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C’è un antico proverbio italiano che recita: “I frutti sono più graditi quando sono quasi finiti”. Poche parole che racchiudono una verità scomoda ma profonda sulla condizione umana. Tendiamo ad apprezzare ciò che abbiamo solo quando intuiamo che sta per sfuggirci. E forse in nessun ambito della vita questo principio si manifesta con più forza che nel nostro rapporto con la vecchiaia.
La lezione di Seneca sul tempo perduto
Duemila anni fa, il filosofo romano Seneca osservava con lucidità implacabile: “Non è che abbiamo poco tempo, è che ne sprechiamo molto”. Nel suo trattato “De brevitate vitae” (Sulla brevità della vita), Seneca smontava l’illusione comune che il tempo sia insufficiente. Il problema non è la quantità di tempo che abbiamo, ma come lo usiamo. Rimandiamo, procrastiniamo, diamo per scontato che ci sarà sempre un domani per fare ciò che conta davvero.
E proprio sulla vecchiaia Seneca aveva uno sguardo particolare. La vedeva non come un declino da temere, ma come il possibile coronamento di una vita ben vissuta. “La vecchiaia è piena di piacere se sai usarla”, scriveva. Ma aggiungeva un monito severo: chi arriva alla vecchiaia dopo aver sprecato la vita in futilità, scopre di non aver vissuto affatto.
Lo sguardo che cambia
Quante volte abbiamo ascoltato con distrazione le storie dei nostri nonni, dato per scontata la presenza dei genitori anziani, rimandato quella telefonata o quella visita? La vita quotidiana ci travolge, ci sono sempre mille cose da fare, mille pensieri che ci assorbono. Poi, un giorno, qualcosa cambia. Un ricovero in ospedale, una diagnosi, o semplicemente la consapevolezza improvvisa che gli anni passano inesorabili. Ed ecco che quello stesso volto rugoso, quelle mani tremanti, quella voce che racconta per l’ennesima volta la stessa storia, acquistano un valore inestimabile.
Non sono cambiate le persone. Siamo cambiati noi, il nostro sguardo. Abbiamo capito che il frutto è quasi finito. Seneca ci avrebbe detto: “Finalmente avete smesso di essere occupati con le cose altrui e avete cominciato a vivere”.
La scoperta tardiva
Maria, insegnante in pensione, racconta: “Ho passato anni a trovare scuse per non andare a trovare mia madre. Ero sempre occupata, stanca, avevo i miei impegni. Quando le hanno diagnosticato l’Alzheimer, ho cominciato ad andarci ogni giorno. Ma non era più la stessa. Avrei voluto recuperare tutti quei pomeriggi persi, tutte quelle conversazioni mai fatte. Adesso ascolto per ore i suoi racconti confusi, cercando di riconoscere frammenti della donna che era. Ma è troppo tardi.”
Questa scoperta tardiva è una delle esperienze più dolorose dell’esistenza umana. Ci svegliamo quando l’autunno è già inoltrato, quando le foglie sono quasi tutte cadute. E ci rendiamo conto, con un senso di colpa lacerante, di quanto tempo abbiamo sprecato.
L’altra faccia della vecchiaia
Ma c’è anche un’altra dimensione di questo proverbio, meno ovvia ma altrettanto significativa. La vecchiaia stessa, vissuta in prima persona, può rivelare tesori inaspettati proprio perché “quasi finita”. Molti anziani parlano di una leggerezza nuova, di una libertà dalle aspettative altrui, dalla necessità di apparire o di competere. Le piccole cose quotidiane – il calore del sole, il canto degli uccelli, il sorriso di un bambino – acquistano un sapore particolare.
“A settant’anni ho smesso di preoccuparmi di cosa pensano gli altri,” confida Giuseppe, ex dirigente d’azienda. “Ho passato una vita a rincorrere obiettivi, a costruire una carriera, ad accumulare. Adesso ogni giorno è un dono. Guardo il tramonto e penso: ne vedrò ancora molti? Forse sì, forse no. Ma questo qui, oggi, è bellissimo. E basta.”
Giuseppe, inconsapevolmente, ha scoperto ciò che Seneca insegnava: “Tutta la vita è divisa in tre periodi: passato, presente, futuro. Di questi, il presente è brevissimo, il futuro è incerto, il passato è certo”. La vecchiaia, paradossalmente, può essere il momento in cui finalmente impariamo a vivere nel presente, liberati dall’ansia del futuro e dalle ambizioni che ci hanno consumato.
La lezione ignorata
Il paradosso è che questa lezione viene imparata da ogni generazione, eppure ogni generazione la ignora fino all’ultimo momento. I giovani guardano agli anziani con impazienza o indifferenza. Gli adulti sono troppo presi dalle loro vite frenetiche. E gli anziani, quando finalmente comprendono, possono solo trasmettere un messaggio che raramente viene ascoltato: non aspettate che sia troppo tardi.
È come se fossimo programmati per dare valore alle cose solo quando stanno per sfuggirci. La scarsità crea desiderio, l’abbondanza genera noia. Ma nel caso della vecchiaia, delle relazioni umane, del tempo condiviso con chi amiamo, questo meccanismo psicologico ha un prezzo altissimo.
Vivere contro il proverbio
Esiste una via d’uscita da questo schema? Si può imparare ad apprezzare i frutti prima che siano quasi finiti? La risposta è sì, ma richiede uno sforzo consapevole e continuo. Richiede di fermarsi nel mezzo della routine, di guardare davvero le persone che abbiamo accanto, di ascoltare quelle storie che abbiamo già sentito mille volte come se fosse la prima.
Richiede di immaginare, anche quando sembra impossibile, che quella persona non ci sarà per sempre. Non per vivere nell’angoscia, ma per vivere nella gratitudine. Per trasformare la consapevolezza della finitudine non in un peso ma in un invito a essere presenti, adesso, mentre c’è ancora tempo.
Seneca aveva un esercizio radicale per questo: ogni sera, andando a dormire, dovremmo dirci “ho vissuto”. Non “vivrò domani”, non “recupererò il tempo perduto”, ma “oggi ho vissuto completamente”. E al mattino, guardare la persona accanto a noi – che sia un genitore anziano, un partner, un amico – come se potesse essere l’ultima volta. Non per morbosità, ma per verità. Perché potrebbe davvero esserlo.
“Ritarda ogni cosa,” scriveva il filosofo, “niente arriva a chi è in ritardo”. Stiamo sempre aspettando il momento giusto per dire quelle parole, per fare quella visita, per dedicare quel tempo. Ma il momento giusto è sempre adesso, perché è l’unico momento che possediamo davvero.
Conclusione: la saggezza anticipata
“I frutti sono più graditi quando sono quasi finiti” è un proverbio che descrive la realtà, ma non dovrebbe essere una sentenza inevitabile. La vecchiaia, la nostra e quella di chi amiamo, non deve aspettare di essere “quasi finita” per essere apprezzata. Ogni giorno che passa è un frutto maturo, pronto per essere colto e gustato.
Seneca, nella sua ultima opera scritta poco prima del suicidio impostogli da Nerone, affermava: “La vita, se sai usarla, è lunga”. Non si riferiva alla durata in anni, ma all’intensità dell’esperienza. Un solo giorno vissuto pienamente, con consapevolezza e presenza, vale più di anni trascorsi nell’indifferenza e nel rimandare.
La vera saggezza non sta nell’imparare ad apprezzare ciò che sta finendo, ma nell’imparare ad apprezzare ciò che c’è, mentre c’è ancora. È quella che potremmo chiamare “saggezza anticipata” – vivere da giovani con la consapevolezza dei vecchi, senza però il rimpianto che spesso l’accompagna.
Perché quando i frutti saranno davvero finiti, ci resterà solo il rimpianto di non averli assaporati abbastanza quando erano ancora sulla pianta, dolci e abbondanti, alla portata della nostra mano. O, come concludeva Seneca con parole che attraversano i secoli per raggiungerci oggi: “Non riceviamo una vita breve, ma la rendiamo tale. Non siamo poveri di vita, ma prodighi”.