Passava l’aspirapolvere dal muro alla finestra su ogni piastrella grigia della soffitta; sui solchi smossi tra una fila e l’altra rallentava la spinta e si faceva più cauta. Dopo aver superato lo stendino del bucato e gli scaffali delle scarpe, guardò davanti. Era il momento di fermarsi, da lì in poi non era più sicuro avanzare.
Il rumore assordante del motore la pressava, i ciuffi di polvere ammassati fra fili elettrici e telai la inchiodavano lì, aveva voglia di pulire.
I primi striscioni di ruggine cominciavano dalla fila successiva. Senza sapere perché, non tornò indietro a spegnere e raccogliere il cavo. Andò oltre. La spazzola strisciava a fatica sull’umidiccio del pavimento chiazzato di gocce di aceto e muffa, lei sforzava il bastone nelle mani perché scivolasse più veloce. Le piaceva il brivido che le pizzicava la schiena. Spinse via la vecchia scatola dei giochi imputridita e quella marcia di album di fotografie. Quanti anni erano passati dall’ultima raccolta? Non aveva più tenuto il conto. I segni di ruggine si sommavano a quelli di sangue secco e peli, deglutì e fece una sosta. Non aveva il coraggio di guardare oltre il muro del camino, così gettò uno sguardo alle buste chiuse dell’attrezzatura da montagna. Erano lì da quella volta che la Cosa ci aveva schizzato sopra il liquido puzzolente e acido.
Nessuna reazione, ancora. Forse si era ritirata in un cunicolo del camino e non si era accorta che lei aveva superato il confine. Pensò avesse avuto già molta fortuna e che avrebbe dovuto tornare indietro. Ma era più forte di lei.
Si accorse che una riga di mattonelle davanti non era impiastricciata di schifezze, poteva arrivare al finestrino e raccogliere mosche e cimici ammassate a terra. La piccola botte nell’angolo aveva assorbito l’aceto vecchio di tre anni diventando arancione, il bordo sul pavimento era un alone bordato di rosso, continuò a guardarlo sospettando che a sinistra avrebbe visto la testa di un gatto e il ventre aperto e mezzo mangiato, come la prima volta che aveva guardato. Quando ancora non sapeva. Miù, le sembrava lo chiamasse la signora della casa davanti, tre giorni prima non era rientrato — uno a uno, erano scomparsi tutti — lei le aveva detto di tenerlo chiuso in casa, di più non poteva spiegarle.
Con un ultimo scatto arrivò in fondo e raccolse ogni cimice e mosca morte stecchite per l’acidità delle pareti. Provò un sottile piacere a ripulire quello spazio riguadagnato di casa sua. Un mucchio ingombrante di ragnatele ammassate e vecchie penzolava dall’angolo in alto. Staccò il braccio e allungò il tubo per aspirare più in fretta.
Aveva fatto. Si domandò perché fosse tanto importante, voleva dimostrare che non aveva paura. Però questa volta aveva corso un grosso rischio. Si vide già in cucina a scolarsi il Ballantine’s per scaricare l’adrenalina. Con la coda dell’occhio si sincerò che il sottotetto fosse libero e vide l’ammasso nero e peloso che acquistava volume. Sentì freddo all’improvviso. Tornò indietro di corsa, raccogliendo il tubo mano a mano che si avvicinava alla bocchetta. Le sembrò molto più lungo e pesante delle altre volte perché si rovesciava a terra facendola inciampare. Il rumore battente che accelerava alle sue spalle la gettò nel panico. Lo stomaco si strinse provocando un spasmo che salì alle gambe e alla testa. Il terrore cieco la spingeva, ma le gambe tremavano. Non sapeva dove nascondersi. Inciampò sul tubo che si attorcigliò ai suoi piedi e sbatté contro gli album di foto. Uno si aprì sull’ultima escursione sul vulcano. Sorridevano tutti, erano ancora una famiglia felice. Si rialzò ansimando e gemendo e ricadde trafitta a una gamba da una punta. Il dolore lacerante scoppiò nel cervello, spalancò la bocca, ma non uscì nessun grido. L’ammasso nero la scavalcò e un becco si aprì sopra di lei. Mentre le entrava dentro ebbe il tempo di leggere le scritte sullo scatolone vuoto del forno a microonde: Please read the enclosed instruction completly.

Michela Santini

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