Lascia stupiti che in un periodo in cui si portano sullo schermo le biografie di tanti personaggi illustri nessun regista abbia girato un film su Giovanni Pascoli. La vicenda esistenziale di questo poeta è simile a un tragico feuilleton, costellata da perdite devastanti che gli lasceranno ferite insanabili nell’animo. A soli 12 anni Pascoli, fino allora bambino sereno in una famiglia della piccola borghesia agraria romagnola, perde il padre, ucciso con una fucilata da un assassino che rimarrà sconosciuto, l’anno dopo muoiono di tifo la sorella maggiore e di crepacuore la madre, infine due anni dopo perirà anche un altro fratello. Dopo una giovinezza di studio e ribellione, saranno il vino e il laudano a confortare la solitudine del poeta, che nel frattempo diverrà professore di letteratura e conoscerà il successo.

La mia sera si può considerare una sorta di testamento spirituale: ormai arrivato a una precoce vecchiaia, il poeta si riconcilia con la vita che oltre ai numerosi lutti gli ha regalato le gioie che solo la natura può concedere all’uomo.

Pascoli non riuscì mai a costruirsi una famiglia o almeno un legame di coppia stabile perché terrorizzato all’idea di affezionarsi a qualcuno e poi perderlo, come gli era capitato con i suoi cari, l’unico legame intenso e profondo che si permise (oltre a quello con la soffocante sorella Mariù) fu con la natura, perché essa è eterna, immortale e ci dà la certezza della luce del giorno che sorge sempre dopo il buio della notte.

Almeno la natura, pensava Pascoli, non poteva abbandonarlo.

In questa poesia, egli descrive l’arrivo di una sera primaverile dopo i violenti temporali del giorno.

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

DonDon… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.

La sera che sopraggiunge è un’allegoria della vecchiaia del poeta (infatti la definisce con l’aggettivo possessivo “mia”), mentre il giorno pieno di lampi rappresenta il dolore sofferto durante la sua esistenza, dall’età giovanile alla maturità. Nella lirica, finalmente le nubi scure e tempestose della giornata lasciano il posto ai cirri rosa di un pacifico tramonto, la pioggia che pareva non finire mai si è trasformata in un rigagnolo canterino. L’accenno alle rondini che col sereno possono uscire dal nido per andare in cerca del cibo da portare ai loro piccoli è un’allusione alla vicenda personale di Pascoli, anche a lui è mancato il cibo, cioè l’affetto, da parte dei genitori, “La parte, sì piccola,…non l’ebbero intera. Né io…”.

Ma ora, ormai anziano, il poeta sente nel tramonto le voci di tenebra azzurra: nella realtà è il suono delle campane ma per lui sono le voci dei suoi familiari che da un luogo di pace (“tenebra azzurra”) sembrano chiamarlo, invitandolo a ricongiungersi con loro. Non c’è timore della morte in Pascoli: l’armonia della natura, col canto degli uccelli, il cielo che sempre torna a rasserenarsi, il crepuscolo rosato, lo rassicura. Quello che lo attende alla fine di un percorso esistenziale travagliato e intriso di affanni è il canto della madre, che lo cullerà, come quando da bambino nelle sue braccia si sentiva amato e al sicuro da ogni male.