In questi giorni siamo a casa di nostra figlia Leda, in via Moroni. Lei vive all’ultimo piano dell’edificio e lavora in una struttura per anziani.

Appena entriamo, l’appartamento sembra più piccolo di quello che è, assomiglia alla casa di una bambola, ma la posizione è buona e in meno di dieci minuti si raggiunge il centro a piedi.

La strada è piena di bar e ristoranti, di notte non c’è pace: non mancano le conversazioni ad alta voce e le grida delle persone ubriache, specialmente nel fine settimana. In un attimo l’allegria degenera in una lite e sullo sfondo si sentono le sirene della polizia. Questo è uno scenario a cui siamo abituati. Mi sveglio, mi alzo e guardo dalla finestra, che riesce a mascherarmi a causa del buio e per il fatto che è piccola.

Stiamo bene con le nostre figlie, ma il nostro Paese ci invita, ci attrae e il desiderio di tornare è nascosto in un angolo del cuore. La casa, i ricordi, i parenti, gli amici e il poter parlare la nostra lingua con la massima naturalezza fanno la differenza.

Quando eravamo in Albania, l’unico ponte di comunicazione erano le telefonate. Noi cercavamo delle offerte, mentre le nostre figlie ci chiamavano dalle cabine telefoniche con tariffe economiche. Il collegamento era debole, si interrompeva, la voce si raddoppiava e si avvertiva la presenza di rumori. Le telefonate non erano sufficienti, specialmente nei giorni dei compleanni, quando non potevamo scambiare un regalo, ma soprattutto un bacio o un abbraccio. Il filo non poteva trasmettere i sentimenti, la sicurezza e la tranquillità di cui avevamo bisogno in quei momenti.

Quando nacque nostro nipote, ci sentimmo intrappolati. Avremmo voluto abbracciarli tutti e due, accarezzarli, stare vicino a nostra figlia Lili, che stava diventando mamma per la prima volta, ma la mancanza di un visto non ci permise di attraversare il mare. E sarebbe stato così per diversi anni.

La situazione attuale è diversa. Adesso le abbiamo vicine, così anche il loro amore. Mia moglie avrà l’opportunità di fare qualche visita più specializzata, starà meglio e questa è la cosa più importante.

Dobbiamo restare qui, penso. Fare nostra questa quotidianità, che finora sembra estranea, distante e che ci parla in un’altra lingua. Non abbiamo una data di ritorno sul biglietto, non ce l’abbiamo nemmeno in mente.         

Dobbiamo restare qui, penso. E con tutte le volte che mi ripeto questa frase, mi sembra falsa, irraggiungibile, come se non mi appartenesse.

8 aprile 2006

Tratto dal libro: “I ricordi di un medico” di HASAN KURTI e IRMA KURTI, pubblicato dalla casa Editrice Kimerik, Italia, 2020.

IRMA KURTI

HASAN KURTI