Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense. Conosciuta per le sue poesie, scrisse il romanzo semi autobiografico La campana di vetro (The Bell Jar) sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas. Sempre sospesa tra luci ed ombre. Tra entusiasmo e depressione. Tra voglia di vivere e desiderio di morire. Così rascorse la sua breve esistenza.
Nacque in un distretto di Boston da genitori immigrati tedeschi;
Sylvia Plath dimostrò un talento precoce, pubblicando la sua prima poesia all’età di otto anni. Nello stesso anno, suo padre subì l’amputazione di una gamba e morì in seguito alle complicazioni di un diabete mellito, la perdita del padre lasciò un segno indelebile nella vita della Plath. E, fin da bambina, sarà per sempre attratta, ciclicamente, dal buio, dai suoi fantasmi, dalla morte :«Papà ammazzarti avrei dovuto ma sei morto prima che io ci riuscissi», scrisse nel 1960, nella poesia Daddy. «Tu greve marmo, sacco pieno di Dio statua orrenda dal grigio alluce grosso come una foca di frisco […] mai parlarti ho potuto, mi s’incollava la lingua al palato. Mi s’incollava a un filo spinato […] ho avuto sempre terrore di te […] fabbricai un modello di te, uomo in nero dall’aria Meinkampf […] Papà carogna, ho finito»: così si concludono i versi. L’ossessione verso il padre non sarà mai risolta nella sua vita. Infatti soffrì durante tutta la sua vita adulta per una grave forma di depressione ricorrente tra periodi di intensa vitalità: «Il mio iniziale, disperato slancio di entusiasmo nei confronti degli altri è il residuo del mio antico timore che le persone se ne vadano e mi abbandonino», ha scritto, «costringendomi a rimanere sola. Ho passato tutta la vita a farmi scaricare dalle persone che amavo di più. Papà che muore e mi abbandona, mamma in qualche modo assente […] riempio gli incidenti più banali come può essere un ritardo di qualcuno che amo, di un contenuto emotivo freddo…» Era entrata nello Smith College con una borsa di studio nel 1950, ma nel penultimo anno, il 26 Agosto 1953, tentò per la prima volta il suicidio. In seguito descrisse la crisi che l’aveva colpita nell’estate del 1953 nel romanzo semi-autobiografico, La campana di vetro (The Bell Jar). Al tentativo di suicidio seguì il ricovero in un istituto psichiatrico, il McLean Hospital, dove conobbe Ruth Beuscher, la psichiatra che la seguirà per tutta la vita. Uscita dall’ospedale si laurea, ottenendo la lode nel 1955. Sylvia Plath ottenne una borsa di studio Fulbright per l’università di Cambridge in Inghilterra, dove continuò a scrivere poesie, pubblicando a volte le sue opere sul giornale studentesco Varsity. Qui, precisamente il 25 febbraio 1956, conosce Ted Hughes, in occasione di un party per una rivista in cui Hughes aveva pubblicato delle sue opere, che hanno molto colpito Sylvia. I due hanno una forte attrazione fisica, ma a unirli non è solo quello: condividono un amore profondo per la poesia. Si sposano solo l’anno successivo, nel 1956. In gran segreto. Sylvia temeva infatti di perdere, a causa del matrimonio, la borsa di studio Fulbright ottenuta nel 1955. Lei impegnata nel secondo anno a Cambridge, lui nello Yorkshire – i due si scrivono lunghe lettere (molte delle quali, anni dopo, saranno bruciate proprio da Hughes). Credo onestamente che grazie a una qualche mistica unione siamo diventati una sola carne», gli scrive lei. «Sono solo malata, fisicamente malata, senza di te. Piango; poso la testa sul pavimento; soffoco, odio mangiare; odio dormire, o andare a letto… Vivo in una sorta di morte in vita…». La lontananza, però, e qualche distrazione di lui, porta la coppia a entrare in crisi. Una crisi nera dalla quale è impossibile uscire. Alla fine del 1959, soggiornarono a Yaddo, la famosa colonia per artisti, in cui Sylvia Plath iniziò a far uscire la sua vera voce poetica e a scrivere molte delle poesie che verranno poi contenute nella sua prima raccolta, “Il colosso”. Il 1 aprile 1960 nacque la loro primogenita Frieda Rebecca. Nello stesso periodo, Sylvia Plath pubblicò la prima raccolta di poesie, The Colossus, in Inghilterra. Nel febbraio 1961 subì un aborto spontaneo a seguito di un episodio di violenza fisica da parte di suo marito Ted Hughes, come Plath scrisse in una lettera indirizzata al suo terapista. Diverse poesie fanno riferimento a questo evento. Nell’estate del 1961 Sylvia terminò quel che rimase il suo primo ed unico romanzo, La campana di vetro (The Bell Jar). Il 17 gennaio 1962 diede alla luce il loro secondo figlio, Nicholas Farrar. Poco dopo il loro matrimonio si incrinò definitivamente a causa della relazione che Hughes aveva iniziato con Assia Wevill. Si separarono alla fine di quell’estate del 1962. In quel periodo scrisse tantissime poesie e completò la sua seconda raccolta, Ariel, è solo nel 2004 che la figlia Frieda diede alle stampe la versione restaurata, “Ariel: The Restored Edition”, il manoscritto originale. L’inverno tra il 1962 e il 1963 fu molto duro, il più freddo degli ultimi cent’anni, la mancanza di soldi, la solitudine e la salute dei figli spesso malati cominciarono a pesarle. La depressione era tornata. L’11 febbraio 1963 era passato solo un mese dalla pubblicazione de La campana di vetro quando Sylvia Plath si tolse la vita: verso le 4.30 di mattina, sigillò porta e finestre della cucina ed inserì la testa nel forno a gas, non prima di aver preparato pane, burro e due tazze di latte ed aver spalancato la finestra della camera dei suoi bambini. È difficile spiegare se nel suicidio della poetessa ci fosse il desiderio di essere rimpianta da un marito troppo amato e finito tra le braccia di un’altra, o i tormenti esistenziali che si portava dietro dalla gioventù;
Voleva fermare l’attimo e renderlo eterno, squarciare il cielo con la sua scrittura inzuppata di poesia, ogni volta che si trovava di fronte ad una pagina bianca Sylvia cercava di riempirla con un flusso anarchico di parole, “come se” quel foglio fosse un vuoto da colmare, uno spazio intimo su cui imprimere il tempo, le emozioni e i pensieri.Vivere e scrivere, un binomio inscindibile e complicato.

Sylvia Plath e Ted Hughes, l’amore finito in tragedia
Quello tra Sylvia Plath e Ted Hughes non fu un rapporto felice, ma anzi tormentato e ambiguo, terminato definitivamente con il suicidio della poetessa. Un amore straziante, malato, distruttivo: due anime che finirono per nutrire col tormento dell’uno il dolore dell’altro.

Lettera d’amore
Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
anche se, come una pietra, non me ne curavo
e me ne stavo dov’ero per abitudine.

Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no-
e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo
di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,
di comprendere l’azzurro, o le stelle.

Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
mascherato da sasso nero tra i sassi neri
nel bianco iato dell’inverno
come i miei vicini, senza trarre alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente cesellate
che si posavano a ogni istante per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,
angeli piangenti su nature spente,
Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,
e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada
limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte
pietre stolide e inespressive,
Io guardavo e non capivo.

Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi
per riversarmi fuori come un liquido
tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante
Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.
Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.
Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da pietra a nuvola, e così salii in lato.
Ora assomiglio a una specie di dio
e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono..

*Versi d’amore e di disperazione di una poetessa estremamente talentuosa e sensibile. Aveva riversato su quest’uomo tutto il suo mondo interiore passionale e sofferente, vedendo in lui un modo per germogliare a nuova vita, un peso troppo gravoso per un essere umano. Un uomo che poi ha fallito miseramente, l’ha delusa e ferita anche fisicamente sottraendole ancora una volta la speranza di avere qualcuno da amare. Una donna gravata dal pesante fardello della depressione che la porterà alla tragedia finale e come una terribile maledizione, anche un figlio, da adulto, non riuscirà a superare il trauma infantile e seguirà il destino della madre togliendosi la vita.