MESOGEA, di Leonardo Migliore

– MESOGEA –

di Leonardo Migliore 

Il mondo è un’alluvione vagante 

fra le creste cutanee di un polpastrello.

Al termine della piena, asciugo i miei occhi,

raccattando un secchio di detriti:

il passato e l’incertezza che mi riserva il futuro.

Nella notte buia,

sul mio letto incombe un fosco avvenire,

il groviglio di una matassa

si dipana

in un muto cielo 

gravido di pensieri.

Vado ramingo fra macerie e bronchi infiammati

nel plesso vascolare 

dell’ultimo ospedale del mondo,

perché sia soccorso il mio derelitto papà.

Le paure della notte han fame di vita,

l’indolenza è il mio peggior nemico.

Nell’ombra penzola un telefono,

insanabile, come le rovine di una fortezza,

è la malattia che affligge mio padre.

Con la testa poggiata sul guanciale,

una fitta improvvisa,

un secco affondo di baionetta che sventra la materia ostile.

In un materasso a molle

s’aprono squarci di sole 

e praterie fibrose di calda lana refino.

È un ambiente avverso,

una steppa che si gremisce di ritorti fusti metallici

recanti foglie dal margine dentato

e fiori che sviluppano acheni.

Sembra una folla di bizzarri tarassachi color acciaio opaco.

Né monti né vita animale,

solo una pianura che disanima,

un orizzonte sconfinato e raggelante.

La vegetazione mi proietta in una regione interna dell’Attica.

Desidererei che almeno possegga degli argini,

che sorga a occidente, a forza di cùbiti, 

il monte Imetto.  

Nasce pietra su pietra

e la “terra di mezzo” m’accoglie.

Trovo, così, un limite al fardello delle mie responsabilità,

nel silenzio assoluto,

nella stagione amara del presente.

Intingo le dita 

nella scarsa acqua che ristagna

sul resto vestigiale delle membrane nittitanti 

dei miei occhi ancora umani.

È appena uno spruzzo di rugiada,

un vezzo per verniciare le spire elastiche

coi colori del ricordo.

“Ponente

case di pescator contente”.

Su vento, soffia!

Su, alita sulle cìpsele delle asteracee,

fai che ciuffi di peli bianchi di pappi

diventino paracaduti che disperdano

i semi spiccati dai capolini.

Fai che vengano deposti in terreni adatti alla germinazione,

che nasca nuova vita

per ricacciare l’oscurità nei suoi antri,

per ricucire strappi emotivi,

per sgombrare l’animo dalle preoccupazioni.

Ora fra me e l’infinito esistono catene rocciose.

Ho un valico da affrontare ogni giorno,

assisto a un diorama nel quale, 

ai due lati della sua gigantesca tela traslucida,

sono dipinti due volti.

Assiso fra gli spettatori, 

osservo espressioni cangianti 

e da una prospettiva distinguo nitidamente la mia faccia magra, ossuta, angolosa,

pallida ed emaciata per la sofferenza

e dall’altra grassa, tonda, di luna piena,

fresca, bella e florida per la gioia.

Illusione, sovrapposizione ed effetti

riproducono un drammatico gioco di conflitti.

Sfumature dello stesso “io” rievocano episodi pietosi.

Passo dopo passo, varcherò ogni dì un confine,

saluterò il mio viso nell’ora che volge al vespro

e l’indomani ne indosserò uno nuovo 

per scarpinare dalla mattina alla sera.

Cima dopo cima, spero che m’attenda il mare

e spiri il rezzo del favonio 

favorevole allo schiudersi dei germogli

e alla crescita delle piante.

_ “Viandante davanti al mare di nebbia”,

di Caspar David Friedrich,

1818 circa, olio su tela, 95 x 75 cm.

Amburgo, Kunsthalle.