farci-.
Ed Elina mi raccontò la sua storia, tra lacrime e singhiozzi.
Ebbi conferma dalle sue parole, di essere stata ingannata.
Quante ore, quanti giorni, dentro quella baracca! Non so dire, anche perché ci tenevano al buio, ma arrivò il momento che l’uomo col vocione entrò ed in modo sbrigativo ci comunicò che era arrivato il momento di andare via. Dove? Nulla trapelò dalla sua bocca.
Ci fecero salire tutte su due camionette e via. Facemmo senz’altro molta strada perché, quando ci fermammo e ci fecero scendere dalle camionette, ci trovammo che era già buio in un punto sconosciuto, a poco meno di cento metri dal mare.
C’erano i due della baracca e altre tre persone. Parlottarono tra di loro, ma noi non sentimmo cosa dicessero. Poi ci imbarcarono su un grosso gommone che presto si allontanò con il suo carico umano.
Il viaggio fu duro, rischiammo anche di morire, il gommone, strapieno, per ben due volte rischiò di capovolgersi sotto l’urto delle onde del mare agitato. – In Italia troverai lavoro e potrai aiutare la tua famiglia – mi avevano detto.
Non dovevo accettare quella proposta ingannevole. Ma in Romania la vita è proprio dura e non ci sono tante prospettive per i giovani.
Sognavo un luogo dove sentirmi finalmente libera, dove poter guardare intorno senza paura e andar tra la gente sentendomi uguale agli altri. Sognavo un lavoro onesto, magari accudire dei bambini o anche degli anziani, sentirmi così utile e realizzata, felice di poter donare un po’ dell’amore che mi sentivo dentro. Sognavo anche di poter fare lo sport che mi piaceva tanto: il nuoto, e sfidare il mare dall’una all’altra sponda dell’Adriatico. Sognavo…si, sognavo, invece …a momenti mi uccidevano quei maledetti! Appena avvistata la guardia costiera, temendo di essere stati scoperti, volevano buttarci tutti in acqua.
Poi il buio ci ha favorito e siamo stati sbarcati in una zona isolata, dove erano ad attenderci diverse persone.
Io e altre tre ragazze siamo state prese in consegna da due signori che ci hanno portato a casa loro. Sono stati franchi e brutali. -Domani iniziate, dovrete intrattenere delle persone importanti. Dovrete essere carine e gentili. Quello che vi sarà pagato lo dovrete consegnare tutto. Provvederemo noi alle vostre necessità –
Ho capito allora che non avrei fatto il lavoro che mi era stato detto di fare, e cioè lavorare come babysitter. Quegli uomini senza scrupoli ci avevano effettivamente comprato e volevano che facessimo le prostitute.
La stessa notte sono scappata. Il momento si è presentato quando uno dei due mi ha chiamata e mi ha portata con sé in un locale attiguo. Ha manifesto subito le sue intenzioni.
Sono stata al gioco. Beveva e mi toccava. Fai la brava, diceva, e intanto beveva e mi palpava. Poi ha tentato di prendermi con forza, io però l’ho colpito con un vaso di vetro che era a portata di mano. Sono uscita fuori e mi sono messa a correre. Ho corso tanto, girandomi spesso per paura di essere inseguita. Mi sono ritrovata così sola a camminare senza sapere dove andavo sino a quando le forze mi sono venute meno e…devo essere svenuta proprio nel punto dove mi hai trovata tu.
Adesso non so che fare, mi sento smarrita, non ho soldi, non ho casa e mi trovo in terra straniera dove non conosco nessuno”.
“Dai non disperare”, tentò di rincuorarla la barbona, visibilmente toccata da quel racconto, “troverai una soluzione, intanto potresti rivolgerti al Centro Accoglienza dove potrai trovare da dormire ed un pasto caldo e soprattutto non dovrai temere di essere scoperta come clandestina. Non è detto che ti rimpatrino; una volta regolarizzata la tua posizione ti si potrebbe presentare l’occasione di un lavoro onesto e tutto cambierebbe in meglio per te”.
“Si! forse potrebbe andare così! deve andare bene così, perché io al mio paese, a casa dei miei non ci torno, non posso tornarci. Grazie! sei stata gentile e ospitale. Ti sono grata di tutto.”
Fatima riprese a sorseggiare sino all’ultima goccia il suo tè, quando in lontananza sentirono il suono di una sirena.
“Qualcuno deve averti segnalata alla polizia”, borbottò la barbona rivolta a Fatima.
La macchina si fermò proprio a pochi passi dal molo dove, sino a poco prima, il corpo di Fatima giaceva apparentemente immobile.
Ne scesero quattro poliziotti. Fecero un rapido giro intorno, poi si diressero verso il ponte.
“Ciao Rachele, sei in compagnia stasera! Sai di una ragazza che sarebbe stata vista sul molo in condizioni critiche?”
Rachele stava per rispondere, quando Fatima si alzò e disse “Sono io quella ragazza”.
“Venga con noi signorina, non abbia timore, stia tranquilla”.
Fatima si alzò, porse con delicatezza la tazza vuota a Rachele e si accodò silenziosa ai quattro che si diressero verso la macchina. Muoveva i passi lentamente, teneva il capo girato all’indietro, con gli occhi rivolse un ultimo amorevole e riconoscente saluto alla donna che ricambiò con un sorriso affettuoso e un largo cenno di mano.
Il gracidare notturno delle ranocchie scriveva la parola fine a un altro giorno e ad un’altra storia.
Eduardo Terrana
Giornalista- saggista-conferenziere internazionale su diritti umani e pace.
Diritti letterari riservati

Pubblicato anche su Verso – spazio letterario indipendente