Di recente, ho buttato giù di getto due appunti sull’immagine di Napoleone suggestionato da un documentario. Mi interessava il giudizio del Manzoni su Napoleone espresso nell’ode Cinque Maggio. M’era parso di intendere nel verso “Fu vera gloria” tutta la perplessità del Manzoni, espressa, attenzione!, all’interno dell’ode stessa, difronte alla figura celebre e celebrata di Napoleone. I miei sospetti (“Ma non sarà che…?”) hanno però subito un cedimento improvviso. Sono corso così a cancellare dal post ogni considerazione sulle reali intenzioni del Manzoni e del suo “inno” (ai suoi tempi proibito dalla Polizia Austriaca perché giudicato troppo incensatore). Nel rispondere ai commenti al post sono peraltro venuti fuori altri dati interessanti. Dichiarazioni del Manzoni allo storiografo Cesare Cantù nelle quali l’autore del “Cinque Maggio” esprime appunto perplessità su Napoleone. E poi, l’ode “1821”, la quale dimostra, a certuni, che il Manzoni non fosse, almeno non del tutto, “vergine” di “servo encomio e di codardo oltraggio” – soprattutto, nel caso di “1821”, di “codardo oltraggio”. Avevo le dichiarazioni del Manzoni a Cantù e “Fu vera gloria”, ma giudicai insufficienti questi due elementi (e “1821”) per sostenere la tesi della perplessità del Manzoni nei confronti di Napoleone Bonaparte all’interno dell’ode tradotta in tedesco da Goethe “Il Cinque Maggio”. Il peana infatti abbonda di versi laudativi nei confronti di Bonaparte. Ma poi, rileggendolo con nuovi occhi, con sguardo rinnovato, mi sono accorto della presenza di alcuni lemmi leggermente ambigui: dal significato alquanto ambivalente. I lemmi sono: “fatale”, “vera” e “superba”. Tre aggettivi, due dei quali (“vera” e “superba”) in posizione attributiva.
Quando Manzoni usa “uom fatale” potrebbe sì voler dire uomo predestinato, grande, ma anche uomo fatale per chi lo incontra, pericoloso – quasi un calco alla rovescia di “femme fatale”: seduttore che conduce alla catastrofe. È un’interpretazione questa che si trova nei manuali, benché non sia la più sponsorizzata.
E segue l’aggettivo “superba”.
“Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
Chè più superba altezza
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò”. “Superba altezza”. “Superba altezza” potrebbe non voler dire solo “grande uomo”, “personalità superlativa”, come si pensa, ma significare anche, e soprattutto, “superba di superbia”: Napoleone peccava di superbia. Ecco perché Manzoni s’era messo a inneggiare con tanta forza e convinzione Napoleone: per arrivare al momento in cui avrebbe descritto il capo chino del condottiero difronte al Cristo. Manzoni non avrebbe mai scritti tutti quei versi encomiastici se non ci fosse stato quel momento, ma quelle parole servivano per fare di Napoleone non un esempio di umiltà difronte a Cristo, e dunque di conversione autentica alla fede, come comunemente si sostiene, ma un esempio difronte a Cristo di superbia piegata. Persino Napoleone, in punto di morte, si piegò alla superiore grandezza e autorità di Cristo; se lo ha fatto Napoleone, a maggior ragione non dobbiamo dimenticarci di farlo noi.
Perciò, nella mia rinnovata visione, il Manzoni, nella sua ode, affonda la lama, rilascia il veleno, ma subito si scapicolla a sollevar una cortina di versi elogiativi. Lo fa dopo “uom fatale”, lo fa dopo “Fu vera gloria” e lo fa dopo “superba altezza”. Per dissimulare, insabbiare. E lo fa con tale maestria, da farmi, sia chiaro!, assolutamente dubitare di questa mia stessa ipotesi interpretativa basata tassativamente su elementi interni all’ode medesima.
Ma ci sono altri segnali, secondo la mia sensibilità, nel testo manzoniano, che lasciano supporre un disagio, un non completo amore del Manzoni per Napoleone. Intanto, il Manzoni diviene improvvisamente protervo e si mette a parlare del suo genio poetico, il quale creerà un’ode immortale. Quasi come adeguandosi all’individualismo sfrenato di Napoleone, al tratto palesemente egotico della sua personalità, il Manzoni butta sul tavolo ciò che ha: il suo genio di poeta. E Napoleone aveva pure ambizioni di scrittore, perciò si tratta di un terreno ove è possibile un reale confronto. Poi, altro segnale di disagio è la ripetizione, nell’ode, della parola “posteri”: a cui prima viene affidata l'”ardua sentenza”, e poi serve a svelare i maneggi, i tentativi da parte di Bonaparte stesso, i posteri, di istruirli, influenzarli, orientarli con le memorie scritte di suo stesso pugno nel periodo dell’esilio. Manzoni parla di “posteri” avendo ben compreso che a Napoleone Bonaparte i posteri interessavano, interessavano eccome. Pertanto, potrebbe esserci una punta, assai ben dissimulata, di sarcasmo (“maliziosa bonarietà”, per la quale il Manzoni era ai contemporanei famoso) nell’uso da parte del grande poeta-scrittore di questa parola. In più, i posteri devono pronunciare “l’ardua sentenza”. Ora, come mai il Manzoni usa proprio quell’aggettivo, “ardua”? Perché sapeva, il Manzoni, che la grandezza di Napoleone non era pacifica. Come uomini si è portati a celebrarlo, ma alla luce della Parola di Cristo, parola, per l’autore del “Cinque Maggio”, di Verità, e di Giustizia, la questione diviene assai più spinosa.

Ma da cosa mi sono nati i primi sospetti? Mi è sembrato curioso il futuro autore dei Promessi Sposi fosse dalla parte di Napoleone: è qualcosa per me di inconcepibile che il cantore della figura del Cardinal Borromeo (la figura massimamente positiva dei Promessi Sposi) possa altresì essere sinceramente attratto dalla figura di Napoleone Bonaparte. E infatti, il Manzoni era coerentemente anti-napoleonico e poté scrivere la sua ode solo per la conversione (nel periodo dell’esilio nell’isola di Sant’Elena) di Bonaparte alla fede. Ma non ha rinunciato, il Manzoni, a inserire indizi, molto ben dissimulati (altrimenti, che ode sarebbe stata?!) del suo sentimento anti-napoleonico.

Anche un altro grande autore, che ha nella fede il principio cardine delle sue opere, ossia Leone Tolstoj, dipingerà negativamente (a differenza di Hugo, che ce l’aveva con Luigi Bonaparte, piuttosto che con Napoleone; e a differenza di Balzac) la figura di Bonaparte.
Il giudizio tolstojano è quasi una prova del nove, ai miei occhi, sull’impossibilità di un autore che abbia profondamente compreso il messaggio biblico-evangelico di riconoscere fino in fondo, di inneggiare senza indietreggiamenti la figura del Primo Console e poi Imperatore Bonaparte.