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AMAREZZA, di Leonardo Migliore
(dedicata ai bambini vittime di conflitti ai quali siamo spesso indifferenti) 

Appesantito dai problemi del giorno, 

il tramonto langue all’orizzonte in onde di sangue.

Uno specchio equoreo ne raccoglie i detriti di luce.

Lungo un vicino sentiero sabbioso si erge una montagna di rifiuti,

eredità piramidale del disfacimento sociale.

Nell’imbrunire serotino, mi addentro in una spelonca che percorre il suo fianco.

Penso che anche una discarica contenga una stanza perché ci si rechi al cospetto del dio Osiride.

Perpetuo istinti primigeni, m’immergo nel flusso sacrale del dio ucciso

e, in trasparenze di carta velina, intravedo un uragano.

È il dio curato e guarito che con veemenza atterrisce e suscita, affanna e consola,

messaggio impressivo che in Terra e in Cielo pone trono e venerata costellazione. 

Rannicchiato in un cantuccio, giunge un debole suono di sistro a conclamare la presenza di Iside.

L’attesa è finita, l’arco scaglia la sua freccia.

Ora sono corda distesa per il viaggio nell’aldilà 

e, nella gola nera di liquirizia di un sarcofago, 

ricordo l’ebrezza d’acqua limpida di un amore consumato senza parole…

E lì, dove la notte si estende con i suoi artigli,
finestre di tenebra serrano gli infissi a una luna malinconica.
Ampie ali scure di nuvole remiganti per il cielo
scalfiscono con aghi di brina l’anima di un roseto.
Un lamento sinistro di uccelli ferisce l’udito,
trasmette tutta la solitudine delle plaghe empiree.
Il canto di un epicedio si frange su una stilla di felicità,
la rugiada muore in cristalli di ghiaccio.
 

La canizie improvvisa distrugge le rose incarnatine
e un bambino non avrà più colori nel suo giardino.
Non si rizzò più in punta di piedi
fra gli arbusti cespugliosi e con aculei
per vedere meglio, in squarci di cuore gelosamente custoditi,
la luce di mamma che lavorava con ardore a stendere i panni.
Un lieve rancore gli scivolò addosso,

trascinò il moncone di osso della sua gamba destra

con l’ausilio delle stampelle

come un relitto che si scioglie sotto la pelle.

Esibì il segno indelebile e più ignorato delle guerre,

quell’assurdità che tormenta i fiori innocenti di un odorifero roseto 

dove un usignolo trillava flautate sequenze di note.

Potrebbe chiudere gli occhi,
pensare a un brutto sogno,
fantasticare sulla piana di Giza

e lì spazzar via le ombre che nascondono lo spiraglio fra Terra e Cielo,  

sentire lo sfregare degli stipiti contro la porta del tempo,
che ricorda un torrente prorompere attraverso la breccia dell’argine,

comprendere che vivere è bello

e che morire dentro e poi risorgere è più completo,
abbracciare rose fiorite lungo sentieri di nostalgia,
penetrare nella carne di eterni sentimenti,
trovare l’antico tepore e le ore
nel lume delle benevoli stelle di Orione
abitate da chi, contro l’afflizione e le contrarietà, la speranza non perde.

RECENSIONE PER ATTRIBUZIONE DEL PREMIO DELLA CRITICA

– CONCORSO DEL PARNASO –

Ci ha colpiti la lirica di Leonardo Migliore perché da essa emergono una cifra stilistica e conoscenze che non riscontriamo in nessun’altra poesia in concorso.

Rivolgiamo la nostra attenzione esclusivamente ai contenuti del suo componimento, dal momento che la sua forma è impeccabile e di altissimo livello.

Il suo poetare permette di percorrere nitidamente gli spazi della sua immaginazione.

La sua poetica è esigente e, nello stesso tempo, incantevole.

Usa comparazioni forti, crude, ispirate e senza tempo. Anche i sentimenti che delinea sono senza tempo e con il suo caratteristico tratto li scolpisce per l’eternità su una pietra che, citando Carducci, “al sol si fende con un tinnir di cetra”.

Crediamo che le sue opere siano destinate a costituire un importante testamento per le successive generazioni. In questo preciso istante pensiamo, nonostante le evidenti differenze, a «La bambina di Hiroshima» di Nazim Hikmet, manifesto della lotta contro il disarmo nucleare.

Non è la prima volta che leggiamo scritti di Leonardo Migliore. Riteniamo che neanche lo stesso scrittore, con un passato professionale ancora recente di ingegnere microelettronico, si renda conto appieno delle sue eccelse doti.

Le sue opere affondano spesso le radici in un crogiolo di sofferenza, ma lasciano sempre intravedere un barlume di speranza, una possibilità di fuga spaziale, similmente agli archi delle cattedrali gotiche, verso intricati percorsi di riabilitazione sociale e spirituale.

In «Amarezza» ci entusiasma già a partire dalle prime righe della prima strofa.

Conosce approfonditamente la storia, i rituali religiosi antichi e attuali di diverse civiltà e culture, attinge con naturalezza alla mitologia. Ciò gli consente di esprimersi con estrema facilità anche in modo simbolico.

Andando alla poesia, crea una situazione di fantastico impatto visivo degna del talento visionario di registi come Fellini quando, all’imbrunire, s’addentra nella spelonca di una piramide di rifiuti ubicata in prossimità di una spiaggia che provoca sensazioni indefinite.

Cogliamo chiaramente la sua inventiva innalzarsi, come stormi di uccelli in aria, in grandi volute.

Nel buio di liquirizia di un sarcofago è pronto a raggiungere il dio Osiride, rappresentato nel culto dell’antichità egizia dalla costellazione di Orione. Il mito di Osiride era annualmente celebrato in liturgie che prendevano a soggetto le peripezie e la risurrezione finale del dio. Ucciso, ritornò in vita grazie a magiche cure e fu quindi venerato anche come dio della morte e dell’oltretomba. 

Ecco il messaggio che ci rivela il giovane autore: anche nel buio più cupo dello sconforto, nella morchia, nell’urea di una discarica esiste una via per raggiungere l’eternità, una possibilità per tornare a vivere e offrire il proprio dolore e la propria esistenza per beneficare il prossimo.

Allora nell’oscurità angosciosa gravida di brina che distrugge un roseto, cioè l’anima di un bambino che resta menomato a un arto e perde il calore della sua mamma, introduce tutti gli elementi affinché non ci si arrenda alla tragedia e si aprano i contorni di una prospettiva esistenziale tollerabile.

Istruisce una società sempre più austera e gretta ad accogliere i sogni di un uomo che si mette nei panni di un bambino. Inizia un processo d’identificazione fra autore e protagonista. Il profondo sentire e l’afflizione sprigionano vampe ed elementi che accomunano.

Il bambino calpestando il regno di sabbia della piana di Giza, identificata con la porta di passaggio fra Terra e Cielo, potrà involarsi verso la rinascita fra le stelle benevoli di Orione.

È lì che l’autore attende il suo protagonista, è lì che abita mantenendo salda la speranza di portare sollievo a un piccolo fuoco quasi estinto dall’amarezza.

Leonardo Migliore si prefigge con questa suggestiva poesia l’ambizioso obiettivo di condurre a una vera e propria esperienza del mistero di Dio. Descrive il cammino catartico che dovrebbe compiere ogni uomo per realizzare sovvertimenti radicali che aborrano le guerre e riconcilino, alimentando la fede e la fiducia nel futuro.

È un messaggio che con ardore indirizza soprattutto ai bambini, gli esseri umani più indifesi e oppressi dall’orrore dei conflitti, la nostra disperata primavera.

Ed ecco svelenirsi il rancore tipico dell’amarezza. Riaffiora in tanti bambini superstiti, pur fra cicatrici non rimarginabili, la consapevolezza di essere ancora utili, di poter diffondere l’amore fra i più sfortunati.

Il nostro mondo immiserito avrà, così, nuovi apostoli di pace, di bontà e di civiltà operanti con carità missionaria.

Questa considerazione finale incarna il senso più profondo e autentico di “speranza” che nobilita l’attività letteraria e l’esperienza umana del caro Leonardo.

Grazie per il tuo ennesimo dono!

Foto: Leonardo Migliore