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C’è una poesia che nasce da un suono lontano e diventa una ferita che resta.
“Lavandare” di Giovanni Pascoli è uno dei testi più intensi e sommessi della poesia italiana, perché affida a una scena minima e quotidiana il racconto di una solitudine universale, trasformando il paesaggio rurale in un luogo dell’anima.

Pier Carlo Lava

Pubblicata nella raccolta Myricae, “Lavandare” è una poesia che si muove per sottrazione. Non racconta una storia compiuta, non presenta personaggi definiti, non offre spiegazioni. Eppure, in pochi versi, riesce a evocare un mondo intero di attesa, abbandono e dolore silenzioso. Pascoli osserva un campo arato, un aratro abbandonato, il cielo autunnale, e da questo scenario apparentemente neutro fa emergere una voce femminile che canta una pena antica.

Il paesaggio è spoglio, essenziale, segnato dall’assenza. L’aratro senza buoi diventa simbolo di un lavoro interrotto, di una vita sospesa, di qualcosa che avrebbe dovuto compiersi e non si è compiuto. È una delle immagini più potenti della poesia pascoliana, perché dice tutto senza dichiarare nulla. La natura non consola: registra, custodisce, amplifica.

Il cuore emotivo del testo arriva con il canto delle lavandaie. Quelle voci lontane, ripetitive, quasi ipnotiche, portano nella poesia una sofferenza che non ha nome, ma che tutti riconoscono. L’attesa dell’uomo che non torna, l’amore sospeso, la fedeltà che diventa dolore. Non c’è rabbia, non c’è ribellione: c’è solo la durata della pena.

Dal punto di vista stilistico, “Lavandare” è un esempio perfetto della poetica del fanciullino. Pascoli guarda il mondo con occhi che colgono i segni minimi e li trasformano in rivelazioni. Il linguaggio è semplice, musicale, costruito su immagini visive e sonore che si richiamano. Il canto delle lavandaie non è solo un elemento realistico, ma una nenia del dolore, una voce collettiva che attraversa il tempo.

La poesia dialoga con Leopardi nella visione di una natura indifferente, ma se Leopardi parla con il pensiero, Pascoli parla con il suono. Qui il dolore non è argomentato, è ascoltato. E proprio per questo risulta ancora più profondo. La sofferenza non viene spiegata, viene lasciata risuonare.

“Lavandare” è una poesia sull’attesa che consuma, sull’amore che resta fedele anche quando non ha più risposta. È una poesia che parla soprattutto alle periferie dell’esistenza, a chi vive nel silenzio, a chi aspetta senza sapere se qualcuno tornerà. Ed è per questo che, ancora oggi, colpisce con una forza discreta ma inesorabile.

Lavandare
di Giovanni Pascoli

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!

Come l’aratro in mezzo alla maggese.

Breve biografia dell’autore

Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna nel 1855 e morì a Bologna nel 1912. La sua poesia nasce da un’esperienza personale segnata da lutti e precarietà, trasformata in una lingua nuova, capace di dare voce agli oggetti, ai suoni, ai margini della vita quotidiana. Con Myricae, Pascoli inaugurò una stagione poetica che avrebbe influenzato profondamente il Novecento.


Geo
La campagna romagnola di fine Ottocento è il luogo reale da cui nasce “Lavandare”, ma la poesia supera ogni confine geografico. È il racconto di un’attesa universale, di una fedeltà dolorosa che appartiene a molte vite silenziose. Alessandria today continua a proporre Pascoli come autore vivo e necessario, capace di dare dignità poetica alle voci più fragili e nascoste.

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