editorialeIl mare regala libertà, illude con la prospettiva di nuovi orizzonti che saranno sempre al di là della finitudine visibile a occhio nudo, nell’illusoria ricerca delle mitiche Colonne d’Ercole, da sempre simbolo della fine del mondo com’era conosciuto dall’uomo. Il mare riflette speranze che aprono a una vita dignitosa per tutti i disperati che, terrorizzati, fuggono da paesi martoriati dalla violenza, dalle guerre secolari e dalla fame. Qualunque situazione si voglia intraprendere, al di là del mare, è sempre preferibile alla miseria e alle persecuzioni etniche, religiose, razziali, politiche e culturali. Affrontare il mare è come gettarsi nel vuoto, ma è anche, paradossalmente, un sollievo perché offre una via d’uscita, una fievole fiducia nella ripresa della propria esistenza su basi più umane. La paura dell’ignoto scompare dinanzi alla paura di continuare a sopravvivere in zone dove un essere umano non vale niente, dove le donne sono strumenti di guerra e i crimini si giustificano con le ideologie, obliando ogni limite etico e ogni minimo spiraglio di umanità. Intanto,vedo con rammarico che, nonostante siano passati anni, si continuano a innalzare muri, fili spinati, frontiere fortificate che contraddicono i valori della democrazia e abbrutiscono gli esseri umani. Le migrazioni ci sono sempre state e sappiamo bene che il corso della storia si ripete, ma proprio attraverso gli eventi verificatisi nel tempo, ricordando i bastimenti che, tra fine ‘800 e primi anni ‘900, traghettavano tanti nostri connazionali verso le Americhe, in quelle terze classi cariche di vite umane ammucchiate alla rinfusa, si potrebbe imparare a gestire  il fenomeno migratorio, adottando quella parola che forse stiamo dimenticando e che si chiama solidarietà. Sarebbe un’utopia  cominciare a ridurre le disuguaglianze e le ingiustizie, i pregiudizi e le cattiverie gratuite, così che ogni persona possa vivere una vita libera e dignitosa? Non è questa la sede per addentrarmi in disquisizioni politico-sociali, ma vorrei solo aggiungere, in conclusione, che se ben organizzato e condotto con i giusti criteri, anche il flusso di un’immigrazione insostenibile potrebbe diventare non solo un’opportunità, ma una necessità per chi fa dell’accoglienza e dell’altruismo uno stile di vita.

Gli emigranti

Cogli occhi spenti, con lo guancie cave,

Pallidi, in atto addolorato e grave,

Sorreggendo le donne affrante e smorte,

Ascendono la nave

Come s’ascende il palco de la morte.

E ognun sul petto trepido si serra

Tutto quel che possiede su la terra.

Altri un misero involto, altri un patito

Bimbo, che gli s’afferra

Al collo, dalle immense acque atterrito.

Salgono in lunga fila, umili e muti,

E sopra i volti appar bruni e sparuti

Umido ancora il desolato affanno

Degli estremi saluti

Dati ai monti che più non rivedranno.

Salgono, e ognuno la pupilla mesta

Sulla ricca e gentil Genova arresta,

Intento in atto di stupor profondo,

Come sopra una festa

Fisserebbe lo sguardo un moribondo.

Ammonticchiati là come giumenti

Sulla gelida prua morsa dai venti,

Migrano a terre inospiti e lontane;

Laceri e macilenti,

Varcano i mari per cercar del pane.

Traditi da un mercante menzognero,

Vanno, oggetto di scherno allo straniero,

Bestie da soma, dispregiati iloti,

Carne da cimitero,

Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti.

Vanno, ignari di tutto, ove li porta

La fame, in terre ove altra gente è morta;

Come il pezzente cieco o vagabondo

Erra di porta in porta,

Essi così vanno di mondo in mondo.

Vanno coi figli come un gran tesoro

Celando in petto una moneta d’oro,

Frutto segreto d’infiniti stonti,

E le donne con loro,

Istupidite martiri piangenti.

Pur nell’angoscia di quell’ultim’ora

Il suol che li rifiuta amano ancora;

L’amano ancora il maledetto suolo

Che i figli suoi divora,

Dove sudano mille e campa un solo.

E li han nel core in quei solenni istanti

I bei clivi di allegre acque sonanti,

E le chiesette candide, e i pacati

Laghi cinti di piante,

E i villaggi tranquilli ove son nati!

E ognuno forse sprigionando un grido,

Se lo potesse, tornerebbe al lido;

Tornerebbe a morir sopra i nativi

Monti, nel triste nido

Dove piangono i suoi vecchi malvivi.

Addio, poveri vecchi! In men d’un anno

Rosi dalla miseria e dall’affanno,

Forse morrete là senza compianto,

E i figli nol sapranno,

E andrete ignudi e soli al camposanto.

Poveri vecchi, addio! Forse a quest’ora

Dai muti clivi che il tramonto indora

La man levate i figli a benedire…

Benediteli ancora:

Tutti vanno a soffrir, molti a morire.

Ecco il naviglio maestoso e lento

Salpa, Genova gira, alita il vento.

Sul vago lido si distende un velo,

E il drappello sgomento

Solleva un grido desolato al cielo.

Chi al lido che dispar tende le braccia.

Chi nell’involto suo china la faccia,

Chi versando un’amara onda dagli occhi

La sua compagna abbraccia,

Chi supplicando Iddio piega i ginocchi.

E il naviglio s’affretta, e il giorno muore,

E un suon di pianti e d’urli di dolore

Vagamente confuso al suon dell’onda

Viene a morir nel core

De la folla che guarda da la sponda.

Addio, fratelli! Addio, turba dolente!

Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente,

V’allieti il sole il misero viaggio;

Addio, povera gente,

Datevi pace e fatevi coraggio.

Stringete il nodo dei fraterni affetti.

Riparate dal freddo i fanciulletti ,

Dividetevi i cenci, i soldi, il pane,

Sfidate uniti e stretti

L’imperversar de le sciagure umane.

E Iddio vi faccia rivarcar quei mari,

E tornare ai villaggi umili e cari,

E ritrovare ancor de le deserte

Case sui limitari

I vostri vecchi con le braccia aperte.

– Edmondo De Amicis – 

POESIE, MILANO, FRATELLI TREVES, EDITORI, 1882