La mondina Gina: Il ‘racconto del giovedì’ a cura di Ernesto Martinasso

Me Piemont

La mondina Gina

Siamo negli anni trenta del Novecento, epoca nella quale pochissimi se la passavano fin troppo bene e la moltitudine tirava cinghia e subiva.

Gina sopravviveva in questa moltitudine, una vita fatta di stenti nella quale lo spettro della fame era sempre presente; era una madre fiera.

Quattro mesi prima aveva partorito un bel maschietto, il piccolo Lisàndar,  sano e paffuto; era stato un parto difficile e Gina era sfinita.

Quella donna dignitosa, nonostante le sue precarie condizioni, inforcò la bicicletta di suo nonno e si recò in risaia; traeva forza da Lisàndar.

Si presentò al lavoro sorridente, fingendo una salute che purtroppo non l’accompagnava; le venne prospettata una paga indecente, accettò, non aveva scelta.

Aveva il terrore delle bisce ma si impose di non cedere, pensava al suo piccolo e si sentiva una leonessa; le ore passavano.

Lavorava senza sosta, temendo che qualcuno si accorgesse della sua debolezza fisica; acqua e fango ovunque e i loro ospiti indesiderati sempre presenti. 

Le prime notti le passò alla sua dimora, che distava un’ora circa in bicicletta, ma si accorse che non reggeva alla fatica.

Decise quindi di dormire con le altre sue compagne nel grande camerone adibito al loro ricovero; si sentiva comunque molto debole ma resistette.

Un giorno, verso il finire di una giornata lavorativa durante la quale aveva avuto brividi quasi continui, ella svenne e fu prontamente soccorsa.

Le compagne la portarono nel camerone e la distesero sulla sua branda; intervenne Anna, una delle figlie del proprietario, misurandole la temperatura corporea. 

La temperatura era elevatissima, Anna inviò un inserviente a Novara col calesse, affinché egli tornasse accompagnato dal medico di fiducia per visitare Gina.

Anna, che era buona d’animo si prodigò come poté, sopportando nel contempo il mugugno del padre, uomo ottuso e attaccato al denaro.

Dopo un tempo piuttosto lungo ecco giungere il medico, che visitò l’inferma senza indugio; la sua espressione era cupa, scuoteva il capo.

Poi infine si espresse, preoccupato “si tratta di febbre delle risaie, che di per sé non è grave, essendo questa malattia raramente fatale.”

Rimase in silenzio, poi riprese nella diagnosi “senonché la paziente è estremamente debilitata, forse a causa di una sua reazione esagerata al morbo.”

Continuò “l’aver partorito di recente non giova, insomma vi è una serie di avversità che mi induce a formulare una prognosi infausta.”

Anna pianse convulsamente, ancor giovane non accettava il concetto della morte; il medico prescrisse dei medicinali, ormai inutili, e tornò a Novara desolato.

Anna volle comunque somministrare a Gina i medicinali, nella speranza che la malattia si attenuasse, rimanendo al capezzale a pregare giorno e notte.

Per tutta la notte e il giorno successivo Gina rimase incosciente, poi durante la seconda notte si riprese, ma il mattino seguente spirò.

Anna credette di impazzire, aveva sperato fino all’ultimo che Gina sopravvivesse; si fece quindi carico delle esequie e non badò a spese.

Si occupò di Lisàndar come fosse suo figlio e si curò di farlo crescere agiato, ed egli divenne un uomo forte ed istruito.

La chiamò sempre zia Anna e le chiedeva di narrargli quella storia che lui tanto amava, la storia di Gina tenace e sfortunata. 

Ernesto Martinasso