Il numero che spinge alla riapertura

Nelle previsioni del Centro Studi di Confindustria c’è tutta l’urgenza delle imprese concentrato in una cifra: da maggio in poi ogni settimana di ulteriore blocco del manifatturiero costa lo 0,75% del Pil. Ovvero 13 miliardi

MARCO BERTORELLO VIA GETTY IMAGES

 

La spinta delle imprese a che non si perda tempo e a che il governo inizi fin d’ora a pensare a come far ripartire le attività produttive ferme almeno fino a Pasqua è tutta concentrata in un numero del rapporto del Centro studi di Confindustria sugli effetti del coronavirus sull’economia italiana. Non è tanto la previsione del crollo del pil del -6% quest’anno, cosa più o meno confermata da tanti altri istituti economici, a dare il senso dell’urgenza, in quanto ormai si tratta di un dato abbastanza condiviso e difficilmente si potrà risalire la china in questo 2020. Il numero che davvero fa impressione è un altro: gli industriali stimano che da maggio in poi per ogni settimana di ulteriore blocco delle aziende il sistema Italia perderà un ulteriore 0,75% del pil ovvero una cifra che a spanne si aggira sui 13 miliardi. Quindi più si ritarda la ripartenza e più si perde crescita economica a rotta di collo. E di conseguenza si perdono fatturato per le imprese, salari per i lavoratori, tasse per lo Stato, in un circolo vizioso che può mettere in ginocchio l’Italia. Con implicazioni sociali perfino difficili da immaginare visto che già adesso qua e là in Italia inizia a montare la rabbia dei più poveri e più esposti allo tsunami Coronavirus.

Del resto che le imprese scalpitino e non vedano l’ora di tornare alla produzione anche se non c’è normalità lo si percepisce da tanti segnali arrivati negli ultimi giorni. Ad esempio ieri il presidente di Federacciai, Alessandro Banzato, ha chiesto esplicitamente che le acciaierie italiane possano, seppur con gradualità e tutti gli standard di sicurezza del caso, riaprire i cancelli. In questo caso la preoccupazione maggiore deriva dal comportamento dei competitor: siccome in Spagna, Francia e Germania si continua a produrre, la preoccupazione è di uscire dal mercato una volta superata l’emergenza. Diverse invece sono le motivazioni di un altro settore che pure vorrebbe accelerare la ripartenza: stiamo parlando della meccanica industriale ovvero quell’arcipelago di fabbriche che producono macchine, componenti e ricambi per altre industrie, soprattutto quelle legate alle filiere produttive di beni e servizi essenziali. E infine, come sempre, nel mondo produttivo italiano alcuni territori sono più insofferenti che altri alla serrata nazionale: soprattutto il Nord-est spinge per riaprire i battenti il più presto possibile, basta leggere le dichiarazioni degli industriali veneti e friulani. In generale, comunque, a parte le sfumature, il mondo produttivo ormai fatica a convivere con la serrata forzata.

Dai numeri, dalle fabbriche e dai territori l’allarme che arriva fino a palazzo Chigi è quindi univoco: non si può pensare di tenere chiusa totalmente l’Italia più di un altro paio di settimane. Anche perché più lenta sarà la capacità di reazione, più sarà difficile far ripartire i consumi delle famiglie, gli investimenti pubblici e privati e l’export italiano. E tanti più soldi pubblici serviranno per evitare che il paese sprofondi in una crisi sociale durissima. Del resto le parole dell’ex presidente della Bce, Mario Draghi, affidate la settimana scorsa al Ft si coniugano ben con le preoccupazioni degli imprenditori, soprattutto quando sottolinea come debba servire “da monito la memoria delle sofferenze degli europei durante gli anni Venti”. Appunto, bisogna evitare gli errori del passato, bisogna evitare che la pandemia si trasformi in una nuova Grande Depressione.