Di Luciana Benotto

Della produzione letteraria di questo autore ho recentemente letto Il brigante, un romanzo uscito presso Einaudi nel 1951, da cui furono tratti un film di Renato Castellani e una riduzione radiofonica. Rieditato negli anni seguenti da Einaudi, poi da Longanesi e Rusconi, nel 2022 il romanzo è stato ristampato da Neri Pozza.

E poiché l’esistenza di questo scrittore è strettamente legata alle sue opere, penso sia corretto spenderne due parole.

La vita di Giuseppe, nato a Momigliano Veneto nel 1914, da Ernesto Berto, un maresciallo che per amore della moglie aveva abbandonato l’arma e aperto un negozio di ombrelli e cappelli, fu caratterizzata dalle modeste condizioni economiche della famiglia. Primogenito di cinque figli, con grande sacrificio i genitori lo iscrissero al ginnasio e poi al liceo che portò a termine senza ottenere brillanti risultati, tanto che il padre non volle pagargli l’università, così Giuseppe si vide costretto, per arrangiarsi, ad arruolarsi nel Regio Esercito, cosa che gli permise di iscriversi alla Facoltà di Lettere di Padova. La carriera militare lo portò a partecipare alla guerra d’Abissinia, poi alla Seconda mondiale. Fatto prigioniero in Tunisia nel ’43 fu trasferito negli Stati Uniti in un campo di concentramento in Texas dove subì patimenti e privazioni, esperienza che fece nascere in lui il desiderio di raccontare, tanto che iniziò a scrivere proprio nel campo. Rientrato in Italia nel 1946, contattò vari editori, ma fu solo Leo Longanesi a capirne le potenzialità e così il suo desiderio si concretizzò. Tra il 1955 e il 1978, anno in cui si spense a Roma, diede alle stampe vari romanzi, tra cui Il male oscuro con cui vinse i premi Viareggio e Campiello, Guerra in camicia nera, Oh Serafina! che gli fece vincere il Premio Bancarella. È comunque stato considerato un autore controverso per il suo passato militare e per il suo cambiamento post prigionia, tanto che Corrado Piancastelli nel saggio “Berto” uscito per i tipi de La Nuova Italia nel 1970, disse di lui: “A destra lo ritengono di sinistra, i comunisti pensano che sia fascista, e i fascisti lo giudicano un traditore. Egli, per conto suo, è convinto d’essere pressappoco un anarchico”.

Nel romanzo il lettore è accompagnato dalla voce narrante di Nino, che mostra quindi il suo punto di vista, quello di un ragazzino di tredici anni colpito dal ritorno in paese (siamo in Calabria), di un reduce di guerra: Michele Rende, un uomo solitario che ha un comportamento duro e sprezzante, e su cui aleggia un alone di mistero che lo affascina.

Egli al contempo lo ammira e ne ha diffidenza, ciononostante gli resterà affettivamente legato sino all’epilogo drammatico, ovvero quando Michele sarà ingiustamente accusato di omicidio e si darà alla macchia divenendo brigante, perché si rende conto che il suo amico ha subito un’ingiustizia e ne comprende la rabbia e la vendetta.

Michele è un uomo che arriva dalla guerra d’Africa e ha visto la morte in faccia, sebbene non riveli a Nino se ha o non ha ucciso; è uno che dopo l’evasione dal carcere favorita dai bombardamenti e dall’arrivo degli anglo-americani si fa partigiano al nord per liberare l’Italia dal nazifascismo; è uno che al nord comincia a leggere libri che gli fanno capire che la miseria può essere combattuta e che bisogna battersi contro i privilegi di classe e proprio questo sarà il motivo che lo riporterà all’arresto, perché i proprietari terrieri lo temono, soprattutto dopo il tentativo di occupazione delle loro terre incolte da parte dei contadini da lui capeggiati. E ciò segnerà il suo destino facendolo additare da tutti come un brigante.

Rispetto ai paesani che si mettono sempre con il più forte, egli emerge come un eroe disperato che cerca giustizia, che cerca l’amore della donna che avrebbe dovuto aspettarlo e che invece mentendo lo fa accusare d’omicidio. Così l’amore si sposta su un altro fronte, quello della sorella di Nino. Un amore sincero stavolta, che potrebbe aiutarlo a farsi una vita normale e felice con Miliella, la cui morte scatena invece la sua furia vendicatrice. Egli si trasforma in un assassino, ma è anche vittima sacrificale.

Ma vittime sono anche altri: i genitori di Nino, che con poche pennellate Berto descrive: tragica la figura del padre chiuso nella sua muta condanna e dolce quella della madre che perde la figliola; pietosa quella dell’appuntato che in tutta la vita non è mai riuscito ad avanzare nella carriera e che si ritrova in pensione con quattro soldi per mantenere la numerosa famiglia.

Il brigante è un romanzo di denuncia, un romanzo che parla della secolare povertà degli abitanti della Sila, delle ingiustizie sociali, un romanzo che sostiene l’umana fratellanza, insomma, un romanzo da leggere.

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