gli scrittori

GLI SCRITTORI SONO ETERNI FANCIULLI, Leonardo Migliore

GLI SCRITTORI SONO ETERNI FANCIULLI

– Nota introduttiva –

Nel primo capitolo, il più lungo, mi lascio trasportare dall’onda dei ripensamenti, dei ricordi e della nostalgia per un mondo che non esiste più. Per descrivere la mia personale percezione della figura dello scrittore sviluppo un percorso estremamente originale, tra la luce vivida del passato e le conoscenze acquisite attraverso lo studio e la curiosità.
Alda Merini, nel suo libro in prosa “L’anima innamorata”, scrisse una riflessione di grande successo che termina testualmente con la seguente citazione: “Te l’ho già detto: i poeti non si redimono, vanno lasciati volare tra gli alberi come usignoli pronti a morire.”
Analogo discorso, secondo il mio modesto parere, vale per gli scrittori.
Chi ha musica e sentimento dentro non potrà reprimerli in eterno. Prima o poi, il suo «ego» risponderà soltanto al pungolo dell’ambizione letteraria, al costo di non accettare gli stimoli della fame e delle necessità. Il suo «ego» diventerà insaziabile e sarà ben rappresentato attraverso la favola di Fedro conosciuta come “La rana scoppiata e il bue”: “Un giorno la rana vide un bue al pascolo e presa da invidia per tanta grandezza gonfiò la pelle rugosa. Poi chiese ai suoi figli se fosse più grossa del bue: risposero di no. Tese di nuovo la pelle con sforzo maggiore e chiese ancora chi fosse più grande; risposero: il bue. Alla fine, esasperata, mentre cercava di gonfiarsi ancora di più, il suo corpo scoppiò e così morì.”
La morale della favola è abbastanza lampante. La rana che gonfia la sua pelle rispecchia fedelmente le manie di grandezza che contraddistinguono gli animi di tanti scrittori e poeti. La loro deleteria assenza di umiltà non è conseguenza d’insensatezza, è soltanto evidente manifestazione di un permanente regresso infantile. Accade così che gli scrittori, tramite le loro opere, trasmettano ai lettori il fardello della propria infanzia. Questi ultimi, se sufficientemente pazienti, sosterranno le croci degli autori e, infine, ne faranno le proprie croci. Chiarisco opportunamente che la croce, nella presente creazione letteraria, non è altro che il peso dell’immaturità legata alla mia condizione puerile.
Nel secondo capitolo del racconto modello lo stile e i contenuti rendendo i periodi appositamente prolissi e astrusi. Ciò ha luogo perché costituisce lo spazio limitato dove esercito il passaggio di consegne della croce della mia infanzia, infierendo egoisticamente sui lettori.
Il terzo capitolo è costituito da un’osservazione stringata che rivela lo spirito che sottende il mio impegno compositivo.
Buona lettura!

⁓ I Capitolo ⁓

– Il ciclo delle stagioni –

Come la rugiada

Fa rifluire la vita

Negli steli d’erba inariditi

Così per breve tempo

L’anima trova pace

Nel pensiero e nell’amore di Dio

E quando il sole

Infuocato riarde

Al suolo gemono

I gracili steli

Appena risorti

Sono come uno stelo d’erba dentro il ciclo delle stagioni, accetto l’idea della morte e la considero indissolubilmente legata alla bellezza dello spirito. Sono nello stesso tempo caduco ed eterno, unico e irrepetibile, cerco di viaggiare dentro di me e in tutte le cose, considero il peso dei miei peccati e la mia inutilità un momento fondamentale lungo il sentiero della crescita e della perfezione. Anche oggi mi è stato concesso un giorno per vivere e pensare. Assaporando il lento risveglio dei sensi, attendo un attimo, prima di pigiare l’interruttore dell’abat-jour. Aperti con solerzia gli occhi, controllo l’ora tastando pigramente sulla superficie del comodino. È presto, richiudo, patullandomi nell’ozio, le palpebre e ne comprimo le parti superiori esercitando una leggera pressione con gli indici. Nel mio intento, sostengo il peso delle mani facendo combaciare il dorso dei pollici con gli zigomi omolaterali. Adagiato immobile sul letto, seguo senza fretta il respiro e i battiti del cuore, gioco di sponda con i sedimenti della memoria, sono circondato dall’infinitamente grande e da ciò che è infinitesimale, abito in un battito di ciglia che è un puntino sulla retta del tempo e un’eternità in confronto alla vita di una farfalla notturna che cerca in un lampione il suo sole. La luce che illumina gli oggetti forma delle immagini stupefacenti sul fondo degli occhi, le retine. Fisso una macchia nera irregolare circondata da un alone arancione pastello chiaro. È una percezione sensoriale magnifica che tutti possono provare al risveglio mattutino, passando bruscamente dal buio alla luce e serrando poi gli occhi seguendo le modalità descritte. È come inseguire un buco nero, un infinito che cattura completamente la nostra attenzione, distogliendoci da qualsiasi pensiero. È il tentativo di mantenere viva un’immagine destinata progressivamente a rimpicciolirsi per poi scomparire. Si chiude il sipario sul primo atto dello spettacolo. Togliendo gli indici, inarcando un po’ le palpebre, limitandosi a tenerle socchiuse, e puntando la fonte luminosa riprende l’incanto. Le palpebre socchiuse indicano spesso uno stato di intermittenza se non di abbandono della coscienza. È come calare una tendina escludendo il mondo intero. L’abbassamento delle palpebre dettato dal principio del piacere è involontario. Infatti quando si dà un bacio affettuoso in genere l’istinto ci guida ad abbassare le palpebre. Con le palpebre socchiuse, coordinando la muscolatura estrinseca e intrinseca degli occhi, indirizzando lo sguardo verso la luce, si assiste alla meraviglia di filamenti dorati simili a capelli che, intrecciati, piovono da una lampada e a uno sfarfallio di stelle contenute nello schema ierofanico di un maṇḍala. Inseguo me stesso da sempre. Guardando le piastrelle del pavimento della cucina e del soggiorno di casa, intravedo in esse, sin dalla mia infanzia, un vecchio col cappuccio, mento prominente e barba lunga posto di fronte a una cornucopia. Nelle venature del piano d’appoggio rotondo di un antico tavolo allungabile in mogano africano, citando Ungaretti, “mi si travasa la vita in un ghirigoro di nostalgie”, poiché mi riporta al ricordo del saloncino di casa dei nonni materni, oggi spoglio dei suoi mobili e dei suoi proprietari. I sedili posteriori dell’abitacolo della Fiat 127 di papà mi riconducono a una zattera di sogni e canzoni naufragata nei miei anni verdi. Dalla mia vecchia prospettiva, guardo ancora il rivestimento in tessuto del suo cielo e, focalizzando l’attenzione sulle sue fibre, mi smarrisco nei meandri delle città che costruivo durante i lunghi viaggi, mentre papà, felice, cantava brani di Domenico Modugno, Sergio Endrigo, Don Backy, e tanti altri ancora. Sogni e canzoni inconfondibili sospese per sempre come emulsioni. 

Da diverso tempo avverto un fremito di inquietudine. Non riesco a svelarne i segreti. È trepidazione, il mio animo sprofonda in una voragine che esige, preternaturalmente, di essere rimarginata, similmente al mare che inghiotte i naufraghi e si chiude sopra di loro. Vorrei porre rimedio a questo strazio e più rifletto sulle cose, più mi sento respinto, sperimentando i limiti della condizione umana.

Sogno, talvolta, che nelle volte emisferiche delimitanti i deserti interiori dell’umanità fiorisca il cielo diurno e accenda di colori il soffitto della mia stanza, spazzando il fumo grigio gonfio di malinconia che adombra la vita. Le mie braccia sono i rami spogli di un albero protesi verso il cielo per implorare risposte. La danza del tempo farà sbocciare nuovi fiori e in foggia festosa accoglierò, ogni tanto, un usignolo che con il suo melodioso canto rallegrerà i miei pensieri.

Il paragrafo precedente è costituito da circonlocuzioni appositamente create per mitigare, similmente alle tinte tenui di un dipinto all’acquerello, la crudezza della realtà.

Un urlo rimbomba sordamente da lontani crepacci, il cociore provocato da sostanze caustiche non concede tregua. Non è gioia, non è amore, è un ammonimento, è una preoccupazione intorbidante: “Non disperdere in convolvoli la tua vita, concentrati per fare ciò per cui sei nato!”.

Cerco caparbiamente di estraniarmi, spero che le mie difese reggano, che il pianto convulso delle passioni ottenebri la mia ragione. Il processo è ormai irreversibile. Già da tempo riconosco il tono implorante della mia stessa voce, aduggiato come la pianta bassa all’ombra nociva di quella alta.

“Nato per scrivere! Perché? perché? perché?”

È una rivoluzione che mi si sta appalesando. Ho sempre pensato che il filo conduttore della scrittura, come peraltro di qualsiasi attività creativa, fosse l’ispirazione. Adesso mi rendo conto che talvolta ci si condanna a scrivere. La scrittura, come tante altre cose della vita, prevede pazienza e abnegazione. Può persino diventare sofferenza severa.

Cercherò di essere più chiaro.

In questi ultimi giorni ho letto tanto, ho ricevuto moltissimi stimoli sensoriali, ho ammirato tanta bellezza. Ho sempre sostenuto che la bellezza è una qualità degli esseri viventi, una caratteristica del patrimonio ambientale e costruito. Ho sempre parteggiato per chi dona la bellezza, per chi la condivide e, per primo, opero conseguentemente. Non voglio ricorrere a citazioni scontate, preferisco al momento non richiamare altri autori. Ho bisogno di rifugiarmi, esclusivamente, nei miei pensieri, reprimendo tutte le incantevoli influenze che recentemente hanno pervaso la mia sfera intellettiva e sentimentale. Non intendo respingerle, bensì ricrearle e riviverle a partire dagli spazi più intimi e autentici del mio animo. Sono obbligato a provare la solitudine e l’amarezza, la ruvidità e l’ordinarietà per costruire vera armonia e suggestioni da regalare.

Ho rispolverato da un luogo remoto alcuni dipinti che hanno reso gradevoli momenti di un tempo trascorso. Non ho mai sentito un particolare trasporto per la pittura; essa era pura attività ricreativa, semplice svago. Riscoprirli, ha prodotto un profondo turbamento. È stato come fissare nello spazio e nel tempo il cammino frastagliato della mia esistenza.

Ecco ciò che mi spinge a scrivere! Non dipende soltanto dal ricordo di momenti disuguali, discontinui e irregolari; è «un sussulto del mio ego» che manifesta invece il bisogno assillante di farli emergere, allo scopo di impancarsi a fare il maestro.

Qui trova definizione la figura dello scrittore. Egli non guarda ai fronzoli e non bada al parere della gente. Violenta senza tergiversare i grumi di sentimento che agitano lo spettro mutevole della sua immaginazione, scrive solo per soddisfare i suoi bisogni e, di riflesso, coinvolge i lettori. Lo scrittore è, in fondo, un egoista, un narciso, appartiene a una razza dall’ego ipertrofico e donandosi al prossimo placa la solitudine angosciante del proprio intuito. Descrive un intenso traffico emotivo, forti impulsi abissali, sgomitola contrasti e si pasce di vento e del dramma del dubbio. Utilizzerà in comune con tutti un linguaggio scritto. Ne farebbe volentieri a meno perché, ancor prima di scrivere, ha già sentito, ha già adorato, ha già sofferto. Per trasmettere agli altri la singolare impronta del suo irriverente messaggio sono indispensabili intanto i simboli e i costrutti grammaticali di una lingua.

Lo scrittore è un egoista che mette in atto, nel donarsi, un ampio ventaglio di scelte concettuali su più livelli. Più uno scrittore è grande, più virtuoso e appassionato è il suo animo. Non è possibile stabilire, tuttavia, un nesso diretto tra la sua condotta di vita e il grado di spiritualità, di purezza, di sensibilità e di creatività che possiede. C’è chi, senza un’ordinata continuità, scrive per amore, chi per odio, chi per rivendicare diritti, chi per promuovere la conoscenza, chi per raccontare storie di popoli, tradizioni e guerre. L’aconcettualità complessiva dell’arte è quindi esperibile nel connubio tra l’aspetto teleologico di un’opera e le ambizioni che investono la vita del singolo scrittore. Elemento indefettibile è che ogni scrittore insegue dei sogni che difficilmente riuscirà a realizzare e scrive per non rinunciare a vivere.

Molte immagini sono entrate a riempire la mia vita di bellezza, tante colonne sonore ne hanno fatto da sottofondo. È come se la mia umile esistenza fosse stata riscritta tramite l’arte. La mia mente ritiene meravigliose pagine di eccellenti autori e ne conserva le frasi più significative. Ho vissuto intensamente e toccato momenti di estrema gioia e picchi di sconforto. In rassegna, fuoriescono da un vecchio proiettore floride scene che animano la mia fantasia e spalancano sentieri scintillanti.

Sono quasi preoccupato da questo improvviso sorso di felicità. Quasi tutti diventano egoisti quando avvertono di essere felici. Ho bisogno, in fondo, di essere un po’ triste, dal momento che la gioia non mi ispira nulla di significativo. Non riesco a essere ipocrita ed esternare una felicità e una sensibilità di scarso effetto, epidermiche. L’uomo d’oggi attraversa una grave crisi d’identità. Il diritto alla vita e al benessere si afferma imponendo crudeltà inaccettabili ai più deboli. Il potere non è appannaggio delle persone più capaci, come non è detto che le persone umili siano ingenue o incompetenti. Sono rattristato dalle ingiustizie. Ansimo, tremo e piango tentando di contrastarle con parole che esprimano pensieri poderosi. Non mi rassegno all’idea che questa condizione di vulnerabilità che affligge l’umanità debba protrarsi a lungo. L’alterigia inveterata nell’odierna società costituisce una minaccia letale per la creaturalità insita nella fragilità, nell’emotività, nella delicatezza, nell’altruismo, nella saggezza. L’amore rappresenta l’unica via di salvezza. La natura messianica di Gesù Cristo ci trasmette il nuovo comandamento di amarci gli uni gli altri come ci ama Dio e il messaggio inequivocabile che la salvezza è la pace.

Avevo solo otto anni e dipingevo Gesù in croce e Maria Vergine inginocchiata ai piedi del figlio con il capo rivolto verso l’alto a cercarne, trafitta dal dolore, lo sguardo. Sembra volerne inseguire sia fisicamente che spiritualmente le sorti. I colori usati sono dei pastelli rudimentali. L’impatto cromatico è acceso, tanto da esaltare a dismisura la tragicità della scena. Tutto vive: Maria Vergine è sospesa tra cielo e terra e il nero del suo abito la immola a una sofferenza indicibile; Gesù è lacerato dalle ferite e, nonostante tutto, sopporta con compostezza il dolore, guardando in basso, ai suoi piedi, per sollevare sua madre e l’umanità intera al fastigio della gloria divina; il monte Golgota è vivo, il suo colore è marrone cupo con increspature, somiglianti a piaghe sanguinolente, che racchiudono nel sacro fuoco di un cuore di bambino la sofferenza della divinità e dell’umanità; il cielo per contrasto, con il suo azzurro smagliante e arcipelaghi di candide nuvole, piange una luce di pietà e infonde la speranza della fuga spaziale verso la salvezza e la salvazione.

Perché tanto ardore e tanta adorazione in un bambino di otto anni?

le sue mani, le mie mani, che cosa avevano impellenza di comunicare?

che cosa nascondeva?

che cosa di assoluto e incipiente ne minava la serenità?

Salgo in terrazza e nel piano ammezzato di accesso dirigo la mia attenzione sul piccolo tavolo che usavo per disegnare. Inizialmente, non ho provato la benché minima desolazione per un oggetto tanto familiare tristemente abbandonato, come lo era la carpetta che nascondeva i miei dipinti. Al contrario, ho provato un’impressione di piacere, suggerita da impulsi soggettivi indefiniti, nel constatare che attorno al banco in disuso si irradiasse una luce magica. Ritto come un piolo in mezzo alla stanza, dall’alto della mia statura da uomo adulto, guardavo un mocciosetto dai capelli arruffati che scompigliava colori a destra e a manca, intento a perseguire, in religiosa solitudine, la sua catarsi. Capii che quel dipinto, diversamente da tutti gli altri, non nacque per diletto. Quella piccola opera non rappresentava la letizia di un raffinato gioco di colori, aveva una sua forte connotazione spirituale, era vita, era vita che diventava arte per lo stesso fine per il quale scrivo. Quel dipinto costituisce forse il pensiero più significativo che ho espresso durante la mia infanzia. Rammento che i miei temi facevano il giro per le classi dell’intero istituto scolastico, ma di essi non conservo particolari ricordi, tranne di uno a carattere introspettivo, svolto a tredici anni in primo liceo scientifico, intitolato “La sera penso”. Il Gesù in croce era la proiezione dell’interiorità di un bambino irrequieto, molto vivace, estremamente sensibile e anche inspiegabilmente sensitivo, in senso metapsichico. Appagato il mio bisogno confidenziale, carezzai il tavolinetto e nel riprendere la mia vita si spense la luce alle mie spalle. Adesso tutto era affidato alla mia mente e alle mie mani, alla mia capacità di scavare nel passato e di utilizzare la mia penna per coglierne sfumature, indizi e peculiarità.

Uno scrittore, d’abitudine, condanna i lettori sufficientemente pazienti a osservare sulla campitura il districarsi di pennellate puntiniste rispondenti a una logica d’assieme coerente e precisa. Il suo tratto è spesso deciso e accademico, duro, contorto, pesante come la vita reale. L’ipotassi sovrabbondante, l’utilizzo di un linguaggio interdisciplinare e sperimentale conferiscono al suo prodotto artistico un prospetto infantile che trova conferma in un aspetto letterario involuto, come a voler propagare l’ossessivo affollarsi grafico presente nell’opera di un pittore inesperto. Qui non sottentra la bravura dello scrittore, che si evidenzia nel rendere semplice e accessibile ciò che è complesso, bensì la determinazione preminente nel costruire di proposito un linguaggio non sempre semplice e immediato con lo scopo di infierire sul lettore, addossandogli il fardello tipico dell’immaturità infantile. Il gioco sembrerebbe tradursi in un esercizio perverso, in un capriccio. Rivelo, invece, che potrebbe condurre a sensazioni mai provate, come il reificarsi di sentimenti e il consustanziarsi di scrittura, arte e vita. L’esperimento consiste nel consegnare alla forma letteraria il compito di sostenere una narrazione frammentata, coerente, astrusa che trasferisce al lettore, per alchimia, il senso e il peso dell’immaturità legata all’età infantile.

La sofferenza è amplificata da nuovi elementi introdotti man mano con la metodica d’indagine tipica della scienza della complessità. Ciò farà in modo che ogni interprete, a partire dall’esperienza personale maturata nella giungla della vita, si ribelli, desti il suo libero sentire e, infine, s’impegni a fondo, senza apparenti condizionamenti, nel ricostruire il suo Cristo in croce.

⁓ II Capitolo ⁓

Lettere di fuoco stampigliate su nuda pietra, teosofiche vicende di un’antropologica liberazione, testa di ponte nell’avanguardia della modernità.

L’immanente e l’anapodittico convergono nel nomotetico, la memoria evocativa discende sin dove le leggi naturali non consentono, per il transustanziarsi di trascendenti velleità. È così che l’io si vede dividuum e unicum, contemporaneamente e immantinente, mentre la faustiana sete trasmuta un’alchemica mente in grado di percorrere itinerari che svolgono dall’abreazione alla capacità di sussunzione inferenziale, dal mito alla rievocazione del mana.

La vita assume, procedendo dal vizio originale alla punizione di Issione, la connotazione di un continuum antinomico costellato di sedimenti che si stratificano e collimano, con cadenza circolare atemporale, iperspaziale e omotetica.

Quanto sforzo si esibisce per esprimere, in definitiva, concetti elementari!

Mi sembra di incorrere quasi in contraddizione, ma la prefata considerazione è essenziale e imprescindibile per cogliere l’irrazionalismo che ci accompagna nel corso della nostra esistenza e di cui sono pregne le imperfette scienze sociali e umane, sempre in lotta intestina e impari con la mostruosa Idra di Lerna.

L’introduzione enucleata contiene un’implicazione teleologica che inerisce al valore e alla significazione di un vissuto plasmato dall’energia etico-spirituale assorbita e riconosciuta nei cori degli svampiti, degli invitti e negli aspetti edificanti di delusi e di angosciati.

M’appresto a presentare uno scorcio esperienziale incentrato, prevalentemente, sulla traduzione di epifenomeni onirici e simbolici.

Anziché consumarmi soffrendo in silenzio, coinvolgo l’idiografico sentire verso passioni non confessate che attivano processi mentali nei quali gli attanti sono spesso vocaboli giocati, come afaniti, in un astruso mosaico di rinvii e intarsi.

Il dolce grembo dell’infanzia: mescolanza di pensieri, sogni, colori e ricordi di un mistagogo!

⁓ III Capitolo ⁓

Tra i grandi valori vitali, capaci di spingerci avanti come fa il vento con le vele, il coraggio figura ai primi posti per importanza. Per quanto possiamo essere bravi o geniali, non arriveremo mai da nessuna parte senza una buona dose di audacia. È sempre l’amore a muovere i miei passi oltre le soglie del rischio e del conformismo.