
RECENSIONE:
Il vizio dell’arte è quello che affligge gli artisti e, come tutti i vizi, è inestirpabile, bisogna assecondarlo continuamente altrimenti si trasforma in ossessione. Ne sono vittime il poeta Audin e il compositore Britten. Entrambi amici, ed ex amanti in tempi lontani, non si frequentavano da molti anni e ora si incontrano nel 1972 in un modesto appartamento che l’Università di Oxford ha messo a disposizione del poeta. È questo l’argomento della commedia “Il ritorno di Calibano” che una compagnia di attori sta provando in un teatro londinese. Audin e Britten sono interpretati, rispettivamente, da Fritz e da Henry. Il primo ha una tendenza a dimenticare le battute mentre il secondo, che appare più sicuro di sé, è costretto anche a recitare nel ruolo di Boyle, il cameriere di Audin, perché l’attore che ne dovrebbe sostenere la parte è impegnato altrove per una matinée. Accanto a loro cerca di emergere, con la sua mania di protagonismo, Donald che impersona Hunphrey Carpenter, il biografo delle vite dei due artisti e Tim, l’attor giovane che è Stuart il marchettaro venuto a farsi fare una fellatio da Audin. Presente anche il pignolo autore della commedia che non accetta le modifiche al testo apportate dal regista che è assente ed è sostituito dalla direttrice di scena Kay la quale cerca con pazienza di coordinare il tutto. Il palcoscenico è occupato da due poltrone con un piccolo tavolo da salotto e da libri e oggetti vari disposti confusamente. Nel fondo i mobili di un tinello. L’incontro tra i due protagonisti è immaginato nel 1972 nell’appartamento di Audin sessantacinquenne, descritto come un uomo che nasconde la propria depressione in atteggiamenti provocatori, è incurante della cura della sua persona, indossa pantaloni maleodoranti perché sporchi di urina ed è solito pisciare nel lavandino. Soffre del fatto di non ricevere più proposte di scrittura e vede, quindi, nella visita di Britten, l’occasione propizia per soddisfare le sue necessità artistiche. Il compositore va a trovarlo per chiedergli consigli in merito a una nuova opera della quale sta ultimando la scrittura, “Morte a Venezia”, tratta dall’omonimo racconto di Thomas Mann, ed è timoroso perché l’argomento trattato possa ricevere accuse di pedofilia. Tra alti e bassi, scene in cui agli attori viene anche chiesto di interpretare le parti di oggetti (letto, porta, orologio, specchio…) perché “Siamo di fronte a un poeta. Parla il mondo e tutto quello che contiene”, dirà l’autore, e con intermezzi non previsti, le prove della commedia si concludono con il calare della sera. Gli attori escono, si attardano sul palcoscenico rimasto vuoto l’autore e Kay che farà le sue considerazioni sul teatro e sulla psicologia degli attori che “sono come i soldati. I soldati temono il nemico; gli attori temono il pubblico. Paura dell’insuccesso. Paura di dimenticare, paura dell’arte”. E il tema principale della pièce è rappresentato proprio dalla peculiarità del teatro dove oltre la rappresentazione, oltre quello che appare al pubblico ossequiante ci sono persone votate all’arte della recitazione con le loro debolezze, idiosincrasie, gelosie e paure. E comunque con la loro passione. Lo è l’attore Fritz che ha paura di perdere la battuta ma rimane infastidito quando l’assistente gliela suggerisce, lo è il giovane Stuart che vede scorrere il tempo senza che il suo nome venga collegato alla sua immagine che rimane anonima perché legata a ruoli marginali, lo è Donald che desidera maggiore spazio e per questo vorrebbe arricchire il copione con le sue idee in modo da perfezionare il personaggio di Carpenter. Ma la commedia tocca anche altri argomenti universali, spesso dolorosi come la vecchiaia, che tuttavia, pur essendo affrontati con humor inglese e in alcuni punti in modo tagliente, lasciano una punta di amarezza.
l vizio dell’arte è quello che affligge gli artisti e, come tutti i vizi, è inestirpabile, bisogna assecondarlo continuamente altrimenti si trasforma in ossessione. Ne sono vittime il poeta Audin e il compositore Britten. Entrambi amici, e anche ex amanti, non si frequentavano da molti anni e ora si incontrano nel 1972 in un modesto appartamento che l’Università di Oxford ha messo a disposizione del poeta. È questo l’argomento della commedia “Il ritorno di Calibano” che una compagnia di attori sta provando in un teatro londinese. Audin e Britten sono interpretati, rispettivamente, da Fritz e da Henry. Il primo ha una tendenza a dimenticare le battute mentre il secondo, che appare più sicuro di sé, è costretto anche a recitare nel ruolo di Boyle, il cameriere di Audin, perché l’attore che ne dovrebbe sostenere la parte è impegnato altrove per una matinée. Accanto a loro cerca di emergere, con la sua mania di protagonismo, Donald che impersona Hunphrey Carpenter, il biografo delle vite dei due artisti e Tim, l’attor giovane che è Stuart il marchettaro venuto a farsi fare una fellatio ad Audin. Presente anche il pignolo autore della commedia che non accetta le modifiche al testo apportate dal regista che è assente ed è sostituito dalla direttrice di scena Kay la quale cerca con pazienza di coordinare il tutto. Il palcoscenico è occupato da due poltrone con un piccolo tavolo da salotto e da libri e oggetti vari disposti confusamente. Nel fondo i mobili di un tinello. L’incontro tra i due protagonisti è immaginato nel 1972 nell’appartamento di Audin sessantacinquenne, descritto come un uomo che nasconde la propria depressione in atteggiamenti provocatori, è incurante della cura della sua persona, indossa pantaloni maleodoranti perché sporchi di urina ed è solito pisciare nel lavandino. Soffre del fatto di non ricevere più proposte di scrittura e vede, quindi, nella visita di Britten, l’occasione propizia per soddisfare le sue necessità artistiche. Il compositore va a trovarlo per chiedergli consigli in merito a una nuova opera della quale sta ultimando la scrittura, “Morte a Venezia”, tratta dall’omonimo racconto di Thomas Mann, ed è timoroso perché l’argomento trattato possa ricevere accuse di pedofilia. Tra alti e bassi e con intermezzi non previsti le prove della commedia si concludono con il calare della sera. Gli attori escono, rimangono sul palcoscenico rimasto vuoto l’autore e Kay che farà le sue considerazioni sul teatro e sulla psicologia degli attori che “sono come i soldati. I soldati temono il nemico; gli attori temono il pubblico. Paura dell’insuccesso. Paura di dimenticare, paura dell’arte”. E il tema principale della pièce è rappresentata proprio dalla peculiarità del teatro dove oltre la rappresentazione, oltre quello che appare al pubblico ossequiante ci sono persone votate all’arte della recitazione con le loro debolezze, idiosincrasie, gelosie e paure. E comunque con la loro passione. Lo è l’attore Fritz che ha paura di perdere la battuta ma rimane infastidito quando l’assistente gliela suggerisce, lo è il giovane Stuart che vede scorrere il tempo senza che il suo nome venga collegato alla sua immagine che rimane anonima perché legata a ruoli marginali, lo è Donald che desidera maggiore spazio e per questo vorrebbe arricchire il copione con le sue idee in modo da perfezionare il personaggio di Carpenter. Ma la commedia tocca anche altri argomenti universali, spesso dolorosi come la vecchiaia, che tuttavia, pur essendo affrontati con humor inglese e in alcuni punti in modo tagliente, lasciano una punta di amarezza.

Alan Bennett racconta nella prefazione al testo “Il vizio dell’arte” di aver visto o, meglio, sentita la voce di Audin nel 1955 nella mensa dell’Exeter College e aveva ascoltato una sua lezione l’anno successivo senza restarne particolarmente impressionato. Non aveva, invece, mai visto Britten. Il portarlo a scrivere un testo che li vede protagonisti sono state quindi le biografie di Carpenter, dimostrandosi egli interessato più alla loro vita privata che non alla loro arte. Non a caso, per quanto riguarda Audin, egli scrive che la morte del poeta rappresentò per lui “più un lutto per la cultura che non per la poesia”. E però realizzare un testo teatrale dove immaginava un incontro fra i due rischiava di avere poco mordente. Il ricorso alla pratica del teatro nel teatro dove lo spettatore assiste a una messa in scena che per la stessa tipologia del genere è ricca di movimento, agevola l’attenzione. Tutto questo, oltre alla bravura degli attori, decretò il successo che la commedia riscosse nella capitale inglese quando fu rappresentata per la prima volta nel 2009. E lo stesso successo riscosse nel 2014 la versione italiana prodotta dal Teatro dell’Elfo Puccini. Un successo che si è rinnovato nella ripresa della corrente stagione dove tutto è calibrato in ogni minimo dettaglio a partire dalla regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia: l’azione si svolge non soltanto sul pur grande palcoscenico ma ha invaso anche le prime file delle poltrone della platea conferendo maggiore spettacolarità oltre che credibilità alla recita. E su questi spazi si sono mossi agevolmente alcuni degli attori come il pretenzioso e stizzoso autore interpretato dal bravo Michele Radice. Tutto il cast è comunque di altissimo livello: Ferdinando Bruni/Audin sopporta con naturalezza pancia e schiena posticci, e riesce a recitare anche dietro una rigida maschera che per esigenze di copione gli è imposta dall’autore, fortunatamente per breve tempo, appare trasandato in pantaloni spiegazzati, sa essere scurrile, ironico e ammiccante nei confronti della marchetta. E intanto con fare da monello malizioso fin troppo cresciuto offre biscotti contenuti in una biscuit tin ai suoi visitatori che li rifiutano nauseati. Ma come saranno quei biscotti che alla vista risultano così disgustosi? Elio De Capitani/Britten/Boyle divertente nei panni del cameriere raggiunge il massimo dell’espressività quando indossa la parrucca per calarsi nel personaggio del compositore: una persona che desidera realizzare l’opera che ha in mente ma che è timorosa e apprensiva per paura delle critiche e intanto vive dolorosamente e in segreto un’inconfessabile identificazione con von Aschenbach, il protagonista di “Morte a Venezia”. Ida Marinelli fa da cardine per tutta la messinscena, perfetta nel doppio ruolo della cameriera Joan e dell’assistente di scena delusa che si è lasciata alle spalle la sua attività di attrice perché aveva paura di andare in scena. la Marinelli dimostra anche di essere un’ottima cantante. Come è molto bravo nel canto anche Umberto Petranca quando nel secondo tempo si esibisce en travesti, mentre eccelle nelle parti isteriche richieste dal personaggio Donald/Carpenter. Ultima segnalazione di merito va a Edoardo Barbone che interpreta Tim/Stuart. Determinanti l’apporto musicale di Matteo de Mojana e del sassofonista Luigi Napolitano. Il pubblico è apparso pienamente soddisfatto. Repliche fino al 2 giugno.
Visto il giorno 18 giugno 2023
(Carlo Tomeo)
10 maggio > 2 giugno | sala Shakespeare
Il vizio dell’arte
di Alan Bennett
traduzione di Ferdinando Bruni
uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Ida Marinelli, Umberto Petranca, Edoardo Barbone, Roberto Antonio Dibitonto, Michele Radice, Vincenzo Zampa,
luci Nando Frigerio
suono Giuseppe Marzoli
musiche dal vivo Matteo de Mojana, sassofono Luigi Napolitano
costumi Saverio Assumma
produzione Teatro dell’Elfo
Premio Ubu 2015 – Nuovo testo straniero, Premio Hystrio Twister 2015
TEATRO ELFO PUCCINI, corso Buenos Aires 33, Milano – Mart/sab. ore 20.30; dom. ore 16.00 – Durata: 2 ore 10 con intervallo – Prezzi: intero € 34 / <25 anni >65 anni € 18 / online da € 16,50 – Biglietteria: tel. 02.0066.0606 – biglietteria@elfo.org – whatsapp 333.20.49021