I misteri del Bosco sacro di Bomarzo, di Luciana Benotto

Perdersi tra i sentieri di un bosco magico popolato da esseri mitologici è un po’ come compiere un viaggio onirico ad occhi aperti alla ricerca di noi stessi, delle nostre emozioni più profonde, dei desideri dimenticati, del nostro lato oscuro. Un viaggio del genere lo si può intraprendere nel bosco sacro di Bomarzo, lo stesso dal quale Torquato Tasso trasse ispirazione per le fantastiche imprese dei suoi cavalieri nella Gerusalemme Liberata. Questo luogo delle meraviglie è uno dei più misteriosi tesori d’Europa, un parco bizzarro, popolato da enormi statue disseminate sopra una collina situata nei pressi di Bomarzo, una cittadina a pochi chilometri da Viterbo, che fu ideato dall’architetto Pirro Ligorio. Lo volle nel 1552, il principe Pier Francesco Orsini “sol per sfogare il core”. Come dice un’iscrizione; è infatti un inno all’amore per la seconda moglie Giulia Farnese, morta giovanissima. Per la sua creazione occorsero trent’anni, tuttavia appena morì l’Orsini, il parco cadde nell’oblio: le sue statue furono lentamente e inesorabilmente ricoperte dalla vegetazione e dal muschio e dormirono un sonno lungo quattrocento anni, dimenticate da più, ma ben presenti nell’immaginario degli abitanti di Bomarzo che di quel luogo avevano sacro timore. Essi credevano che il bosco fosse infestato da strani spiriti, e infatti, lo avevano ribattezzato parco dei mostri. Il luogo fu riscoperto da Salvador Dalì negli anni ’30, ma fu solo grazie ad un amante dell’arte: Giovanni Bettini, che nel 1953 acquistò l’intero giardino, che questo cominciò a svegliarsi. Ma entriamoci e passeggiamo per i suoi sentieri, pronti a meravigliarci di fronte alle sue sorprese.

Oltrepassata la porta di pietra sovrastata da merli e dallo stemma del casato, il visitatore incontra subito due Sfingi, simbolo d’impenetrabilità per i profani ai misteri ermetici. Chi non ricorda la terribile Sfinge tebana che uccideva coloro che non rispondevano al suo enigma? Anche queste due si rivolgono a noi con parole sibilline e ci chiedono un responso: “Chi con ciglia inarcate et labbra strette non va per questo loco manco ammira le famose del mondo moli sette” e “Tu ch’entri qua pon mente a parte e dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte”.

In fondo al vialetto a sinistra, troviamo Saturno dio dei campi seminati e dei tesori racchiusi nella terra che ci osserva con aria bonaria; ecco poi Giano bifronte, che guarda nel passato e nel futuro, ed è il più antico degli dei romani, spirito d’ogni porta, di tutti i passaggi, perché si credeva fosse determinante la sua protezione all’inizio di ogni percorso. Appare indi Glauco, il pescatore di Beozia che, avendo visto alcuni pesci da lui posti su una certa erba riprendere forza e saltare nell’acqua, mangiò quell’erba e subito si sentì l’irresistibile spinta di gettarsi in mare. Sull’enorme testa regge il globo terrestre sormontato dal castello turrito degli Orsini, a dimostrazione della loro potenza nel mondo.

Nel percorso si intrecciano sentieri scoscesi e labirintici che disorientano e fanno perdere il senso del tempo. Lì, nascosti tra il fogliame, appaiono e scompaiono altri personaggi, tra i quali la Ninfa marina, che stringe nella mano destra una melagrana, simbolo di sacri misteri, in quanto legata al mito del rapimento di Proserpina da parte di Plutone, dio dell’Ade. Costui, infatti, il giorno che decise di rapirla, lo fece mentre la fanciulla stava cogliendo dei fiori: le aprì all’improvviso una voragine sotto i piedi precipitandola immediatamente nel suo oscuro regno, dal quale non poté più ritornare sulla terra se non in primavera, perché laggiù si era cibata di alcuni chicchi de melagrana.

Continua…