Quando non c’era la televisione, quando sulle strade passavano i carretti e la gente andava al lavoro in bicicletta, il paesaggio sonoro non era sovrastato dal rombo dei motori ma dalle voci dialettali che si incrociavano con richiami, fischi, lazzi più o meno raffinati. Anche in qualunque incontro fra amici non mancava mai lo scambio di battute ironiche costellate di icastici epiteti tipo “batacana! durdu! ciapaquaji! fafiuché! Vat a fè quatè!…”
E tra un paese e l’altro, scoccavano le rivalità di campanile, che portavano a lanciarsi coloratissimi insulti (quelli che i folkloristi chiamano “blasoni popolari”) che in certe occasioni (le visite di leva e le feste patronali in particolar modo) potevano degenerare dalla contesa verbale a veri e propri scontri, con sassaiole, uso di vari tipi di armi improprie che lasciavano sul terreno teste ammaccate o sanguinanti.
Er Castlas, Castellazzo Bormida, la Gamondio del Medioevo, era un importante centro agricolo-commerciale: gli ortolani smerciavano i loro ottimi prodotti in tutta la provincia, ma il fulcro dell’economia era rappresentato dalle filande della seta, alimentate dalla fiorente bachicoltura che proprio al Castlas generava un vivace e affollato mercato della foglia dei gelsi e poi dei bozzoli (al mercà di cucalén). Ovvio, quindi, che dal numeroso flusso di popolazione dalla campagna al paese e dal paese alla città capoluogo, nascessero fra i giovani di entrambi i sessi, simpatie e antipatie, amori e rancori, quasi sempre esternati in strambotti e strofette canzonatorie salaci e divertenti,
Come quella che qui sotto vi presento.