Racconto breve sui primi passi professionali di medico, di Riccardo Lera

Riccardo Lera

Le guardie mediche e le sostituzioni dei medici di medicina generale sono state la mia prima scuola di vita professionale. Teoricamente ero preparato. E come me, tanti altri neolaureati. Di ogni singola patologia conoscevo assai bene l’eziopatogenesi, la sintomatologia, la diagnosi differenziale, le possibili indagini necessarie e persino, ohibò, l’iniziale approccio terapeutico. Il trenta e lode di clinica medica vergato dal Professor Ponassi sul mio libretto certificava un buon bagaglio di conoscenze in modo, a mio avviso, inoppugnabile.

In pratica non sapevo un cazzo.

Ripensandoci ora, posso tranquillamente asserire che lo Stato Italiano aveva messo in mano ad una generazione di ragazzini, accademicamente ben cresciuti sul Teodori, sull’Harrison se non addirittura sull’Introzzi, una pistola ben oliata col colpo in canna pronto all’uso.

La realtà infatti era diversa. Profondamente diversa da quelle pagine accademicamente ben scritte e stampate su elegante carta patinata.

La prima notte di un turno di guardia medica la passai in casa di un paziente, un signore anziano di Serravalle, ubriaco al limite del coma etilico. Mi aveva chiamato l’amante, perché costui la minacciava. Ed effettivamente quello accusava l’altra di spillargli dei soldi, senza che la tizia gli preparasse qualcosa di buono da mangiare.

“L’è fò da mangiò ‘sta roba?” continuava a urlare l’uomo indicando schifato due fette di prosciutto cotto ancora mezze incartate. E poi facendo uno sforzo incredibile per riuscire a tenere gli occhi aperti su di me, sbraitava:

“Ma a ti, ki è k’lè ku t’a ciamò?”

Insomma, ben presto mi ritrovai a confrontarmi con un bicchiere di vino spiaccicatosi all’improvviso contro il muro a non più di dieci centimetri dalla mia faccia. Per fortuna, si sa, in gioventù i riflessi sono buoni.

Entrato per la prima volta in un ambulatorio, in sostituzione di un buon medico di campagna, il primo paziente mi chiese di estrargli un dente cariato. Immediatamente sentii un sudore freddo colarmi giù per la schiena.

“Mi scusi, ma non sarebbe meglio che si rivolgesse ad un dentista?” balbettai provando a difendermi.

“No, non ho tempo… e poi siamo ad agosto, dove vuole che lo trovi?” rispose quello impassibile.

“Ma ci vuole l’anestesia…” osai protestando.

“No. Niente anestesia. Sono allergico!”

Ero con le spalle al muro. Ruotai sconsolato lo sguardo sulla vetrinetta degli arnesi del mestiere. Là sopra, un po’ impolverato, sonnecchiava placidamente un armamentario atto ad ogni evenienza. C’era di tutto: pinze, aghi, cocker, disinfettanti, persino un forcipe per neonati. Dovevo ammetterlo: questi vecchi medici erano evidentemente pronti a fronteggiare qualsiasi emergenza. Fra cui ovviamente quelle odontoiatriche, perché l’apposita ferraglia non mancava.

La faccio breve. Trovai un bel pinzone ed estrassi quel suo dentone malato. E mentre io rimiravo fra lo stupito e il perplesso le radici di quel molare, l’uomo si alzò, si pose davanti allo specchio del lavandino, si sciacquò la dentatura con un po’ di acqua ossigenata e poi osservò soddisfatto allo specchio la gengiva richiudersi su se stessa. Poi si girò verso di me e piazzato il dito indice su di un altro dente, esclamò:

“Ma lo sa che lei è bravo? Domani vengo per farmi togliere quest’altro!!”