Il destino tra le dune

novella di Luciana Benotto

Mi rigiro tra le mani questo gioiello d’argento, un pesante bracciale berbero. È tanto che non lo estraggo dalla sua custodia, quasi fosse un oggetto magico che se avessi guardato troppo, avrebbe perso i suoi poteri. Mi lascio scivolare lentamente sulle ginocchia, sul lucido parquet della camera da letto, e mentre me lo infilo sul braccio sinistro, mi guardo nello specchio dell’anta: l’immagine riflessa mostra una donna sorridente. Chiudo gli occhi e la memoria riporta alla luce i ricordi.
“È il capitano De Giorgi che parla. L’atterraggio è previsto tra venti minuti circa. Il tempo a terra è buono, la temperatura e di 22° C.”
Guardo dall’oblò l’ultimo tratto di mare che mi separa dall’Africa: l’Africa torrida dei deserti, l’Africa dei Beduini, dei Berberi, della sete. Forse sono solo degli stereotipi quelli a cui penso, eppure mi affascinano lo stesso. Il deserto, quello di sabbia, ha sempre agito prepotentemente sul mio immaginario: le enormi dune costantemente smosse dal vento, che ti privano di ogni punto di riferimento, che fanno di chi è nato e cresciuto lì, un navigante in balìa di un mare formato da miliardi di granellini di sabbia dove gli unici porti, faticosamente raggiungibili, sono le oasi.
Sono così presa dai miei pensieri, che non mi accorgo che Stefania, da dietro, mi sta chiamando da alcuni istanti, fino a quando non sento scuotere il sedile.
“Isabella, è la prima volta che volo” dice emozionata “speriamo che questa vacanza sia come me la sono sognata”.
Le sorrido guardandola attraverso il ristretto spazio che separa i due sedili del DC 9.
Silvia, seduta accanto a me, continua imperterrita a riempire le caselline delle parole incrociate; ha lasciato a casa un marito noioso, un vero pantofolaio, e ha deciso di prendersi una boccata d’ossigeno “…e se mi capita un bel tipo” aveva precisato prima di partire, “non mi tirerò certo indietro.”
Atterriamo a Tunisi poco dopo le 11.00. Dobbiamo aspettare fino alle 21.00 l’aereo per Djerba: un’eternità.
“Sentite ragazze” dico “io non ho nessuna intenzione di stare qui dieci ore, che ne pensate se noleggiamo un’auto e andiamo a fare un giro fuori città? Magari a Cartagine…”
Stefania e Silvia si guardano un istante; dall’espressione dei loro volti capisco che accettano. Mezz’ora dopo ci troviamo su una Panda beige; costeggiamo per alcuni chilometri El Bahira, il lago di Tunisi punteggiato da morbide macchie rosa: i fenicotteri che svernano in questo bacino che d’estate si trasforma in un’immensa palude salmastra.
“Isabella, scattami una foto così” dice Stefania una volta giunte a Cartagine, dopo essersi messa dietro al busto di una statua maschile priva di testa e braccia.
“Non ha un bel torace muscoloso?” prosegue scherzosa.
Annuisco sorridendo e, mentre sto per scattare, penso a Salmace, la ninfa innamorata che rapì il bellissimo Ermafrodito e, dopo averlo condotto nelle limpide acque della sua fonte, ottenne dagli dei di potersi fondere con l’amato in un unico essere. Clic.
Potessi fondermi anch’io con un uomo, mi dico, uno col quale ci sia vera affinità. Ho bisogno di vivere un amore, un amore di quelli che ti sconvolgono l’esistenza, che te la cambiano davvero la vita. Ma a trentacinque anni forse non ho più speranze.
“Ti sei addormentata in piedi?” mi chiede ad un tratto Silvia. “Non mi dice niente questa Cartagine: sassi, sassi, nient’altro che sassi.”
“Rovine vorrai dire”.
“Sì, rovine, sassi, che differenza fa?”
“Carthago delenda est” aggiunge Stefi “lo diceva sempre la mia maestra delle elementari per sottolineare la potenza romana; era di Roma… capirai.”
“Ragazze, cercate di immaginarvi la città com’era, con la gente, le botteghe, le strade animate: viva.”
“Perché, tu la vedi così?” mi chiede Silvia.
“Posso, se voglio, con la fantasia puoi sognare quello che desideri”.
“Be’, che facciamo?” chiede Silvia annoiata.
“Andiamo a Sidi Bou Said?” propone Stefi.
Allargo le braccia desolata e consenziente, non posso certo infondere loro il mio amore per il passato, il fascino che provo per ciò che il tempo ha sgretolato, per chi è venuto prima di me e ha gioito e patito e ora, non è che polvere.
Eccoci a Sidi Bou Said. Posteggiamo inseguite da alcuni ragazzetti che vogliono farci da guida a tutti i costi, ma noi imperterrite ci incamminiamo e ci intrufoliamo per delle viuzze strette e ripide bordate da case calcinate coi portali azzurro carico punteggiati da borchie metalliche, che disegnano eleganti motivi geometrici. Le inferriate alle finestre, che paiono delicati merletti, mi fanno pensare alle donne arabe costrette da sempre all’intimità di queste abitazioni che, con tali porte e grate, assomigliano a inespugnabili prigioni dorate. Le immagino sedute a mangiare dolci mielosi e ipercalorici nei giardini freschi e segreti nascosti dietro le bianche facciate. Forse sognano un’altra vita, o forse no. Chissà.
Nella via principale i negozi traboccano di mercanzie: vasellame di rame cesellato, cestini di giunco, pouf di pelle, vasi smaltati, statuette intagliate nel legno di pino e olivo, gabbie per uccelli fatte di fil di ferro e legno bianco e blu, così leggere all’apparenza, che sembrano proprio adatte ad ospitare le creature dell’aria.
Mentre frugo assieme a Silvia su una bancarella alla ricerca di una djebbas, vengo avvolta da un profumo dolcissimo che sale lentamente per le narici e mi inebria. Mi guardo attorno per individuare la sua provenienza: una collana di candidi gelsomini al collo di un uomo.
“Gelsomini in dicembre?” dico ad alta voce, e lui in perfetto italiano mi risponde:
“È vero, gli ultimi dovrebbero essere in novembre, ma quest’anno il tempo è molto clemente, la bella stagione non vuole saperne di andarsene.”
I suoi occhi, verdissimi, mi fissano con insistenza sfacciata. Sembra ipnotizzato. Do uno strattone a Silvia. “Qui non c’è quello che cerco. Andiamo!”
“Guarda” dice lei “guarda questo. Il ricamo non è niente male.” Evidentemente non si è accorta del mio stato d’animo. Allora l’uomo interviene: “Lasci fare a me” ed entra nella bottega alle sue spalle per uscirne poco dopo con un bellissimo gilet ricamato in seta. Per non apparire scortese lo esamino, è davvero un bel capo.
“Quanto costa?” chiedo cercando di mantenere una voce asettica.
“Glielo regalo.” Risponde l’uomo.
“Non posso accettare” gli rispondo, mentre il cuore inizia a battermi in modo irregolare. Cos’ha quest’uomo? Che cos’hanno i suoi occhi?
“La ringrazio, ma proprio non posso accettare” proseguo mentre depongo la djebbas.
Lui ne approfitta per prendermi la mano.
“Mi perdoni” dice “non è mia abitudine comportarmi così… sia cortese” aggiunge con un tono di voce velatamente imbarazzato “mi dica il suo nome e quello dell’albergo dove alloggia.”
Mi sento mancare il respiro. Stefania invece esordisce con un: “La mia amica si chiama Isabella. Ma non è fortunato, perché stasera saremo lontane, saremo a Djerba, all’hotel Dar Djerba. Se ci verrà” dice ridendo “si ricordi di portare un amico” conclude divertita dalla sua stessa sfacciataggine, mentre io, infuriata, la strattono per un braccio e la porto via con me.
“Ma sei ammattita?” la rimprovero.
“Figurati se quello viene a Djerba!” controbatte. “E poi non è il caso di prendersela, siamo in vacanza, e a dirla tutta, non era mica brutto, anzi! Spero di trovarne uno così” conclude con voce sognante.

Il finale domani…