Sul dorso di un mulo
attraverso assorto l’anima
-Gerusalemme, la diletta-.

Fissità di ferrose palme
il passato,
quale Dio
si è fermato?

Stretti, petrosi i sentieri,
incespica il mulo
su sassi invisibilmente
acuminati

Un ragliare violento è il suo saluto
quasi grido di aiuto
e cade,
poi si rialza, cade ancora,

una fune gli hanno teso
tra le zampe;
uno sgambetto amaro,
-mia è la sua fatica-.

E perde un ferro,
aumenta l’affanno.
Il calunniatore si affaccia all’angolo,
strabico, senza denti, rosso violetto
roteano le sue pupille
atrocemente affisse:

è a me che guarda
un ghigno la sua risata
di un livore assatanato
Grido come un forsennato:
“Dio mio, Dio mio
perché mi hai abbandonato?”