In Oltre la frontiera, ultima e sedimentata raccolta poetica di Giovanni Moschella, si inquadra, fin da subito, un approccio onesto e schietto verso l’esistenza. Un’esistenza che non è declinata in un esercizio di semplice rammendo dell’esperienze vissute; ma che diviene, piuttosto, filtro e modo interpretativo, attraverso il quale riuscire a declinare il proprio rapporto con la storia e col mondo. Moschella è poeta che si interroga, che, a maggior ragione nell’onestà del dettato poetico, cerca di usufruire di una visione terapeutica della poesia, capace – per intenderci – di riscrivere ed interpretare le tragedie del nostro tempo. È il gioco più puro del verso, la prospettiva lucente che squarcia e purifica le tenebre, ammettendo la sofferenza / ed il dolore che si nascondono / dietro la parola “Bambino”. Nel bambino, allora, non risiede la sola soglia tematica di una figura abusata e sofferente per la storia, ma si innesta, piuttosto, la drammaticità della crescita, l’impossibilità di tacere dinanzi ad un mondo che tradisce i propri sogni, che eleva ad eroi semplici umani. Si assiste, inermi, al rimbombo della voce del vento / grida di donne e bambini, / preghiere di soldati, / che rischiano la vita. Moschella ha piena contezza di un mondo lontano dall’immaginazione, dalla speranza utopica che riempie felicemente i ricordi del suo passato: la drammaticità, quasi pascoliana, costruisce l’involucro di un rifiuto mai apocalittico (ma consapevole) della voce dei nostri tempi.

Lungo il viale,

voci e grida gioiose

di bambini

intorno alla giostra…

l’acerbo profumo del mosto

in autunno,

la forza del fiume Sabato in piena

[…]

Atripalda sono innamorato

di te come non mai

Nel poeta atripaldese, infatti, si evidenzia questa esperienza pluritemporale, capace di congiungere il ricordo di un passato, che scrive ancora, e di un presente che riesce a calibrare i confini della poesia che è un andare oltre. Tra questi atteggiamenti, dunque, si istituisce un tempo nuovo, una condizione nuova; un vivere che è consapevole della strada vissuta e che è consapevole del suo essere poeta per salvezza. In fondo, chi è il poeta? Colui che riscopre un mondo in armonia, / con le speranze e le paure / che prima ignoravi, / come un poeta nascosto. Il nascondimento, la mano mai superba e distruttiva di un ego che vuole padroneggiare la vita e l’arte non si palesano mai nell’incedere poetico di Moschella; anzi la cordialità, l’invito al sentire nell’intimo, la forza di saper raccontare anche i propri dissidi rappresentano la forza di questo lavoro genuino ed accorato. Vorremmo tutti ripetere col poeta l’inno alla sua Carol:

Stasera

sono fuori di testa,

sei apparsa

nella mia vita

come una meteora,

vorrei

che questa serata

non finisse mai,

ma

purtroppo

sei solo un’illusione

e niente più

E’ il canto descrittivo di un abbandono, ma anche la liturgia di ogni amore (soprattutto se giovanile). In questo scenario si osserva, allora, la forza del poeta di mostrare la sua interiorità, di scrivere un lungo ed accorato esame di se stesso, delle sue pulsioni, dell’arte quale conciliazione di illusione, del cammino oltre quella frontiera che è dono gratuito e spigoloso, offerto dalla poesia. Ma, soprattutto, è preghiera; preghiera onesta e viva, impossibilita ed insofferente a calarsi nei segni di una religiosità del conforme. Si assiste, allora, ad un rapporto con Dio sentito, ad una forza capace di rendere la preghiera quale autentica argomentazione di un uomo che intinge il suo dito nel costato di Cristo, che rivede nell’Inno all’Amore la massima prospettiva di una missione per l’esistenza.

Mio Dio ascoltami,

perché non so

come riconquistarla,

ho paura del vuoto

che continua

a crescere in me

se, senza questo amore,

so che morirò.

Qui si innesta il percorso reale della poesia di Giovanni Moschella: la ricerca di una risposta d’amore, di una risposta di Dio. Nella ricerca è già la cura vivida di un uomo che, attraverso la poesia, rifiuta la morte!