Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798 – Napoli, 14 giugno 1387), durante i suoi più che frequenti momenti di “solitudine cosmica”, in cui si perdeva nei meandri del proprio Io e nella contemplazione della Natura (si pensi a “Il passero solitario”, “La ginestra” ecc.), era solito osservare con dovizia di particolari tutto ciò che lo circondava per dar vita, poi, alle sue liriche che sarebbero (e sono) rimaste dei capisaldi della poetica e letteratura mondiale, oltre che italiana.
Grande fascino suscitavano in lui gli uccelli e qui, in questo articolo, vogliamo riportare dei passaggi poetico/prosastici tratti dalle “Operette morali”, che mettono proprio in evidenza l’amore, lo stupore, l’ammirazione, la visione filosofica che il Leopardi aveva per questi amici alati, il canto dei quali ci risveglia all’alba dei nostri giorni e i cui voli, più che spesso, donano senza chieder nulla in cambio, una grande sensazione di pace, gioia e felicità.
Leopardi ebbe a scrivere, per l’appunto, un “elogio” dedicato interamente agli uccelli e qui lo riportiamo nella sua quasi interezza:
“Elogio degli uccelli” (Giacomo Leopardi)
(…) Sono gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo. Non dico ciò in quanto se tu li vedi o gli odi, sempre ti rallegrano; ma intendo di essi medesimi in sé, volendo dire che sentono giocondità e letizia più che alcuno altro animale. Si veggono gli altri animali comunemente seri e gravi; e molti di loro anche paiono malinconici: rade volte fanno segni di gioia, e questi piccoli e brevi; nella più parte dei loro godimenti e diletti, non fanno festa, né significazione alcuna di allegrezza; delle campagne verdi, delle vedute aperte e leggiadre, dei soli splendidi, delle arie cristalline e dolci, se anco sono dilettati, non ne sogliono dare indizio di fuori: eccetto che delle lepri si dice che la notte, ai tempi della luna, e massime della luna piena, saltano e giuocano insieme, compiacendosi di quel chiaro, secondo che scrive Senofonte. Gli uccelli per lo più si dimostrano nei moti e nell’aspetto lietissimi; e non da altro procede quella virtù che hanno di rallegrarci colla vista, se non che le loro forme e i loro atti, universalmente, sono tali, che per natura dinotano abilità e disposizione speciale a provare godimento e gioia: la quale apparenza non è da riputare vana e ingannevole. Per ogni diletto e contentezza che hanno, cantano; e quanto maggiore è il diletto o la contentezza, tanto più lena e più studio pongono nel cantare. E cantando buona parte del tempo, s’inferisce che ordinariamente stanno di buona voglia e godono. E se bene è notato che mentre sono in amore, cantano meglio, e più spesso, e più lungamente che mai (…).
(…) Onde si potrebbe dire in qualche modo, che gli uccelli partecipano del privilegio che ha l’uomo di ridere: il quale non hanno gli altri animali; e perciò pensarono alcuni che siccome l’uomo è definito per animale intellettivo o razionale, potesse non mano sufficientemente essere definito per animale risibile; parendo loro che il riso non fosse meno proprio e particolare all’uomo, che la ragione. Cosa certamente mirabile è questa, che nell’uomo, il quale infra tutte le creature è la più travagliata e misera, si trovi la facoltà del riso, aliena da ogni altro animale. Mirabile ancora si è l’uso che noi facciamo di questa facoltà: poiché si veggono molti in qualche fierissimo accidente, altri in grande tristezza d’animo, altri che quasi non serbano alcuno amore alla vita, certissimi della vanità di ogni bene umano, presso che incapaci di ogni gioia, e privi di ogni speranza; nondimeno ridere (…).
Tratto dalle “Operette morali” in: Giacomo Leopardi, “L’infinito”, pag. 43, Edizioni Del Baldo.
Per dover di cronaca, vogliamo anche riportare una succinta biografia del più grande cantore poetico italiano (insieme a Dante Alighieri), sperando di far cosa gradita al Lettore:
Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798 da una famiglia nobile decaduta. Affidato dal padre Monaldo a precettori ecclesiastici, rivela doti eccezionali: a soli dieci anni sa tradurre all’impronta i testi classici e compone in latino.
Il rapporto coi genitori è molto difficile. Giacomo sta spesso da solo, studia nella grande biblioteca paterna, in dialogo muto con gli autori antichi. Tra il 1809 e il 1816 passa “sette anni di studio matto e disperatissimo”, durante i quali impara alla perfezione varie lingue, traduce i classici, compone opere erudite, studia poesia e filosofia. Questa vita solitaria e reclusa lo mina nel fisico e nello spirito.
Il 1816 è l’anno della “conversione letteraria”, passa dall’erudizione al bello e alla poesia. Invia le sue prime prove a Pietro Giordani, che lo incoraggia. Nel 1817 comincia a scrivere il suo diario infinito, lo Zibaldone (1817-1832) e scrive le prime canzoni civili.
Nel 1819 tenta di fuggire da casa, ma il padre lo ferma: Recanati è ora una prigione e il giovane cade in depressione. La produzione poetica però non ha sosta: compone gli Idilli (L’Infinito, Alla luna …) e le grandi canzoni civili.
Nel 1822 finalmente va a Roma dagli zii materni, ma il viaggio è deludente. Tornato a Recanati, nel 1823 scrive le Operette morali.
Nel 1825 è a Milano, dove lavora per l’editore Stella. In povertà, si sposta tra Bologna e Firenze, accolto nei circoli letterari e nei salotti mondani. Nel 1828 a Pisa ritrova la vena poetica che pareva perduta: inizia il ciclo dei Grandi Idilli.
Tra la fine del 1828 e il 1930 ritorna a Recanati. Ricorderà il periodo come “sedici mesi di notte orribile”, ma è allora che scrive alcuni tra i suoi canti più famosi: La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio…
Con l’aiuto di amici lascia per sempre il “natio borgo selvaggio” e va di nuovo a Firenze. Dall’amore non corrisposto con Fanny Targioni Tozzetti nasce Il ciclo di Aspasia. Nel 1832 sospende lo Zibaldone.
Nell’ottobre del 1833 si trasferisce a Napoli insieme all’amico Antonio Ranieri. Benché ormai molto provato nel fisico, partecipa alla vita culturale partenopea. A Torre del Greco, in fuga dal colera che imperversa in città, compone due tra le sue più grandi poesie: La ginestra o il fiore del deserto (1836) e Il tramonto della luna (1837), che costituiscono il suo testamento poetico e spirituale.
Muore a Napoli il 14 giugno 1837 e viene sepolto accanto all’amato Virgilio.
Infine, vogliamo qui riportare la sua più celeberrima poesia, “L’infinito”, egregiamente declamata da Vittorio Gassman. Una nota finale: chi “fa” poesia, chi scrive o cerca di scrivere poesia, ricercando la Bellezza, l’emozione e l’incanto, non potrà mai e poi mai esimersi dall’aver letto, prima di scrivere qualsiasi verso, le liriche di Giacomo Leopardi: tutti possiamo essere in grado di scrivere poesie, ma “in primis” non dimentichiamoci mai e poi mai, e lo dico innanzitutto a me stesso, di leggere “quintali” di libri di poesia. Non ci s’inventa “poeti”, lo si può diventare dopo anni e anni di lettura e di studio, o forse (qualcuno asserisce) poeti, alla fin fine, si può anche nascere.
Carlo Molinari, Poeta e Autore di “Alessandria today Magazine”