N.B.: Se non avete voglia di leggerla tutta, vi consiglio almeno l’ultima parte dove è citato un pensiero della scrittrice perché possiate apprezzare almeno la sua scrittura insolita in un tema che è sicuramente non allegro ma che è raccontato in una forma a dir poco inedita…

Circa 17 anni fa lessi il primo libro di Rosa Matteucci e non ebbi alcun dubbio che era nata una scrittrice di razza. E con il passare degli anni questa scrittrice non mi mai deluso. C’è addirittura un suo libro che, già solo per il titolo che porta, merita di essere considerato un piccolo capolavoro: “ Libera la Karenina che è in te”.
Nel suo settimo libro, “Costellazione familiare”, la scrittrice si racconta e, nello stesso tempo, narra del rapporto vissuto con la madre.
La Casa Editrice è l’Adelphi che scelse la copertina migliore che potesse scegliere: la riproduzione di un quadro di Freund “Ragazza con foglie”, dove appare ritratto il volto di una ragazza. Quel ritratto è già la storia del libro: in teoria, per paradosso, la vicenda narrata nel libro è tutta lì e la si può leggere negli occhi sgomenti della ragazza, spaventati, increduli di quello che le appare davanti, occhi che non osano credere a quello che sembrano vedere e in alto, quasi a toccarle la testa le foglie di un albero che ne indicano quasi la residenza villica. Ed è lì, nella campagna dell’Orvietano che ha vissuto la protagonista del romanzo, per la maggior parte del tempo con sua madre Raffaella, bellissima, aristocratica, amante dei cani e di tutto quello che sfuggiva a una vita che all’epoca era considerata normale: Il matrimonio, la prole, e ogni cosa che ne potesse conseguire. Adempiuto ai primi doveri che le erano stati inculcati: sposatasi e messa al mondo la figlia che, chiamata Fran, fu subito mandata a vivere a balia dai nonni, perché non disturbasse la sua vita di bella contemplatrice dall’esistenza comoda, in compagnia dei suoi cani adorati, per i quali preparava lauti pranzi a base di carne, e un marito molto meno amato,che un giorno muore in un incidente d’auto, insieme a un cane che lo accompagnava e che sarà veramente quello più compianto. Gli svaghi di Raffaella erano le letture di poesie di Rilke, gli irrinunciabili cocktail e soprattutto il cercare di evitare ogni smanceria affettiva soprattutto nei confronti della seconda figlia, nata per un errore, dopo nove anni dalla prima di cui poco sapeva. E questa seconda figlia, narratrice della storia che abbiamo letto, non si capacitava di quanto poco amore materno ricevesse e viveva essa stessa alla maniera dei cani che la madre allevava come figlioli. Una figlia smunta, che non mangiava se non mini porzioni di cibo poco allettante, pane secco e qualche avanzo di cibo dei cani e subiva il consiglio materno di ordinare il filetto se qualcuno l’avesse portata al ristorante, visto che era anemica. D’altra parte il vero nutrimento dell’uomo, quello che conta veramente, è la cultura: cosa potrebbe mai avere di così importante un pezzo di carne di fronte a una poesia di Rilke?
Il romanzo inizia con la protagonista adulta e orfana a Genova, che è la città dove ora vive, mentre si imbatte in un foglio pubblicitario che parla delle costellazioni familiari, in questo periodo molto di moda, attraverso le quali i gruppi che ne fanno parte possono mettersi in contatto astrale con i loro congiunti defunti, per sentire come stavano, cosa pensassero di loro e cosa loro stessi potessero fare per farli stare meglio qualora fossero in condizione di sofferenza. E la nostra si ritrova quindi in una congrega di persone, alcune parlanti, altre mute, che vagano in una grande sala alla ricerca dei loro congiunti o di figure similari che dichiaravano essere stati più o meno lontani parenti. Il tutto guidato da un maestro dall’aria da ciarlatano, tale Renato Work.
Inizia così, in flashback, il vissuto degli ultimi anni di Raffaella che vive in campagna con la figlia minore che, oltre ad accontentare i capricci della madre, ormai mancante di mezzo polmone e con grossi problemi respiratori, ma che non vuole rinunciare al tipo di vita che ha sempre vissuto e quindi, cocktail, riletture delle “Elegie Duinesi” e di altre opere di scrittori contemporanei di Rilke, vezzeggiamenti a Leporì, l’unico cane rimastole in vita.
E il romanzo procura subito un senso di apprensione in chi legge, nel momento in cui la scrittrice, anche nel narrare i fatti più dolorosi, non abbandona uno stile che è suo proprio, fatto di ironia vicina allo sberleffo, di dolore vero camuffato dalla rabbia e viceversa, di capacità di comprendere il lato grottesco di ogni situazione che possa essere sgradevole se non addirittura pietosa. Sì, perché arriva il momento in cui sarà lei a doversi occupare della madre, che peraltro si è sempre disinteressata a lei, e la frase più ricorrente che sapeva pronunciare era “ ricordati che sei una tedesca”. E siccome la donna è ormai allo stremo, entra ed esce dall’ospedale di Orvieto, soffrendo di una infezione polmonare che sta colpendo anche l’unico che le era rimasto. La donna vorrebbe morire e la figlia non sarebbe del tutto contraria all’eutanasia, però ciò non è possibile. Dopo vari ricoveri nell’ospedale di Orvieto, assistita sempre dalla figlia, e dopo un aggravamento per il quale ha bisogno di essere intubata in una struttura che le dia continuamente ossigeno e le curi meglio l’infezione, la malata viene trasferita a Trieste, dove vive la figlia maggiore e c’è un ospedale meglio attrezzato. La figlia minore, che ormai può fare ben poco per lei, rimane a occuparsi in campagna dell’unico cane rimasto e con il quale ormai lei sembra vivere in simbiosi, tuttavia deve correre spesso al capezzale della madre, quasi sempre sul punto di soccombere alla malattia, e non potrà occuparsi di Leporì per il quale si renderà necessario l’impiego di una badante.
Non racconterò tutto il romanzo, quand’anche sia prevedibile il finale. D’altra parte la fine viene fatta intendere subito fin dalle prime pagine dall’autrice stessa, essendo la morte di un madre, con tutto quello che comporta. Il romanzo non racconta una storia destinata a essere “scoperta” un po’ alla volta, a mano a mano che si procede nella lettura, ma è il racconto di come è stata gestita fino alla morte una malattia. Tanto che inizia con quell’”oltre la morte fisica!” costituito dalle’esperienza delle costellazioni planetarie.
Solitamente cito qualche pensiero particolarmente importante e rivelatore dei romanzi dei quali amo scrivere. In questo caso dovrei citare il libro per intero, tanto la fantasia della scrittrice porta il lettore lontano da ogni senso della realtà, rendendo il libro quasi un opera neo-surreale. Non posso tuttavia fare a meno, di citare il punto in cui la Matteucci, pur raccontando con dolore il lavorio mortale dei batteri che si sono impossessati della parte sana del polmone materno, così li descrive (la citazione è lunga, ma val la pena leggerla, per dare anche un’idea del tipo di scrittura adottato in genere dalla scrittrice):
“Soffre, mia madre, di una severa insufficienza respiratoria. L’ossigeno gratuitamente disponibile nell’atmosfera non le basta mai, e quel poco che elemosina non è sufficiente a tenerla in vita. Nel segreto, delle cavità bronchiali e degli alveoli, viscide triremi cariche di catarro si affrontano in battaglie navali fino a soffocarla. La provvidenziale tosse le è inibita. Le schiatte di batteri acquartierate nel polmone la divorano, approntando confortevoli salottini ove trascorrono liete serate radunate in gruppi bisettimanali dell’anonima alcolisti Aperol-dipendenti. Talora dentro i teneri anfratti scempiati dal rosicchio , fra appiccicose secrezioni umorali , nel calduccio di mucose infiammate, si officiano matrimoni, si celebrano nascite, si festeggiano battesimi. Il solingo muscolo cardiaco è obbligato da subito a vicariare il polmone assediato, con innegabili effetti collaterali quasi il ristagno dei liquidi corporei negli arti inferiori del corpo. La danza macabra dei cristalli di acido urico ci introduce nel regno dell’idropisia. Al posto di piedi ben modellati da statua neoclassica, mia madre si troverà due turgide, oscene ciriole dalla sottile crosta lucida. La pelle è un velo ragnateloso. Con quei piedacci non può restare all’ospedale di Orvieto, dove mio padre fu lasciato morire perché aveva settantaquattro anni ed era domenica sera.”
Come si può descrivere l’andamento di un male che progredisce se non si fa ricorso, avendola o cercandola in ogni modo, a un genere di fantasia sfrenata e volutamente distaccata nel raccontarlo grottescamente per anestetizzare il dolore provato?
Un libro che consiglio alle persone che posseggono una buona dose di sensibilità ma che sappiano capire anche che non si rivive o racconta un dolore, per grande possa essere stato, senza ricorrere a una punta di umorismo che ne ricordi un momento grottesco o un piccolo intervallo che abbia portato quella punta di sorriso che lo ha, sia pur momentaneamente, alleviato.

(Adelphi Edizioni, Collana Fabula, pag. 167, 1a ediz.: dicembre 2015, prezzo € 16,00. Acquisto online direttamente presso la Casa editrice: servizio clienti all’indirizzo e-mail ordini@adelphi.it. Costo € 15,20 (spese postali gratuite). Su Ibis online e su Amazon.it: € 15,20 + spese di spedizione). Su Amazon prime € 15,20 spese postali gratuite.  

(Carlo Tomeo)