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“Buongiorno, apriamo il radiogiornale con la notizia sui i resti ritrovati nel sito etrusco di Viterbo. È stato reso noto che appartengono al corpo del Produttore Giovanni Bonaparte, scomparso a Roma vent’anni fa in circostanze misteriose. Gli inquirenti indagano nell’ambiguo ambiente dei collezionisti romani. Ricordiamo che il produttore all’epoca della scomparsa aveva 31 anni e si era appena sposato con la regista Antonia Barento, vincitrice quest’anno dell’Oscar per il miglior film straniero.”

«Marina Siena». Chiamò la giovane assistente di scena ad alta voce e io seduta in platea alzai tutto il braccio, muovendo freneticamente la mano.
«Prego, salga sul palco, tra pochi minuti si comincia». Posizionò il tavolino della regista aggiungendo la penna per le annotazioni e il copione. Mi avvicinai per osservarlo. Era l’originale, ricco di appunti e sottolineature, le lettere NBR in alto erano cerchiate in rosso. Riconobbi la firma dolce e rotonda, ricca di fronzoli e svolazzi.
«Una precisazione,» disse «ora comincia Ludo, l’aiuto regista, quello alto e riccio che vede là con indosso la polo bianca,» indicando un affascinante uomo brizzolato con un filo di barba in piedi davanti al backstage «se il provino sarà di suo gradimento, interverrà anche la regista. È chiaro?». Annuì. «Ha qualche domanda?».
«No, nessuna».
«Bene, Tony Barento è dietro le quinte con tutta la sua cordata di leccapiedi. Ma la seguirà». Abbozzai un sorriso, «In bocca al lupo».

Ripensai a quando avevo conosciuto Antonia, tornando con la mente al 1973 e al suo Galà a Corso Venezia dopo la nomination al Festival di Cannes. Giovanni sempre al suo fianco, sembrava intimorito, rimasi scioccata quando seppi delle loro nozze. Mi ricordava la ragazza rotondetta della serie Scooby-Doo, con il caschetto rosso e gli occhiali giganti, bruttina ma geniale. Ne aveva fatta di strada, e non si può dire la stessa cosa di me. Più lei saliva nella scala del successo, più io scendevo nel baratro del fallimento. Ma ero decisa a ottenere la mia ricompensa dopo vent’anni.
«Prego…». Ludo mi invitò al centro del palcoscenico e contemporaneamente si sedette con le dita incrociate sotto il mento e i gomiti sul tavolino. Le gambe mi tremarono all’improvviso e mi irrigidì per la tensione.
«Sono mortificata». Dissi incassando la testa tra le spalle e fissandomi i piedi, quando si avvicinò. Avrei voluto sotterrarmi per la vergogna.
«Riprovi». Smarrita mi guardai intorno, il suggeritore nascose la bocca dietro al copione, aveva gli occhi strizzati e la faccia rossa per quanto stava ridendo. Ludo appoggiò una mano sotto il mio petto «Respiri…», mi sentì pervadere da uno stato di estasi, sentì risvegliarsi qualcosa dentro e anche lì sotto, «immagini di aspettare un uomo tutta la vita… o un figlio». Avvertì il vuoto. Chiusi gli occhi e sentì la sua mano insinuandosi tra le dita strette a pugno. «Provi a pensare cosa le manca di più e quanto le costa non averla. La privazione, il dolore dell’assenza, il dubbio, l’incertezza». Tremai per la scossa che mi aveva provocato e tentai di cacciare via l’angoscia straziante. Riaprì gli occhi, mi stava fissando. «Ora è pronta». Mi incitò lasciandomi tutto lo spazio. E io divenni Penelope.

«Magnifica!». La voce tagliente di Tony mi ridestò dall’intensa trance emotiva e avvertì uno strano disagio nel trovarla improvvisamente alla mia sinistra senza averne percepito la presenza prima. Lo sguardo ostile contrastava con il sorriso elegante, la seguì con gli occhi mentre rigida e altera si muoveva come una prima donna verso il proscenio. Era visibilmente cambiata.
«È stata brava, vero?». Chiese con l’espressione beffarda dipinta in viso rivolgendosi al suo staff che la rincorreva come tanti zerbini gaudenti, e avvertì un impercettibile “si”. Solo Ludo restò impassibile dietro al tavolino, apparentemente impegnato a prendere appunti, mentre l’assistente chiacchierava con un giovane di spalle di cui vedevo solo il tatuaggio di una Jambiya che sbucava sotto la manica arrotolata.

Della ragazza grassottella e spontanea che ricordavo, non era rimasto nulla se non il guizzo negli occhi, e forse la mia ingenuità aveva scambiato per schiettezza quello che era già un atteggiamento opportunista. Portava i capelli cortissimi di un bianco argento, sparati verso l’alto e i grandi occhiali in tartaruga erano stati sostituiti da una montatura sottile e colorata di giallo.
«Se non fosse stato per le tecnica di Ludo, ci saremmo persi la miglior performance di tutto il giorno», Mi adulò con malcelata malizia abbassando il mento e sorridendo velenosa, «Peccato… avevo voglia di ridere ancora un po’…».

Michela Santini

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