di Luciana Benotto

“Il Duca e il Cortigiano” è stato il mio primo romanzo storico pubblicato da La Vita Felice, in cui racconto due anni di vita di Guidobaldo da Montefeltro, figlio del famoso condottiero, nonché uomo di grande cultura, Federico III da Montefeltro, quello che edificò il magnifico palazzo di Urbino, considerato una quintessenza del Rinascimento.

Dopo la sua dipartita il ducato passò all’unico figlio maschio avuto dalla seconda moglie, Battista Sforza, morta a soli ventisei anni a causa delle numerose gravidanze: nove per la cronaca, susseguitesi per dare al duca il suo tanto necessario erede maschio: il Guidobaldo del mio romanzo. Il duchino venne ritratto insieme al padre nell’ormai famoso quadro dello spagnolo Pedro Berreguete, che lo mostra tenerello, appoggiato alla gamba del padre in armatura intento a leggere un tomo, mentre lui sostiene il futuro scettro del comando.

Si tratta di un personaggio storico non di primissimo piano, ma la cui vicenda personale mi intrigò e, lo confesso, intenerì.

Il mio incontro con lui avvenne tanti anni fa, quando mi recai ad Urbino a visitare una mostra su Raffaello e i pittori raffaelliti. Nel momento in cui mi trovai di fronte al suo ritratto, posto accanto a quello della moglie Elisabetta Gonzaga, mi accorsi delle loro tristi espressioni e, poiché nei ritratti ufficiali i nobili si facevano raffigurare con tutt’altri atteggiamenti, mi chiesi cosa mai poteva essere capitato ai due sposi che, nelle ricerche che mi aiutarono a stendere il romanzo, scoprii erano profondamente innamorati l’uno dell’altra nonostante il loro matrimonio, come di norma, era stato una delle solite alleanze politiche. Quindi, cosa poteva essere loro accaduto? Una risposta plausibile e convincente al mio interrogativo, la trovai in un fatto che avvenne nel 1502, e col quale ho iniziai il romanzo:

“Signor duca! Signor duca!” gridava angosciato un frate entrando di corsa nel refettorio del convento degli Zoccolanti.

“Che sta succedendo padre Mariano? Mi parete un indemoniato” era intervenuto subito l’abate. Ma non fece in tempo ad aggiungere altro che giunsero alcuni uomini del duca.

“Sta arrivando l’armata del Valentino!” proruppe uno di loro tutto trafelato.

“Cosa?!” esclamò a quel punto Guidobaldo da Montefeltro che, invitato a cena quel giugno del 1502, si stava gustando un piccione arrostito.

L’impeto con cui si levò da tavola fece quasi ribaltare la sedia su cui era stato tranquillamente a sedere fino a quel momento.

“Devo correre a palazzo a prendere mio nipote” esclamò.

“No, signor duca, fuggite immediatamente. Non dovete assolutamente cadere nelle grinfie di Cesare Borgia” disse di rimando don Ferrante, il gentiluomo aragonese che era stato invitato con lui quella sera, e poi aggiunse: “Ci andrò io a prelevare il piccolo Francesco Maria. Voi aspettatemi là dove c’è quella cappella campestre che sapete. Vi porterò il ragazzo”.

“Se fuggo i miei concittadini penseranno che sono un vigliacco”.

“Datemi retta signore, non vale la pena difendersi contro un esercito così numeroso e agguerrito”.

Il don Ferrante che qui suggerisce a Guidobaldo che la cosa migliore da fare in quel frangente è allontanarsi da Urbino, altri non è che il cortigiano suo amico, quello che compare nel titolo del libro, e che gli starà accanto nei due anni seguenti per tentare la riconquista del ducato, affrontando per lui e con lui varie peripezie. Buona lettura a chi vorrà scoprirle.

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