Il segreto del Bosco VecchioRacconto di Luciana Benotto

Di tanto in tanto dei raggi di sole polverosi penetravano attraverso il fitto bosco incipriando tutto quello che accarezzavano. Filippo osservava quel fenomeno che fin da bambino lo aveva incantato e gli infondeva un senso di placida beatitudine.

I rami, le foglie, il terriccio muscoso, le radici, scomparivano come per malia, rischiarati dalla calda luce estiva; persino Poldo, quello strano incrocio tra un dobermann e un levriero che era il suo cane, mutava il colore del mantello da marroncino a giallognolo, quando attraversava uno di quei fasci luminosi.

Ma appena si oltrepassavano, tutto ripiombava nell’ombra, nell’oscurità verde creata dal fogliame. Era quello il Bosco Vecchio. Querce centenarie, faggi, abeti, larici e lecci, popolavano quel tratto delle Alpi Marittime non troppo lontano dal mare. A poca distanza da lì, nel minuscolo paese di Fanghetto, arroccato e aggrappato ad uno sperone roccioso, abitava Filippo col suo cane e con pochi altri che si ostinavano ancora a coltivare la terra. Quel pomeriggio era andato al Bosco Vecchio in cerca di frescura, non certo di funghi, visto che ormai era da troppo tempo che le nuvole si ostinavano a non cedere alcuna goccia d’acqua. 

Foglie e rametti rinsecchiti dalla sete punteggiavano il terreno nei punti più esposti alla luce, e lo scricchiolio che facevano sotto le suole gli ricordava l’autunno che sarebbe arrivato solo un mese più tardi; chissà se avrebbe portato un po’ di refrigerio dopo quell’estate così torrida. Perso nei suoi pensieri avanzava nella boscaglia, quando vide alcuni conigli selvatici zigzagare rapidamente tra i cespugli. Poldo, che faceva avanti e indietro come di sua abitudine, era sparito alla vista, e quando gli ricomparve dinnanzi lo vide immobile, con le orecchie dritte e attente che puntava qualcosa. Un animale? 

Si avvicinò cautamente.

Nascosto dal fogliame, poté osservare un uomo che armeggiava con qualcosa… qualcosa che gli parve una bottiglia. Costui mise la mano in tasca ed estrasse un minuscolo oggetto, che pose proprio vicino al collo della bottiglia. Ma non fece in tempo a fare altro, perché all’improvviso fu afferrato e sollevato di peso, tanto da parere un fuscello. 

Filippo, incredulo, seguiva la scena con gli occhi sbarrati, mentre Poldo ringhiava. L’uomo urlava e si dibatteva, ma l’altro non mollava la presa, e la mollò solo quando si udì un cric di ossa spezzate, e quello si afflosciò a terra privo di vita. 

Due giorni più tardi la notizia del ritrovamento del cadavere fu diffusa dal telegiornale regionale ed anche dal settimanale locale. Dei boy-scout avevano rinvenuto il corpo dell’uomo che giaceva riverso tra le radici di una enorme quercia; il morto, avevano detto, aveva gli occhi sbarrati e i denti digrignati in una smorfia. Vicino a lui i carabinieri avevano trovato uno zaino contenente delle bottiglie incendiarie. Il fatto strano, commentava il cronista, era che nei pressi del cadavere non erano state rinvenute tracce dell’aggressore. E se quelle tracce erano state volutamente cancellate, poteva significare che l’assassino lo aspettava nel bosco e aveva agito a sangue freddo. Il morto non aveva documenti con sé e nessuno l’aveva mai visto prima d’allora in quella zona. Insomma, per qualche giorno la gente del posto parlò del fattaccio e poi se ne dimenticò, almeno fino a quando non si trovò un altro cadavere, sempre nel pendio dove stava il Bosco Vecchio.

Quando la notizia si seppe, Filippo andò all’unico caffè trattoria del paese per sentire i commenti. Si sedette ad uno dei tavoli con le tovaglie a quadretti rossi e ordinò un chinotto. Alcuni avventori giocavano a scopa, altri parlavano della faccenda. Rino, il proprietario, mentre preparava degli espressi diceva la sua, sostenendo che l’assassino, in fondo, aveva solo eliminato dei delinquenti. “In che altro modo si possono chiamare quelli che bruciano i boschi, gli animali e pure le case di quelli che hanno la sfortuna di abitarci nei pressi?” 

“E fanno morire anche i pompieri”. Aveva aggiunto Bruno. “Il mio amico Fulvio, lo sapete anche voi, ci ha lasciato le penne poveraccio. Lui amava veramente le piante, diceva che vanno difese perché senza il loro ossigeno, prima o poi creperemo tutti a causa dell’effetto serra”. 

“A quelli, bisognerebbe tagliare la mano con cui appiccano il fuoco”. Si intromise Gaspare. 

“Dovrebbero ardere insieme agli alberi”. Rincarò Giacomo, cui tempo addietro era stato arso un pruneto.

“E tu Filippo?” chiese l’oste, “cosa ne pensi di questi incendi?” 

“Penso che ci sia sotto qualcosa, qualcosa di grosso”.

“Che vuoi dire?”

“Voglio dire che non è un caso che in Italia quest’anno, siano divampati migliaia di incendi dolosi, perché tali sono”.

“Alla televisione qualcuno ha iniziato a parlare di racket dell’ecomafia” sottolineò Gaspare.

“Su questo non c’è da dubitarne” affermò l’oste, “però, mi piacerebbe sapere un’altra cosa”.

“Cosa?” domandò Bruno.

“Mi riferivo ai due morti trovati nel Bosco Vecchio. Chi può essere stato secondo voi?” 

A quella domanda mentre tutti i clienti del locale appuntavano gli occhi su di lui, compresi quelli che stavano giocando a carte, Filippo li abbassò.

Sguardi tesi e interrogativi si mischiarono, fino a quando quel buontempone di Gino buttò lì un: “Sarà stato quel cattivaccio di Joker, il nemico di Batman”, provocando delle risatine tra gli avventori.

“Ma tu, Filippo, che te ne vai spesso a zonzo tra i boschi, non hai un’idea in proposito?” gli domandò l’oste.

Filippo bevve un sorso del suo chinotto e sviante gli rispose: 

“Ve la ricordate quella vecchia storia? Quella del vecchio della montagna” puntualizzò vedendo molte sopracciglia corrucciate “ma, sì, quello che strangolava con i lacci i bracconieri…” Alcuni annuirono. “Non potrebbe essere un altro tipo come lui?”

“Be’, anche se così fosse” continuò Rino, “c’è qualcuno tra noi che lo denuncerebbe ai carabinieri? Che denuncerebbe chi elimina un delinquente che ci brucia i boschi?” 

Nessuno profferì parola. Si udì solo il ronzare di un moscone che volteggiava sopra un bicchiere di vino rosso.

Proprio in quel momento arrivò col fiato grosso, Beppe. “Ehi! Voialtri! Lo sapete che a pochi chilometri dal paese ho visto una pattuglia di carabinieri? Pare che ne abbiano trovato un altro”. 

Gli avventori puntarono immediatamente gli occhi su di lui. “Non guardatemi così, non so nulla di più” aggiunse allargando le braccia.

Filippo, intanto, giocherellava col dito bagnato sull’orlo del bicchiere, sapendo di essere l’unico che sapeva.

La domenica seguente faceva così caldo che decise di scendere al torrente. Poldo lo seguiva scodinzolante. Grandi massi interrompevano il flusso dell’acqua formando delle conche, minuscole piscine di acqua verde era fresca e lui ci si sedette con piacere. Non avrebbe potuto abitare lontano da quel posto, dal suo paesetto, dai suoi boschi, dal suo corso d’acqua, dal suo terreno a gradoni coltivato ad olivi e viti, dalla sua vecchia casa di pietra, dal suo cane. No, non poteva, anche se viveva solo. Suo padre era passato al mondo dei più qualche anno prima, e sua madre, non aveva nemmeno fatto in tempo a conoscerla; Luisa invece, gli aveva preferito un altro, uno che viveva a Sanremo. “Non voglio mica marcire in questo paesino!” gli diceva gli ultimi tempi della loro storia, e lui, sebbene a malincuore, l’aveva lasciata andare.

Uscì dalla piccola piscina e si mise a sedere su un macigno mentre il cane andava ad accovacciarsi in uno spicchio d’ombra; per qualche momento la forma acquosa del suo corpo si disegnò su quella pietra grigia, finché il sole asciugò tutto. Frugò nello zaino, aveva portato un romanzo perché contadino sì, ma ignorante no, aveva anche lui il suo bel diploma: era perito agrario.  Non fece in tempo a sfogliare che qualche pagina, che si trovò accanto Amedeo. “Da dove sbuchi?” gli chiese. 

“Ho seguito il sentiero che facevamo da ragazzi ed eccomi qui. Ti ho cercato a casa, ma la tua vicina mi ha detto che ti ha visto uscire coi calzoni corti e lo zaino e allora mi ho pensato: sarà là”.

Entrò anche lui nella pozza d’acqua per rinfrescarsi mentre Filippo lo guardava dall’alto del masso.

Non c’era un alito di vento, e anche gli uccelli se ne stavano zitti, forse avevano caldo pure loro.

“Come va? Gli domandò Filippo. E poiché l’altro non rispondeva insisté: “C’è qualcosa che non va, Amedeo? Hai litigato con Silvana?”

“L’ho incontrata a Ventimiglia insieme ad uno che le teneva un braccio sulla spalla”. 

 “Bell’incontro… e come te l’ha spiegato quel braccio?” 

“Ha detto che era un suo amico, solo un amico”. 

“Anche il tipo di Luisa all’inizio era solo un amico…” 

In quel momento lo sguardo di entrambi cadde sul Bosco Vecchio che tappezzava il pendio, dove alcuni alberi erano sconquassati da un turbine di vento. Ma di vento quel giorno non ce n’era affatto, la calura rendeva tutto immobile.

“Filippo! Guarda un po’ là” esclamò Amedeo indicando il punto col braccio. “Non ho mai visto nulla del genere…”

L’altro, che aveva finto di non vedere, si sistemò meglio gli occhiali da sole sul naso, e disse: “Sarà una corrente ascensionale”. 

“Bah, sarà come dici” gli rispose perplesso “di correnti non me ne intendo proprio”. 

“Che fai stasera?” gli chiese per distrarlo. E mentre glielo domandava, pensò che nessuno doveva scoprire il segreto del Bosco vecchio, adesso che quei vetusti alberi avevano finalmente imparato a difendersi.

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