LA POESIA DI MARIA TERESA LIUZZO: IL BELLO TRA SPIRITUALITA’ E SENSO

di RINO CERMINARA (POETA – SAGGISTA – CRITICO LETTERARIO)

Con la pubblicazione dei suoi due ultimi volumi, uno nel giugno 2001 e l’altro nelle prime due settimane dell’anno andante, Maria Teresa Liuzzo è definitivamente entrata nel novero degli autori della letteratura contemporanea.

Il primo dei volumi citati è ”L’acqua è battito lento”, con presentazione di Vincenzo Rossi e nota di Giorgio Bàrberi Squarotti, a testimonianza del suo straordinario impegno creativo che non conosce soste, nell’offrire la sua visione di vita, oltre la cronaca e la storia, continuamente rinnovandosi nell’alternanza tra visionarietà e riflessione, descrizione e profezia. ”L’acqua è battito lento”, ma non la sua suggestione poetica, che ha un ritmo incalzante e panico, tumultuoso e ricco di impeti, nell’inarrestabile veemenza lirica: ”Oltre il silenzio colgo / rovi di luce, / il dramma dell’ombra: alga sono / attratta dagli abissi.” E ancor prima con versi brevi di rara efficacia aveva dichiarato: ”Correnti mi sospingono / ai mari dell’oltre, / dove ricerco un fiore / nei fondali.” La sua creazione si compie, come bene annota Vincenzo Rossi, nell’acuta presentazione ”in atti di velocità su vertici acuminati dal verticalismo intuitivo e toglie alla poetessa la facoltà di domandarsi se i lettori, se coloro che sottoporranno a tensione interpretativa la sua scrittura rarefatta riusciranno a cogliere i suoi sensi, le sue invenzioni, le intuizioni, i tremiti istintuali. ”Ma il suo pensiero che è insieme” arco e freccia nella tempesta dell’anima”, non può piegarsi a questo tipo di riflessione, intento com’è a rivestire le stelle che brillano sulla scena del suo perenne disincanto. E’ il senso dell’inarrestabile fluire dell’acqua e del tempo, acqua che scorre nelle terre del mondo, tempo che passa ininterrotto e noi uomini, nel loro flusso, non siamo, a giudizio della Liuzzo, altro che brandelli.

”Dalla consapevolezza dell’apparire e del disparire di ogni forma e creatura si genera, a giudizio di Franca Alaimo – altra notevole poetessa isolana, che risiede all’altra sponda della Stretto – quel movimento vorticoso di immagini, che caratterizza questa poesia, dove si rispecchiano il caos e la solitudine fondamentale di ogni esistenza e nello stesso tempo, si innesta una luce di letizia derivante dalla certezza che il canto resterà, che scavalcherà la barriera”. Una vita trascorre, si rincorre e si riconosce nel minuto simbolismo e nelle ricorrenti oasi di genuinità ed aneliti, che illuminano pazienti il buio della vita. Prevale una limpidezza di tono, con una spiritualità che s’annida anche nelle pulsioni sensitive, una dedizione alla vita sorretta da ardite impalcature, in un’architettura slanciata ma attenta ai moti interiori. Lungo questi itinerari di personalissimo impegno, procede alla luce discreta del suo astro tutelare, la luna che muore e rinasce a tutte le improvvise insorgenze dei suoi sentimenti, poiché solo ciò che è apparentemente fuggevole, dura eternamente, nella concezione riflessiva e introspettiva del suo pensiero intimo, che sublima l’esperienza quotidiana.

Il secondo volume, edito quest’anno, di ancora maggiore spessore, ”Autopsia d’Immagine”, reca una lunga prefazione di Antonio Crecchia ed è una fiumara di luce, con gorghi di estrema vitalità, sedimenti, visioni mai rarefatte, ma dalle tonalità estreme. Una corsa infinita e inesausta per scalare il colle della poesia, in direzione di un universo apparentemente onirico, evanescente, improbabile. Quando c’è l’incontro con il colore è un rosso acceso marcatamente eccessivo, come a voler sottolineare che più risuona la sua poesia, più cessa il mondo reale: ”Su albero di luce / pendono memorie, colonne / fra ruderi e solitudine. ”E’ il senso dell’effimero che l’affascina: la bellezza muore, ma a lei non potrà essere rimproverato di aver mancato di provare a coglierla, di non aver cercato di essere all’altezza di questo privilegio, nella nobile linearità espressiva del suo profilo policromo: ”Un sogno / ai margini del tempo / a un passo dell’eternità”. Viene in mente la quasimodiana memoria ”poetica della parola”. Del resto la Liuzzo, geograficamente è una lontana dirimpettaia di Quasimodo, anche se sulla costa viola del bergamotto, difficilmente arriva il furore dello scirocco africano, che invece investe Modica, senza che i Monti Iblei, cari a Bufalino, riescono a proteggerla, perché sono alle spalle. Questo, senza voler trascurare quanto ha scritto Nino Borsellino, avvertendo che: ”Il paradigma geografico, tanto efficace, come cartografia di realtà culturali separate, si è rivelato inadatto a ricomporre la trama storica della letteratura”. C’è la stessa carica segreta, con motivazioni meramente sentimentali, nella ricerca abbastanza evidente di un colloquio, ma con un interlocutore altrettanto impreciso e indecifrabile: ”Vento di mistero alita…”.

Nel libro si ritrovano Eden smarriti che si intrecciano con i miti in un’armonia indistinta sul ritmo di giorni lontani, per raccontare la passione dell’esistere nella vastità della sua espressione tra il sogno e la morte, alla quale emblematicamente allude lo stesso titolo della raccolta. La Liuzzo conferma quanto Agostino andava confessando: che la gioia si consuma perché perde ciò che desidera nel momento stesso in cui lo possiede, anche se qualche traccia rimane nella memoria, ma resta la speranza perché si annida nel cuore: ”Ma la speranza / è l’unica acqua / che lambisce i giorni.”

In questa semplificazione del puro lirismo in esiti volutamente ultralirici, ricordi che non sono ragnatele, ma la trama limpida delle ceppaie del tempo, minore è l’attenzione alle ragioni sociali ed etiche della poesia, come oltremodo lontano è ogni sperimentalismo, troppo tecnico e superficiale per una poesia che non inclina ad alcun gioco di intelligenza, ma ricerca l’arditezza e la ricchezza di immagini, l’abilità fantastica di un Apollinaire, come evidenziato nella lunga partecipe prefazione. Già alcuni anni or sono, Peter Russell annotava che i teorizzanti dei canoni della composizione poetica non capiranno mai la poesia della Liuzzo, perché credono da postmodernisti quali si ritrovano, che il linguaggio sia la misura del tutto. Una poesia, comunque, non improvvisata, ma improvvisa ed insieme elaborata, raffinata, creativa nel senso più intimamente etimologico del termine, che si alimenta di mille rivoli e reticoli di suoni, di colori di aromi, di luci, in un moto interno di magmatica sostanza, interamente scaturente e proteso verso la natura. Ne conviene un biennio dopo il giudizio di Russell, anche Ferruccio Ulivi, che parla di una poesia turgida di immagini, ricca di colore, frequente di accenti e di slanci come un appassionato diario. Una figura, perciò, intelligente e affascinante della poetica del nuovo Millennio, stimata dai maggiori esponenti della letteratura nazionale ed internazionale, con una poesia che danza tra colori e idee, in una pacata e classica bellezza. Di questo privilegio che si caratterizza come scelta esistenziale, inclinante verso lo stupore artistico e la meraviglia estetica, in una sofferta fusione di esperienza, forse sarebbe necessaria una ideale sinestesia per comprendere appieno la portata, non bastando la sola indagine critica, anche se spesso non è il critico a giudicare l’opera, quanto l’opera a far soppesare il critico. In questa accesa policromia postespressionista, in questo fluire di versi che non sono solo supporto ma musica sublime, questo fare poesia come pittura è l’aspetto più evidente ed autentico di questa ansia di fuga da una terra troppo limitata ed esigua verso aperti mari ed ebbri mattini di luce. Pertanto, più che l’infruttuosa ricerca di ascendenti e influenze o la delimitazione di canoni selettivi ed istintuali, conta di questa poesia la solarità geneticamente mediterranea, lampara colorata con rostro per ancorarsi sicuri a immaginarie rive.

                                                              Rino Cerminara