Maria Teresa Liuzzo

…. E adesso Parlo!

A.G.A.R. Editrice, Reggio Calabria 2019, Pagg.160, S.i.p.

Associazione Lirico Drammatica Arte e Cultura “P. Benitende”

di Tito Cauchi

Maria Teresa Liuzzo è calabrese, direttrice della rivista Le Muse; ha un bagaglio non indifferente di opere e di riconoscimenti. Ho letto e recensito sue opere poetiche, adesso la scopro quale scrittrice che dedica questo romanzo “…E adesso parlo!” a Davide, “amatissimo figlio”; elaborato in forma autobiografica sia pure in terza persona, che si sviluppa in tredici capitoli. In copertina è rappresentata foto ricordo dell’Autrice in età scolare con grembiule e due nastri ai capelli e colletto bianchi. Considerata la complessità, spero che giovi la presente esposizione sull’intero libro, ovviamente è sempre una visione soggettiva, lasciando al lettore la possibilità di farsi un quadro.

Note di lettura

Mauro Decastelliintitola la sua prefazione “Il momento della parola”, articolata su 23 pagine. Preliminarmente segue il fil rouge, è il caso di dirlo, scegliendo il colore rosso nominato nella lunga narrazione, nelle sue sfumature e nei suoi simboli, dal delicato, al sangue, alla passione, ecc. Si sofferma sulle metafore facendo dotte citazioni a sostegno (tra cui alcuni autori come Giovanni Semerano, Omero, Max Black, Marie-Cécile Bertan, John Loke, Kafka, Dostoevskij e Nabokov, C.G. Jung; richiamando il mondo classico come la mitica Danae e la dicotomia Eros e Thanatos, e il mondo biblico). Spiega che “Un romanzo, per breve che sia, presenta sempre molte chiavi di lettura…” (p.5). Afferma che “unica cintura di alaggio” è il superamento dei torti subiti dalla protagonista annullandoli con il bene. Faccio la seguente precisazione: il personaggio è Mary che seguiamo a iniziare da bambina, cinque anni, e fino all’età adulta, di nonna, la quale si rifugia in una stanza immaginaria ove inventa e ama Raf, con tutte le forze.

Ciò detto, Decastelli trova delle connessioni con le opere precedenti di Maria Teresa Liuzzo, che possono intendersi come il germe della “prigione” in cui è stata segregata e schiavizzata, ed ora, con la presente opera, vuole urlare “E adesso parlo!” Il Critico fa delle analogie in cui Mary è ridotta alla “nullificazione”, di cui parla la poetessa americana Silvia Plath; e ne paragona l’esplosione di un urlo a quello rappresentato nel dipinto di Edward Munch. L’adolescente vive un intrigo superiore alla sua età e divenuta adulta, contrae un matrimonio sfortunato, senza amore, da cui nasce Priscilla; successivamente si risposa ma il cuore rimane sempre legato al suo Raf, pittore che la ritrae su tela sempre più bella, facendola sognare.

Il Critico spiega che Mary si rispecchia nel suo doppio, Mia (che scopriremo essere una bambola), rinnovata come nelle pitture di Gauguin o risorta come nelle allegorie di Minnegrotte o nata come dai racconti di Mihai Eminescu. Lei si assopisce e come per osmosi passa dal reale alla fantasia. Fra gli eventi menzioniamo la conoscenza di una coppia di sposi, lui Silvio è uno scrittore con il quale intrattiene una bella amicizia; e un po’ di compagnia riceve dal cane Labrador. In Decastelli, da par suo, sono ricorrenti citazioni anche in lingue straniere e spiegazione dell’etimologia di alcune parole. Il dolore che avvolge la protagonista è simile a quello descritto nella canzone di Lily Marlene. Richiama il rosso nelle varie sfumature, dalla Rosa Candida di Dante all’Amore Sacro; e anche le radici religiose mussulmane e delle dottrine orientali dello yin e yang; richiama i fisici Wolfgang Pauli e Galileo a proposito del rapporto spazio-tempo. Intanto muore l’aguzzino principale di Mary, suo padre, al quale concede il perdono.

Trama del romanzo

Nel capitolo eponimo di apertura, Maria Teresa Liuzzo entra subito in argomento: “Mary ricorda la sua infanzia sin dall’età di cinque anni attraverso un replay di immagini che riguardano eventi che hanno segnato la sua vita per sempre.” Già da bambina scriveva riflessioni e poesie che l’amichetta Angelica faceva leggere al proprio padre avvocato, scrittore e pittore, il quale si compiaceva e come un profeta ne auspicava un futuro di successo. Mary era una donnetta di casa che si prendeva cura dei fratellini e delle sorelline Fiamma, Allegra e i successivi che man mano la madre sfornava, sempre incinta di un marito che si era giocato una fortuna. La vita era un vero inverno, eppure a scuola manteneva un profitto promettente. A nove anni aveva già accumulato maltrattamenti di una intera vita dal genitore e non aveva conosciuto una sola carezza, sfruttata nei servizi domestici e nei lavori dei campi, nei peggiori dei modi, come una serva. Cresciuta sotto continue umiliazioni e presa a cinghiate dal padre che allungava le mani là dove non doveva. La piccola traeva forza invocando Dio. Basterebbero le prime pagine per disegnare il futuro della protagonista e lo sviluppo del romanzo; nondimeno vale la pena seguitare.

Sua Nonna l’aveva messa in guardia dagli uomini di famiglia, dallo zio, dal nonno manesco; e quando morì la lasciò “tra sputi e obbrobri”, fra genti di Calabria, non degni eredi della Magna Grecia. Era perfino ridotta a mangiare solo residui e a nutrirsi di rimbrotti. La famiglia, mi pare che vivesse a mezzadria o comunque a servizio di una nobildonna, veramente nobile anche d’animo. In casa di questa aristocratica Mary era stata osservata da un barone, che subito se ne era innamorato e poco tempo dopo la chiedeva in sposa al padre. Padre che per tutta risposta mette alla porta il barone e la madre che l’accompagnava; mentre alla giovane sedicenne riserva botte e cattivi propositi. Mary non aveva a chi chiedere aiuto, gli uomini di famiglia si rivelavano veri farabutti e malavitosi; aveva tentato di morire e per superare la morte si rifugiava sognando un innamorato di nome Raf e in suo nome desiderava vivere e morire in una sorta di eutanasia.

Nel corso della narrazione Maria Teresa Liuzzo riesce a incastonare citazioni su Tommaso Moro, Tommaso Campanella, Virginia Woolf, Silvia Plath in rapporto alla propria esistenza, al bisogno di giustizia; e per propria terapia sceglieva il pensiero di Heidegger riguardante la scrittura non come utopia ma quale realizzazione; cita pure Antoine de Saint-Exupéry per dire “Signore, riallacciami all’albero a cui appartengo. Non ha senso rimanere da sola.” (p.55). Aveva quasi vent’anni, quando la vecchia sua maestra, venuta a conoscenza della sua precaria salute, coinvolge un medico e fa intervenire il sindaco, nonché le procurò un lavoro presso un sindacato. La giovane veniva controllata dai suoi uomini di famiglia (padre e zii), che le “facevano cani da guardia”, costringendola poco dopo a rinunciare all’occupazione. Intanto la sorella minore Fiamma si sposa e le fa conoscere un giovane che dice di esserne innamorato, così Mary acconsente a sposarlo, pur di evadere dalla prigione di casa.

Il marito di Mary si comporta in modo bestiale, fino al disgusto. Nasce Priscilla e anche lei non riceve l’affetto paterno dovuto. Perfino la sorella Fiamma diventa amante del cognato; nella famiglia originaria del marito si verificavano rapporti incestuosi. Mary riesce ad allontanarsi da questi legami e riprende a lavorare per sé e per la creaturina, ospiti provvisorie, insieme alla sorella Allegra, di un dirigente di polizia. E sempre si rifugiava fra le braccia di Raf. Così Mary riversa sulla piccola Priscilla tutto l’amore che lei non ha ricevuto da bambina (né da grande). Ricorda le sigarette spente sulla pelle dal padre e i capelli strappati mentre lei tentava di divincolarsi dalla sua ferocia. Già adulta dovette rivolgersi alla questura. Il dirigente di polizia, che era fra l’altro regista, produttore e scrittore, le propose di sposarlo e di dare il proprio cognome alla piccola nata, Priscilla. Molti dei fratelli di Mary ignoravano i sacrifici della sorella fatti per beneficare loro e quindi anche essi l’accusavano. Una volta sposata veniva sfruttata dai familiari con richieste di denaro fingendone la necessità. Veniva avversata e fatta segno di atti criminosi, come l’auto data alle fiamme, simili alle sceneggiate di “Cinecittà”. C’è da aggiungere che questo secondo marito aveva due figlie maggiorenni (rivelatesi vere “megere”) avute da una precedente relazione, costoro rendevano la vita difficile a Mary, incinta di un fratellino, e alla stessa bambina Priscilla. Il marito a loro regalò un’auto ciascuna mandandole prima in crociera.

Priscilla maggiorenne, cresciuta viziata ed egoista, si rivoltò contro la madre conducendo una vita dissennata e avendo frequentazioni riprovevoli. Assistiamo ad una commistione di connivenze tra malviventi e tutori dell’ordine, in combutta contro Mary; essa, con l’aiuto di un magistrato, riesce a fare rientrare Priscilla a casa e a farle proseguire gli studi così da conseguire la laurea con il massimo dei voti. Purtroppo il ravvedimento della figlia è durato quanto una meteora, perché dopo sposata continuerà, insieme con il marito, a comportarsi ancora peggio. Ma fortunatamente il maschietto cresce volenteroso e amorevole.

Dopo un quarto di secolo di assenza dalla famiglia d’origine, Mary si era incontrata con la madre, perché le era stato riferito che era morente. Ben presto comprende che si trattava, ancora una volta, di un espediente della famiglia, in complotto con l’ex marito e con altri farabutti tra cui un medico e l’avvocato di fiducia, per spillarle denaro. Dopo questa parentesi il (secondo) marito, a seguito di un incedente, ricoverato quattro mesi e assistito dalla sola Mary, muore: nemmeno la figlia Priscilla andò a visitare il padre. Al suo funerale pochi dei fratelli di Mary parteciparono e per pochi minuti alla funzione religiosa, e alla tumulazione erano presenti la sorella Allegra con suo figlio, e la sorella minore Mercedes e il fratello Abele.

Mary compensava questi dispiacere rifugiandosi in Raf, naturalmente sempre presente nella sua immaginazione: “Abbracci, sogni, in attesa del loro ritrovarsi. Erano le ore tredici di un nove di giugno.” (p.86). Sono pagine di intenso romanticismo, d’altri tempi, e di considerazioni psicosociologiche da manuale; dentro una immaginaria stanza di una casa denominata Destina, ove cita Jung “sull’arte di divinazione cinese ispirata a Confucio”. Intanto Priscilla continuava a essere una spina nel fianco della madre dalla salute malferma, bisognevole di essere accudita, mentre invece veniva disprezzata come una lebbrosa. La figlia ha avuto l’ardire di lasciarla sola per cinque giorni denutrita e priva del minimo aiuto. Il medico, che la conosceva da sempre e “apprezzava le sue doti di scrittrice e umane”, rimase esterrefatto nel constatarne lo stato estremamente debilitato.

Mary attendeva Raf come novella Penelope o Madame Butterfly. Continuava a sognare di avere un bambino “bello più del sole” che la guerra porterà via (nella sua fantasia). Nella immaginazione onirica lo vedeva sul tavolo autoptico, insieme a lei pure morta ma con indosso i guanti. E parla con il bimbo che vuole giocare e fa dispetti; così superava il dolore o si immolava al sacrificio “come avevano fatto Buddha, Siddharta, e Gesù di Nazareth”.

Registriamo un’amicizia eletta con uno scrittore, Silvio, e la moglie che le diedero felicità. “Mary iniziò a cantare testi moderni e di tempi antichi” che impressionò i nuovi amici. Silvio le vende per un prezzo simbolico una casa appartenuta al nonno omonimo (forse nonno di entrambi), quella che Mary in precedenza aveva denominato Destina in cui sognava di vivere con il suo amato. Intanto dal racconto di una donna anziana scopre che quella casa era stata abitata da un pittore avvocato e da una poetessa di nome Maria, e con loro il cagnolino Labrador che in seguito muore.

Mary, alias di Maria Teresa Liuzzo, voce narrante ovviamente, ricorda come alcune nipotine volevano spillarle denaro, lacrimanti da commedianti di “Cinecittà” tali da meritare un “Oscar”. Evoca Parigi e la guerra, e vi associa la cantante-attrice Lily Marlene. Le sorelle Allegra, Fiamma, Olivia, Mercedes continuano a “scoccarle frecce avvelenate” e ad augurarle la morte, per impossessarsi del suo patrimonio. Mary scopre di avere una sorella segreta dopo oltre cinquanta anni, avuta dal padre da una amante, proveniente da Napoli, sposata con Antonio, che pure veniva accolta “sempre a braccia aperte”, dalla propria madre Antonietta (p.127); Mary commenta di avere vissuto nella propria casa frequentata dalla figlia illegittima del padre. Ciononostante Mary ha compassione verso la propria madre per non averle dato l’amore che si deve a una figlia. Adesso lei è madre (vera o immaginaria) e attraverso la voce del bimbo suo si spiega le privazioni di cui è stata vittima.

Nel congedarsi, commenta: “Così Mary a Raf si cuciva con un filo di seta ai confini tra sogno e realtà. (…) Così spesso Mary risorgeva dal suo stesso dolore per poi morire in croce!” (p.131). Maria Teresa Liuzzo si rivela: “Nessuno di voi che leggerà questo scritto potrà mai immaginare cosa sia stata la vita di Mary, questa vita puttana che la stessa Mary ha finito col detestare e maledire, con l’uccidere troppe volte!” (p.132). Cita i suoi aguzzini (calcando un noto titolo di film) denominandoli “i porci con le ali”. Il suo sembra masochismo perché si compiaceva a tal punto di confessare di averne subito il fascino, cioè la “sindrome di Stoccolma”. Ai fratelli e alle sorelle nonché ai genitori ricorda le sofferenze da loro inflitte; ricorda che nonno Silvio la esortava al perdono; “era l’undici ottobre”. Un giorno, riunitisi a Natale, ascolta per caso, una conversazione in cui i suoi continuano a disprezzarla e a umiliarla, sottoponendola, nell’occasione, ai lavori di servizio. Tutti continuano a estorcerle denaro con le buone e con l’inganno. Perfino Priscilla continua con il suo odio verso la madre e verso il piccolo fratellino biondo.

Il padre di Mary, prima di morire in ospedale chiede perdono alla figlia; gli altri familiari la lasciarono sola con il defunto, mentre si rimpinzavano le budella e si nutrivano di cattiverie. Tutti facevano i dolenti alla presenza dei visitatori e la madre vedova faceva le sceneggiate alla “Mario Merola”. Mary conclude che è ora di chiudere i rapporti.Rievoca una sorta di bilancio, aveva voluto sottrarsi alla violenza come Santa Maria Goretti (p.42), aveva tentato due volte il suicidio; e conclude infine, con l’ultimo brano: “Raf continuava a strappare Mary dal deserto per restituirla alla luce. Il loro era ed è un amore proteiforme, e ancora una volta è la mano del destino che regge il filo dei loro cuori a un estremo dell’infinito.”

Alcune riflessioni

Fin qui sono le mie impressioni di prima lettura, passo passo. “E ora parlo!”, di Maria Teresa Liuzzo, titolo che segue puntini di sospensione, suggerisce l’esplosione di una rabbia tenuta dentro per tantissimo tempo giunta alla saturazione. E questo suona come un campanello d’allarme per rammentare i vari temi ignorati o minimizzati o sottaciuti; temi sociali, interpersonali, per non dire di più, che affliggono in larga parte la nostra società, per urlare ‘Non ne posso più’ (il peggiore patriarcato, delinquenza, mafia, malversazione, connivenza, ingiustizie di ogni genere). Il pensiero va a tutte quelle storie di persone che hanno subito, che ancora subiscono e che è ora che denuncino, soprattutto le donne. Ma è anche ora che gli uomini devono prenderne coscienza.

Si avverte una forte partecipazione della voce narrante dell’autrice con la voce narrante della protagonista: le due voci si accavallano e diventano quasi indistinguibili. Solo dopo avere fatta la lettura si delinea il quadro in cui distinguere la pura immaginazione dal verosimile. Rileviamo ricchezza descrittiva degni di una serie di sedute psicoanalitiche, sentimenti e risentimenti, l’animo umano è messo a nudo nel bene e nel male; il tutto paragonabile a un manuale psicosociologico, frutto di un diario a posteriori di memorie. Possiamo dire che sono una costante pagine di sofferenze e perdono, di sconforto e fede in Dio; mentre unica evasione sono le parole romantiche di Raf a Mary: qui aprirei un paragone e cioè Mary è in odore di sacralità e nello stesso tempo è come una Edith Piaf che cantava “La vie en rose” in cui desiderava sentirsi dire parole d’amore.

Maria Teresa Liuzzo in pochi luoghi della narrazione, lascia segni di autoidentificazione, ovviamente con Mary, la protagonista; così pure a p.74 si appalesa poiché su Raf dice: “parlerò in seguito”. Dice di essersi dedicata alla scrittura e che “Per altri trentacinque anni, Mary visse in un completo isolamento fisico e psicologico”. La troviamo nei suoi alter ego, così in Mia, la bambola sparuta di pezza che le ricorda la propria vita con la quale conversa, nominata alle pagine 100 e 101; e la stessa Maria, moglie di un pittore, nominata solo una volta a pagina 119. Possono essere dei segni marcatori, come i capelli “scuri come il buio”, che Mary si accarezzava; come pure due riferimenti temporali: le ore tredici di un nove giugno e l’undici di ottobre. La voce narrante trova occasione per incastonare citazioni; essemi sembrano un motivo per alleggerire la tensione e dare evasione. E si rivela qui: “Per dirla con le parole dei presocratici, mancava un anello affinché il cerchio si chiudesse e il mosaico fosse completo. Ancora una volta Mary era l’amanuense del proprio destino tra frammenti scomposti e cordami di silenzio pronti a strangolare un’altra verità in incognito.”

***

Trovo un accumulo di storture umane spaventose concentrate su una sola persona, Mary. Di certo ho fatto delle cuciture, forse gratuite, tuttavia si sa che le creazioni letterarie si prestano a meccanismi che lasciano molto spazio di interpretazione, a seconda della sensibilità interiore del lettore. Forse stupiscono la serenità e la forza di sopportazione, e l’amore idealizzato, da parte della protagonista, Mary; come si è detto sono ricorrenti. Nondimeno è ammirevole la costanza con la quale Maria Teresa Liuzzo è riuscita a seguitare. Per doveroso rispetto non varco oltre la soglia interiore dell’Autrice. D’altronde, come lei scrive: “Non serve cercare il senso di cose dette e vissute in mondi paralleli pesanti e pensanti.” (p.115).

Verso la chiusura la narrazione si fa più serena e ragionata, risultato non di sedimentazione, bensì di una sorta di elevazione divina. La conclusione è che il bene trionfa sul male e, come rammenta sempre il Santo Padre, Papa Francesco, bisogna avere misericordia. Per non sembrare troppo spiritualista, aggiungo che il perdono è, per chi lo riceve, il peggiore castigo.

Maria Teresa Liuzzo propone la figura di Mary come emblema, essa sottoposta a sofferenze, acutizza la sensibilità nonostante tutto e riacquista la fiducia; un animo nobile che ama sempre e costruisce ponti. È una Cenerentola multipla, è un sudario, è una inquieta onda, fa l’autopsia al dolore, tiene l’eutanasia in sospensione, adopera un continuo scavo psicologico. Usa un linguaggio colto e sempre diretto, ricco di eventi e di notazioni socio-psicologiche, sia pure con alcune metafore (come il cielo di cemento, brivido di luce e abisso di stelle) e citazioni che possono sembrare di evasione o anche di inciampo.

Quanto alla struttura, il romanzo presenta piani narrativi che si sovrappongono. Si potrebbe ipotizzare un genere letterario nuovo, che si collochi tra il crudo realismo e la fantasia romantica e aulica, intesa come unguento per lenire le proprie ferite, senza dimenticare la presenza assidua e silenziosa di un Dio che si poteva pensare morto. Si potrebbe aprire un ampio varco per ulteriori approfondimenti e trovare analogie in riferimento al refrain di ferite subite dove Mary è fatta segno di perfidia, costretta a vivere in una pozzanghera di fango, suo malgrado, e sempre capace di volare, come una eroina del terzo millennio. Sue sono le parole: “Volare via come la colomba di Trilussa quando cadde per caso, perché ferita, nel fango, eppure trovò la forza di fuggire.” (p.145). Maria Teresa Liuzzo con “E adesso parlo!” ha mantenuto la promessa, sta a noi ascoltarla.

Tito Cauchi