Entrare nel mondo di Errore cronologico (Il Convivio Editore) significa iniziare un percorso salvifico anti-aberrante. L’obiettivo, infatti, dell’ultima fatica letteraria di Irene Sabetta è la rincorsa drammatica ed onirica ad una temporalità qualificata, ad un vivere non più strattonato dal palesamento di una crisi: si tratta materialmente, insomma, di riconnettersi al principio del mondo (a quei sei millanta anni fa e oltre), in cui l’uomo aveva ragione di assumere un’altra rotta; ma non lo ha fatto! Questo rifiuto, quasi adamico, sospinge alla critica di ogni tempo, alla consapevolezza di una crisi che si inscrive dai primordi, da quando si poteva spostare di lato l’asse terrestre / e dormire nei fossi fino ad un percorso evolutivo e redentivo che, nostro malgrado, non ha avuto ragione di essere. Sono queste, allora, le domande lancinanti della Sabetta: è davvero questo il nostro tempo? È questo l’adeguato del nostro Esser-ci? È questo il fulcro di un essere all’assoluto?
Sarebbe banale rispondere a questa domanda con un accorato e semplicistico: No, non lo è! Ecco, dunque, che a scandagliare questa apocalisse hic et nunc è un tratto stilistico aggressivo ed elegante. Sabetta alleva la poesia da madre matura: cruda nei suoi strappi dai seni idealistici, vigorosa nella realizzazione fulminante di ferite su carta; ma anche suadente, propria di una ninna nanna che è figlia di un io consapevole, posto in una resa incondizionata alla lotta: raccontami il mistero della tigre del bengala – si ripete nell’anacronismo con la visione in 3d – ed il momento in cui essa è modello di tutti – mi permetto di aggiungere. Raccontami della fisiologia degli uomini lasciati e fasciati nell’incavo della terra, dell’io (me) che come gli uccelli a primavera dormo la notte con gli occhi aperti, cantandomi con disincanto la fine.
mistero del vivario
animali vivi in una gabbia di cielo e di mare
amo ogni singola sbarra di questa gabbia
non fatemi scappare perché altrove mi sentirei fuori luogo
la bibbia lega il mistero alla storia
e le parabole sono paranoiche ossessioni
mistero è l’imprevedibile pesantezza dell’essere
mistero della luna
sono una roccia opaca
felice di esserlo
Ciò che cattura del fare poetico in Errore cronologico è una riperpetuante coesistenza biplanare: esiste un tempo (il tempo poetico), figlio di continui rimandi immaginifici, di costruzioni che affondano nella ricerca antica ed etimologica della vita e della cultura storicizzata; esiste un tempo (il tempo analitico), che muove i suoi catartici ossimori, attraverso il balzare in superfice di figure e situazioni della contemporaneità, colte nella loro dinamicità, nel loro avvenire nell’attimo. Vi sono, dunque, i non speranzosi calcoli babilonesi degli oroscopi (quasi a dire l’inutile qualificazione del diem oraziano) che coesistono con gli astrofisici che masticano chewing gum nei laboratori; è l’Amleto, emblema della psicotica crisi di coscienza, che si rintana nella Patagonia nuova (falsa terra), dove marciscono le risoluzioni assieme ai fiori sulle tombe. Questo continuo endoflettersi ed estroflettersi è proprio l’atteggiamento tenuto saldamente in prospettiva dalla poeta: ogni archetipo, ogni modello, ogni stratificazione generale fornita dal primo soffio di vita, emerge (come bibbia che lega il mistero alla storia e le parabole che sono paranoiche ossessioni) nell’innesto di una terra alla sbando, che non fa nulla per celare la sua fine, il suo digrignare la sfida ed il sacrificio. Non è un caso, infatti, che la scelta dei soggetti rappresentati paia essere assai simile a quella di un Bestiario: si avverte, mai con stizzi di falso moralismo o buonismo, l’irrequietezza di una caccia. È l’anti-bucolico: la tigre, l’agnello, i lupi, i cani del vicino, gli anfibi, le ninfee che non hanno redenzione. Capovolti, riscrivono il loro simbolismo per narrare apertamente la tragedia. In questi termini, allora, si istituisce la sapienza poetica della Sabetta: aizzare la condanna partendo dal sedimentato. Solo tenendo presente il clamore della pace che deriva da questo rimando alla tradizione, si può istituire la caduta quotidiana: l’ogni-giorno che non vuole amici ma esperti di lingue e di dati
nel dissesto della misura
il grande orologio batte un tempo tardivo
che al limite dell’intervallo
torna in voluta d’incenso
e schiva la punta della spada avvelenata
sono forse io il prescelto?
quello nato per archiviare i misfatti della storia
e decretare l’avvento di un destino giusto?
le mie azioni sono senza guida
e marciscono le risoluzioni
assieme ai fiori sulle tombe
troppe trame da dipanare
troppi occhi dovrei avere
per sondare il grembo buio di tutti i mali
eppure resto in questa landa squassata
a misurare i passi silenziosi
di uno spettro che vorrebbe dirci qualcosa
Sono, inoltre, due i fil rouge che emergono come costante organica e stilistica di Errore cronologico: il dialogo mai celato col testo teatrale di Amleto ed il rimando voluto e ricercato ad una scrittura ed ortografia proprie della contemporaneità. Ancora una volta si assiste ad una scelta ben riuscita, ad un tentativo condotto egregiamente nei suoi intenti. In fondo, è in questa dissonanza (questa stonatura tra l’a-temporalità universalistica della figura tragica di Amleto e la figliolanza chiaramente contemporanea di un periodo scritto al pari di una traccia messaggistica) che la poesia assume il suo tono tonante e pieno. Quello che Irene abbatte su ciascuno di noi è un turbine: the time is out of joint, who is there?, the interim is mine sono spigolature e non semplici prestiti dotti. È il crepuscolarismo specifico della crisi dinanzi alla propria biografia dell’eroe shackespierano; ma è anche il crepuscolarismo, la landa desolata dallo spezzarsi nel bicchiere del tradimento, nella distanza siderale di un errore cronologico che non è errore misurativo, quanto errore di essenza, errore di definizione. La poesia – quasi rimarcando un più lirico stream of consciousness – climatizza questa concitazione, la fa avvertire nell’assenza di segni di punteggiatura, nella mancanza di maiuscole, nel periodo sintatticamente congiunto e sfilacciato (allo stesso tempo), nella volontà minimale di giungere ad un nocciolo, che è nocciolo di un orrore a cui la poesia sappia parlare. Quella che si realizza, dunque, è l’apertura di una spirale che annerisce, ma non annichilisce; non conduce alla follia. Malgrado, infatti, una modulistica tanto dedita al ferire, ciò che la poeta eleva è l’alchimia di una feritoia: piccoli vulcani sul comodino / guardiani diurni delle mie consapevoli prigioni – è l’altro? È il complesso dei versi che vivono prima e poi si intelaiano nella carta? È lo spettro (quello del padre di Amleto) o la coscienza? L’identificazione di una causa efficiente, in questa concitazione, non è strettamente condotta a compimento; ma non importa. Resta sapiente il multiprospettivismo, il vedo-non vedo che spinge al momento sano della follia dinanzi al mondo, al silenzio d’atto che faccia, prima di palesarsi, dire con la poeta: Parlatemi come se fossi sordomuta.
non farmi tornare indietro ti prego
le serpi che si annidano sotto ai vasi
aspettano che accenda la luce
per fare un party nella mia testa alla bocca dello stomaco
ora sto bene ‒ mi sento un acrobata in equilibrio
quel peso che ogni giorno trascinavo al guinzaglio come un cagnolino
si è liberato di me
è inverno e non ho neanche freddo
ti imploro di non riportarmi indietro
sognavo una mongolfiera a notti alterne e picchiavo mia sorella
Frontiera del confronto con il sé, segno di una narrazione cucita sul consueto di un dissidio, incontro con un mondo efferato che sappia di terra senza contaminazioni: questo è il mondo di Irene Sabetta; questa è l’essenza di una terapia ad Errore cronologico.